Don Gallo, le ragioni tracotanti di Bagnasco

Pierfranco Pellizzetti
www.micromega.net

Con don Gallo – dopo Fabrizio De André – scompare la seconda icona a largo spettro mediatico della genovesità-contro, che si è fatta corazza della propria ostentata fragilità. Un “contro” largamente metabolizzabile da parte di una vasta audience alla ricerca di miti rassicuranti, in quanto purificato dalle asprezze dei riferimenti specifici; dunque, con notevole presa ecumenica proprio perché genericamente condivisibile.

De André non era Luigi Tenco, come si direbbe oggi irrimediabilmente “divisivo”, e neppure il suo inarrivabile modello degli inizi: Georges Brassens, lui sì davvero anarchico, non il figlio del presidente di Eridania Zuccheri cresciuto nella villa cinquecentesca sull’esclusiva collina di Albaro. Don Gallo non è mai stato sfiorato dal pensiero che le sue rotture verbali avrebbero dovuto comportare l’immediato abbandono dell’abito da prete, seppure “di strada”. Quell’abito che trasformava in spettacolo affermazioni del tipo “dio è antifascista” o “Gesù vota Rifondazione Comunista”, che altrimenti sarebbero restate parole come altre, innocue e ben poco notiziabili.

In effetti don Gallo strumentalizzava il politainment (nel tempo in cui quello che conta è apparire) e ne era strumentalizzato (da tutti quelli che lo consideravano un’utile pezza d’appoggio per le loro polemiche anticlericali). Fermo restando che la massima strumentalizzazione nei suoi confronti (alla faccia degli anticlericali “entristi”, alla ricerca di un’ipotetica “altra” Chiesa) fu sempre messa in atto proprio da parte di quella gerarchia con cui manteneva un rapporto ambivalente: di critica e – al tempo stesso – di sottomissione.

Quella gerarchia che, nella sua storia, è sempre stata abile nel coltivare figure di confine che ne accreditassero l’ipotetico pluralismo, senza dover concedere nulla di effettivo a questa istanza incompatibile con la Chiesa reale, che è ciò che è: un’agenzia di consolazione del dolore su cui pone le proprie fondamenta bimillenarie l’istituzione di potere. Che per svolgere al meglio l’opera di colonizzazione delle menti ha bisogno dei don Andrea come ne ebbe dei san Francesco: il “poverello d’Assisi” a lungo sospettato di eresia e poi utilizzato nella lotta di sterminio rivolta contro i veri eretici. Un’altra figura non divisiva in quanto innocua per gli equilibri dati, sicché tutti possono farla propria (e magari piangerla lacrime bipartisan, laico/clericali).

Per questo Bagnasco, nella sua tracotante impoliticità, alle esequie del “prete degli ultimi” si è fatto scappare il riferimento scandaloso alla buonanima (?) del cardinale arcivescovo Giuseppe Siri, espressione per buona parte del Novecento del pensiero reazionario clericale (e anche delle sue pulsioni affaristico-immobiliari).

Mossa infelice quanto sincera: la vera chiesa è quella lì, il resto sono solo operazioni d’immagine.

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Dove vola l’avvoltoio

Walter Peruzzi
www.cronachelaiche.it

E’ destino dei cattolici del dissenso muoversi lungo l’incerta linea di confine che separa l’eresia dalla complicità finendo per essere, volta a volta, spine nel fianco della Chiesa, di cui denunciano le vergogne, o foglie di fico che le coprono, restituendo all’istituzione un credito immeritato.
Si potrebbe anche dire che molti di loro si muovono lungo tale linea fino a essere alternativamente l’una cosa e l’altra, in una costante ambiguità, e fungendo in ultima analisi da copertura di sinistra per l’istituzione, che li emargina e li usa in base al tornaconto del momento. Così la Chiesa fece con i cattolici liberali del risorgimento o con i cattolici democratici sotto il fascismo e così continua a fare oggi con i molti cattolici pacifisti, antirazzisti, impegnati contro la mafia o contro Berlusconi, che a queste lodevoli iniziative abbinano un deplorevole silenzio se non un’aperta condivisione (cito per tutti Pax Christi o Famiglia cristiana) quando si parla di «valori non negoziabili».

Non mancano tuttavia alcuni cattolici (pochi ma buoni), che sono prevalentemente scomode spine nel fianco per la franchezza con cui sbugiardano e criticano la Chiesa proprio sui famigerati «valori non negoziabili». Si tratta di laici o preti cattolici che si battono al fianco dei “laicisti” per le coppie di fatto, contro l’omofobia, per l’eutanasia, per il diritto d’aborto e contro l’ora di religione o contro l’esposizione del crocifisso negli spazi pubblici. Cattolici come Enzo Mazzi, il parroco dell’Isolotto, non per caso colpito dalle censure ecclesiastiche in vita e ignorato in morte, o come don Andrea Gallo, il cui funerale è stato salutato dai pugni chiusi, al canto di «Bella ciao». Rispetto a Mazzi, però, Gallo aveva un di più di risonanza mediatica che ha reso impossibile alla Chiesa ignorarne la morte e ha consigliato al generale Angelo Bagnasco di celebrarne i funerali, anche a costo di sfidare quel dissenso cattolico che si era raccolto intorno al «don».

Così al pacifista Gallo è toccato di essere benedetto, insieme alla bandiera arcobaleno, dallo stesso aspersorio che il general Bagnasco adopera per benedire le truppe – con i fedeli che zittiscono l’ipocrita omelia cardinalizia, ma subito dopo se ne scusano, ristabilendo l’autorità del vescovo. Si tratta di un’ambiguità inevitabile se, come ha detto Luigi Ciotti, «Andrea era per la Chiesa che non dimentica la dottrina, ma che non permette diventi più importante dell’attenzione agli ultimi». Il guaio, infatti, è proprio la dottrina. Quella insensata in materia sessuale (che Gallo almeno, ma non Ciotti o Zanotelli, pubblicamente irrideva). Quella del peccato originale, messo in conto a un’umanità incolpevole da un dio capriccioso e ingiusto. Quella dell’infallibilità di papi e concili, cento volte smentita dalla storia. Quella della giustizia che il Gesù dei Vangeli, nonostante le leggende sul Gesù socialista, rimanda – per tranquillità dei ricchi epuloni – all’altra vita.

Se non si dimentica questa dottrina, e non si rompe con essa, nessuna attenzione agli ultimi potrà bastare. E ai cattolici del dissenso non basterà neppure essere spine nel fianco da vivi per avere la sicurezza di non diventare foglie di fico da morti.