194, prima la donna poi l’obiettore

Maria Mantello
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La legge 194, “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, arrivò nel 1978, dopo molti anni di dure lotte delle donne.

Nel 1975 anche la Corte Costituzionale (sentenza n°27) era intervenuta sulla questione evidenziando come la salute del concepito non potesse far passare in subordine il diritto della donna a ricorrere all’aborto terapeutico: «l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione».

La Consulta apriva un varco alla legittimazione dell’interruzione volontaria di gravidanza a tutela della salute psico-fisica della donna che vi ricorreva.

Ma ci vollero altri tre anni di durissime lotte, di accesissimo dibattito pubblico, di donne morte per aborto clandestino. Alla fine la legge 194 arrivò. Confermata dal referendum del 1981, promosso dai clericali per abrogarla. Il 68% degli italiani votò no, contro appena il 32% di sì. L’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) non era più reato come prevedevano i residui di leggi fasciste.

Nel tentativo di mediare per l’approvazione della 194, venne introdotto il ricorso all’obiezione di coscienza. Per cui il medico si può rifiutare di praticare l’aborto volontario, in quanto contrasta con la sua personale visione.

Un codicillo a cui spesso si appiglia negli ospedali il personale medico e paramedico anche al di là della pratica concreta dell’intervento di interruzione di gravidanza (chirurgico o farmacologico che sia), addirittura facendo mancare l’assistenza dovuta alla paziente già ricoverata.

Una volta praticato l’aborto terapeutico, infatti, c’è anche il rischio per la donna di subire l’umiliazione e il pericolo per la sua salute di essere abbandonata a se stessa, se magari si imbatte a cambio di turno, in un obiettore che in quanto tale si sente autorizzato a negarle le dovute cure.

A condannare almeno questa vergogna è però intervenuta un’importante sentenza della Corte di Cassazione del 2 aprile 2013, che ha confermato la sanzione a un anno di carcere con interdizione dall’esercizio della professione per un medico di guardia in un ospedale di Pordenone, che si è rifiutato di soccorrere una paziente che aveva abortito e rischiava un’emorragia.

Una sentenza rilevante, questa della Cassazione, perché oltre a chiarire che la legge 194 non prevede l’obiezione nelle fasi precedenti e successive all’Ivg, precisa anche che, in ogni caso, «il diritto dell’obiettore affievolisce, fino a scomparire, di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute».

Attualmente, a causa dei medici obiettori, la donna che ricorre legalmente alla 194 (oltre al suo dramma personale) si trova di fronte alla tragedia di dover reperire un ospedale che la faccia abortire, perché la risposta che sempre più spesso riceve è di questo tipo: “qui sono tutti obiettori, deve cercarsi un altro ospedale”.
Questo a fronte del netto calo del ricorso all’IVG, come ci informa il rapporto 2012 del Mistero della Salute, dove l’Italia, tra i paesi industrializzati, risulta agli ultimi posti.

Da 1982 al 2010 il decremento dell’aborto terapeutico è stato del 53,3%. Vale appena sottolineare che il calcolo nazionale – ogni 1.000 donne in età feconda tra 15-49 anni – registra un 8,3% nel 2010, e un 7,8% nel 2011.

Siamo di fronte ad un paradosso dunque: diminuisce il ricorso all’aborto volontario, aumentano vertiginosamente gli obiettori, soprattutto tra ginecologi e anestesisti. (Forse si tratta di carriera, più che di coscienza? Chissà!)

I dati del rapporto 2012 del Ministero della Salute ci dicono che i ginecologi obiettori nel 2005 erano il 58.7%, nel 2006 sono diventati 69.2%, nel 2007 il 70.5%, nel 2008 il 71.5%; una lieve decrescita c’è stata tra il 2009 (70.7%) e il 2010 (69.3%).

Anche gli anestesisti obiettori sono aumentati: dal 45.7%, nel 2005, al 50.8% nel 2010. Stessa storia per il personale non medico, che da un 38.6% del 2005 è passato al 44.7% del 2010.
Le percentuali più alte di obiettori si trovano soprattutto nelle Sud d’Italia, dove i ginecologi superano l’80% (Molise: 85.7%, Basilicata: 85.2%, Campania 83.9%, Sicilia: 80.6%); gli anestesisti arrivano in Sicilia al 78.1%; il personale paramedico e ausiliario raggiunge l’86.9% in Sicilia e il 79.4% in Calabria.

Allora, bisogna ripartire dalla sentenza della Corte Costituzionale del 1975: se due diritti creano un irriducibile contrasto tra i soggetti che ne sono portatori, la legge non può dare protezione unilaterale ad una parte, a scapito dell’altra, come purtroppo avviene oggi, visto che il ricorso all’obiezione di coscienza sempre più sembra essere il diritto di prepotenza contro il diritto di tutela della donna alla maternità voluta e responsabile.

Poniamo che un testimone di Geova facesse il medico, e si rifiutasse di praticare una trasfusione di sangue a un paziente in nome della sua religione, sarebbe accettabile? Si griderebbe allo scandalo! Ma allora lo Stato italiano, può permettere nel caso dell’Ivg, che la libertà di coscienza del medico e dei suoi aiutanti, sia superiore alla libertà di coscienza della donna?