In Turchia non c’è rivolta ma resistenza

Enzo Terzi
www.articolo21.org

Ogni giorno che passa in Turchia la scommessa del movimento diventa sempre più grande. Lo chiamano movimento (nome che niente ha a che fare con certe nostrane sperimentazioni) non sapendo come altrimenti chiamare questa moltitudine, anche per il significato onomatopeico del nome, tanto è ondivago, sfuggente, imprevedibile, privo di ogni etichetta sia politica che religiosa. Un movimento che risponde al richiamo non della rivolta ma della resistenza.

Hanno molto insistito tutte le persone contattate a chiarire questa enorme differenza. La loro non è una rivolta contro il proprio paese ma un tentativo di resistere alla politica antilibertaria che il capo del governo, Erdogan, ha fino ad oggi attuato con una crescente e sprezzante sicurezza che è divenuta per molti sinonimo di arroganza fascista, per molti altri violazione dei principi democratici, per altri ancora progressivo impoverimento della libertà. Anche qui sottili (ma non troppo) differenze che tuttavia diventano simbolo della complessità di tendenze, idee politiche, religiose e pensieri comuni che costituiscono l’anima di questo movimento popolare.

E’ il primo movimento di resistenza del ventunesimo secolo ci tengono a dirmi, il primo della storia moderna della Turchia. La prima volta che questo popolo ritrova in una voglia di libertà, lo spirito per riunificarsi sotto la bandiera stavolta infiammata di passione di una Turchia che stavano perdendo, che stavano vedendo dissolversi per diventare il nuovo regno del Sultano Erdogan.

Parli con loro e non ti raccontano delle botte che prendono, dei gas che respirano, delle difficoltà che potranno esserci quando, da oggi, inizieranno gli scioperi generali (casualmente oggi, il 4 giugno, anniversario di Piazza Tienammen anche se non vi è relazione alcuna se non la casualità della ricorrenza). Le prove di quanto sta succedendo te le puoi trovare in rete mi dicono, è piena la rete, twitter, facebook, di immagini e filmati di quanto sta succedendo. Chiedici chi siamo e cosa faremo. Ti dicono che solamente da ieri le televisioni di stato hanno iniziato a raccontare dei fatti che stavano succedendo, prima solo una Tv privata mandava in onda notizie e video degli scontri. Ti raccontano che è stato grazie a telefoni, facebook e twitter che a cominciare dal 28 maggio si è diffusa la resistenza. La resistenza, non dimenticarlo, insistono.

Ed è una resistenza che si sta spandendo a macchia d’olio. Una resistenza che ha superato non solo le barriere religiose ed anche politiche (molti islamici hanno aderito al movimento che probabilmente è all’inizio nato tra le fila laiche). Molte moschee sono state aperte e trasformate in centri di pronto soccorso, anche quella famosa a tutti gli occhi del mondo, di Dolmabache. Una resistenza che è entrata dentro le case tanto che ogni sera, calato il sole, inizia la protesta delle pentole che battono sui cucchiai, la protesta delle luci che si spengono e si accendono, trasformando quartieri interi di Istanbul, città come Izmir, Ankara, Antalaya in enormi e tremolanti paesaggi di luci fatue, dove, per contro, il fragore dei coperchi fa salire alto l’urlo di una popolazione che sta riscoprendo quanto sia importante, quanto sia potente essere “omuz omuza”, spalla a spalla. Una popolazione che manifesta ed il giorno dopo, nonostante i gas, i getti d’acqua al peperoncino, i manganelli, i gesti di gratuita violenza istituzionale (tanti purtroppo e tutti nei video e nelle foto e da oggi anche trasmessi dalla CNN), prende i propri figli a va a pulire il Gezi Park, che all’indomani si presenterà, agli occhi del mondo intero, come un parco e non come un immondezzaio. E quelli che sembrano spesso gesti incomprensibili, scopri invece che fanno parte della storia di questo paese. Accendere e spengere le luci ad esempio è un gesto che nacque nel 1997 quando, a seguito di un incidente stradale nel quale morirono personaggi importanti della politica di allora che non avrebbero certo dovuto trovarsi insieme (ma questa è un’altra storia), naque il “Sürekli Aydınlık İçin Bir Dakika Karanlık Eylemi” che letteralmente vuol dire “1 minuto di buio per una luce che duri per sempre”. Espressione che denominava la forma di protesta con le luci, messa in atto ogni sera nell’intento di far decollare il processo per capire cosa stesse succedendo, grazie anche ad una iniziativa del quotidiano Cumhuriyet e della Açik Radyo. Altri mi riportano versioni differenti ed episodi cittadini che a detta loro avrebbero la paternità di questa forma di protesta. Ma non è certo importante tutto ciò, quanto sentire ogni sera il concerto di quelli che Erdogan, in uno dei suoi sprezzanti interventi televisivi, ha definito “Çapulcu”, termine la cui traduzione italiana è molto simile a “farabutti”. Un veleno questo che unitamente al pugno duro tenuto dalle forze dell’ordine sta dimostrando l’incapacità dell’ex-sultano di governare, facendogli rapidamente perdere consensi in quel teatro internazionale che fino solo a pochi giorni fa, fino al 27 maggio invero, nessuno al mondo sarebbe stato capace di contestargli.

Le ragioni politiche di tutto questo ci sono ma non ci sono i meccanismi che potrebbero far nascere un partito, almeno per adesso, e forse non ci saranno mai. Il più grande dei tesori è in parte già stato scoperto: la solidarietà tra gente che spesso, fino a pochi giorni fa, neanche sapeva di avere così tanto in comune.

Gli ultimi anni, allorquando all’aumento della ricchezza ha corrisposto la diminuzione della libertà e dei diritti, sono il terreno sul quale una buona parte del popolo turco si sta ricostruendo una identità. Certo, molto più nella parte occidentale del paese, da sempre più ricca ed emancipata (ma d’altronde Costaninopoli ed ancor prima Bisanzio erano lì dove si trova oggi Istanbul; non è un’invenzione dell’occidente questa) anche se ad Ankara, la capitale, nel bel mezzo della difficile Anatolia, mi raccontava proprio oggi una signora di una certa età, molta gente comincia a non poterne più dei modi arroganti di un premier per il quale, anno dopo anno, tutto sembra sempre più dovuto.

A chiunque si domandi, oggi nessuno è in grado di dire cosa ne sarà del movimento, quale la sua possibile trasformazione o evoluzione in senso politico. Oggi, dicono, intanto, c’è qualcuno da mandare a casa. Poi si vedrà. Certo sembra molto improbabile che all’interno degli attuali nomi di spicco sia del governo che dell’opposizione qualcuno possa ambire alla successione ma, con sorriso ironico, mi dicono che proprio noi, italiani, dovremmo saperlo come possono andare le cose. Domani è un altro giorno. Intanto, sono le 21. Ad Izmir sta cominciando il concerto della sera e tra poco anche in altre città. Il programma, di grande successo in queste settimane, prevede il “crescendo per pentole e padelle” e la “serenata delle lucciole”. Domani altra giornata di sciopero generale. Il braccio di ferro è cominciato.

Intanto twitter non si stanca di ripetere come una litania, con tutti gli hastag possibili e immaginabili (oltre 10 milioni fino ad oggi gli hastag utilizzati), il solito messaggio: “Si ricorda tutti di non danneggiare i beni comuni. Si ricorda di non usare violenza. Si ricorda di stare attenti che girano notizie infondate. Verificate sempre”. Ed in molti, molti davvero, sembrano ascoltare.
E dove twitter non arriva, il tam-tam delle pentole di casa è certo linguaggio facile ed internazionale, un linguaggio che riporta alla famiglia, alla casa, a quella Turchia che ciascuno di loro ha nel cuore, con un senso di appartenenza ad una terra a noi incomprensibile e sconosciuto.

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Turchia, il web mette paura. Perché è voce di libertà

Pino Scaccia
www.articolo21.org

Il web mette paura. Perché è voce di libertà. Succede a ogni rivoluzione: succedeva in Libia quando Gheddafi oscurava la Rete, succede in Siria, è successo nei giorni scorsi addirittura in Cina per bloccare le celebrazioni di Tienanmen. Sta succedendo in maniera pesante anche in Turchia. Durante la notte a Smirne sono stati arrestati venticinque giovani e altri quattordici sono ricercati per un semplice tweet. Questo: “Taksim è ovunque, ognuno di noi è un albero di Gezi Park”. L’accusa è di incitamento ai disordini e propaganda. Secondo Ali Engin, responsabile locale della principale forza politica di opposizione, il Partito repubblicano del popolo, avevano “invitato la gente a scendere in piazza, dando informazioni false e diffamatorie”. Non casualmente qualche giorno fa il premier Erdogan aveva definito i social network una “cancrena della società”.

L’attacco al web è ormai sferrato. Il governo turco, insieme alla Commissione Informatica (BTK) ha deciso di introdurre filtri a partire dal 22 agosto con lo scopo di “proteggere gli utenti”. In questo modo il governo viola non solo la Convenzione Europea sui Diritti Umani, ma anche la stessa costituzione turca, secondo quanto riportano Reporters Without Borders e Bianet: quest’ultimo, già oggetto di censura in passato, giustamente parla di censura politica. Gli utenti di internet saranno costretti a scegliere uno dei quattro pacchetti previsti: famiglia, bambini, domestico o standard. I siti web saranno filtrati in base alle preferenze del BTK, ma non saranno rese pubbliche le liste dei siti bannati.

Saranno 138 le parole proibite: fra cui “masturbazione, donna, gay, studente”. Sono le parole che il Direttorato per le Telecomunicazioni turco ha deciso di bandire dai domini internet per preservare la moralità del popolo, anche online. La settimana scorsa, infatti, le autorità hanno inviato una circolare agli internet provider, intimando loro di chiudere tutti i siti che contengono nell’indirizzo web un vocabolo della lista vietata e di impedirne l’apertura di nuovi che violino la direttiva ufficiale. Un anno fa, dopo il blocco di Facebook in Bangladesh e Pakistan, Istanbul aveva deciso di bloccare alcuni servizi di Google tra cui Analytics, Mail e Documenti per puntare nuovamente a oscurare YouTube. L’intenzione della circolare sulle ‘parole amorali’ esprime la volontà di spingere gli internauti all’autocensura ed è il primo passo verso l’attuazione di provvedimenti più restrittivi. La censura in Turchia blocca già oltre 7000 siti, fra i quali Blogspot, YouTube ed ora anche Vimeo, a causa di un documentario sulla centrale idroelettrica intitolato “La rivolta dell’Anatolia”. I netizen di tutto il mondo scuotono la testa ancora una volta, come quando nel 2007 arrivò la prima censura a YouTube in seguito alla pubblicazione di video che insultavano Kemal Atatürk – qualcosa che riguardò anche Google, Radio e televisione non sono escluse dalla censura: così “Sex and the City II” viene bannato perchè mostra un matrimonio gay e le sigarette vengono offuscate sugli schermi televisivi; ma ancora più seri sono gli attacchi rivolti a giornalisti del paese, che vorrebbero mettere a tacere le loro voci. La Turchia è il paese con più giornalisti in carcere al mondo, e solo recentemente è stata oggetto di attenzione dell’opinione pubblica internazionale in seguito all’arresto di Ahmet Şık e Nedim Şener, due giornalisti delle testate Radikal e Milliyet. Şık stava per pubblicare un lavoro illuminante sul Fethullah Gülen (L’esercito dell’Imam), mentre l’ultimo libro di Şener racconta le menzogne degli apparati delle forze dell’ordine a proposito dell’omicidio di Hrant Dink, nel quale sarebbero coinvolti membri dell’esercito ed alti funzionari di polizia.

Ma i due giornalisti non sono soli: fra il 24 marzo e l’11 maggio in Turchia sono state arrestate 2506 persone. Un blogger, Ahmet, per contestare il provvedimento del Tip, ha realizzato una pagina che contiene ben sette parole probite nell’url e l’unico link che compare rimanda al sito dell’autorità per le telecomunicazioni. Per ora non è ancora stata oscurata.