Quando il pregiudizio omofobico diventa rispettabile. Intervista a Margherita Graglia

Lidia Borghi
Tempi di Fraternità, maggio 2013

Nel 2012 la casa editrice Carocci Faber ha dato alle stampe il libro “Omofobia”. Strumenti di analisi e intervento, scritto dalla psicologa e psicoterapeuta Margherita Graglia.
Il testo fornisce una scientifica analisi aggiornata del fenomeno dell’omofobia, altrimenti detta omonegatività sociale e, dopo aver approfondito le modalità con le quali essa si manifesta, offre a chi legge alcuni preziosi strumenti operativi per intervenire nei più disparati àmbiti sociali, al fine di sensibilizzare le addette e gli addetti ai lavori in merito ai pericolosi meccanismi di esclusione cui vengono sottoposte le persone lesbiche, gay e transessuali/transgender nel momento in cui subiscono gli effetti, sia immediati che a lungo termine, di quell’insieme di parole d’odio e di comportamenti negativi che la società in genere considera, a tutti gli effetti, un pregiudizio rispettabile.

Perché l’orientamento omosessuale è stigmatizzato e quando iniziò ad esserlo?

La storia della stigmatizzazione dell’orientamento sessuale è lunga e complessa; in epoca cristiana iniziarono le prime persecuzioni, l’omosessualità venne inserita nel paradigma del peccato-reato; in seguito con la psichiatria ottocentesca si passò al paradigma della patologia, l’omosessualità divenne un’entità clinica. Come spiego nel libro “Omofobia. Strumenti di analisi e intervento” (Carocci, 2012) l’orientamento omosessuale è stato e continua ad essere stigmatizzato per una varietà di cause, le principali sono culturali e sociali.
Queste sono sostenute da un sistema cognitivo umano che ha bisogno di semplificare e ridurre l’esistente in categorie. È interessante analizzare i significati socio-culturali che sono stati assegnati all’omosessualità, in questi possiamo rintracciare le origini dello stigma. Ad esempio, per capire meglio potremmo chiederci: perché di fronte all’immagine di due uomini che si baciano reagiamo, come cultura, più negativamente rispetto all’immagine di due uomini che si stanno fronteggiando con una pistola?
Un aspetto cruciale che spiega la persistenza dell’omonegatività è il fatto che essa svolge delle precise funzioni psicosociali. È la tesi del mio libro. Faccio un esempio, quando si racconta una battuta anti gay la maggior parte delle persone ride, non così se si racconta una barzelletta sugli ebrei. Raccontare barzellette sui gay significa aumentare la propria popolarità. Finché sarà così e non sarà invece giudicato come un comportamento omofobo sarà difficile contrastare l’omonegatività. Una definizione di omonegatività potrebbe dunque essere: un pregiudizio rispettabile.

Omofobia ed omonegatività: quando è opportuno usare la prima parola e quando la seconda?

Preferisco parlare di omonegaività piuttosto che omofobia per diverse ragioni. La principale riguarda il fatto che la paura non costituisce la sola motivazione per spiegare questo fenomeno. Un altra è che la parola omofobia mette l’accento sull’aspetto individuale e non sociale che invece è il terreno di coltura delle rappresentazioni negative dell’omosessualità.
Potremmo chiederci perché esiste ancora l’omofobia/omonegatività essendo oramai l’omosessualità considerata dall’OMS e dalle organizzazioni internazionali di professionisti della salute mentale una variante naturale dell’espressione erotico affettiva. Le ragioni sono molteplici, una di queste è che ciò che non conosciamo ci può far paura, e questo richiama il concetto di omofobia, per questo è importante diffondere la conoscenza su questi temi; un’altra spiegazione riguarda il fatto che all’omosessualità sono stati attribuiti nel corso della storia significati negativi come peccato, devianza, inversione di genere su cui occorre ancora lavorare per decostruire stereotipi e pregiudizi ed è difficile sradicare queste rappresentazioni, specialmente quando vengono ancora divulgate dai media o dalle istituzioni. Il termine omonegatività è dunque più generico, non offre indicazioni motivazionali e include tutte le dimensioni: individuale, sociale e culturale.

Omofobia e transfobia: quali correlazioni?

Gli atteggiamenti di avversione nei confronti delle persone omosessuali e transessuali hanno una matrice socio-culturale comune: la sessuofobia e una visione dicotomica e stereotipizzata del genere. I meccanismi di esclusione sociale sono molto simili, tuttavia le persone transessuali/transgender scontano uno stigma particolarmente forte, a volte perché risultano maggiormente visibili (ad esempio per il nome sui documenti di identità che non corrisponde al genere) e non avendo l’opzione dell’invisibilità sono direttamente discriminabili. Le persone LGB hanno invece la possibilità di nascondersi, una risorsa di protezione in taluni casi, in altri un velo calato sulla propria identità che rischia di soffocare e deturpare il proprio volto.

Le radici sociali dell’omofobia: perché è un errore individualizzarla?

Se si trascurano le radici sociali, si rischia di colpevolizzare i singoli individui, ignorando che è invece un preciso sistema socio-culturale che innesca, mantiene e alimenta l’aggressione e lo stigma nei confronti delle persone LGBT. Il lavoro di riduzione del pregiudizio e di contrasto degli atteggiamenti omonegativi deve sì sensibilizzare i singoli, ma procedendo contemporaneamente a creare contesti (istituzionali, educativi, sanitari, comunitari) che sappiano realmente accogliere tutti, individuando i meccanismi sociali di esclusione.
Certamente gli individui restano responsabili delle azioni che commettono, ma le istituzioni sono responsabili di elicitare (dal latino elicitare, “tirare fuori”. In psicologia: riferito a comportamenti o condotte, stimolarli, ottenerli mediante domande o altri stimoli. n.d.a.), sostenere, alimentare, incrementare le reazioni emozionali dei singoli quando questi vivono in contesti che denigrano, svalutano e aggrediscono i comportamenti e le identità omosessuali.

L’altra faccia della medaglia: che cosa le persone LGBT possono fare?

Nell’azione di contrasto all’omonegatività tutti gli attori sociali sono indispensabili; occorre che si crei una sinergia di interventi (individuali, sociali, istituzionali). Nel libro illustro proprio quali sono le azioni che possono essere progettate ed attuate nei vari contesti: in famiglia, a scuola, nei contesti sanitari, in quelli religiosi, in quelli sportivi, nei luoghi di lavoro, ecc. Le persone LGBT possono essenzialmente intervenire in alcuni modi:
1) lavorando sulla propria omo/transnegatività interiorizzata in modo da non colludere con un sistema che le vuole escludere dai diritti fondamentali e dunque innanzitutto riconoscere il furto che le istituzioni italiane compiono nel momento in cui le privano di un riconoscimento e di opportunità che incidono profondamente sul benessere e sulla salute, mi riferisco ad esempio al diritto al matrimonio e all’adozione.
2) essere visibili, ossia contribuire con la propria testimonianza a scardinare stereotipi e miti. Certamente per alcuni non è semplice essere visibili e non è sensato invitare genericamente tutti a fare coming out, non tenendo conto che alcune persone in determinati contesti rischiano tanto ad esporsi. Per questo occorre promuovere un’azione sociale e istituzionale che sostenga e aiuti le persone LGBT a essere visibili, in questo modo innescando un circolo virtuoso. Cosa possiamo fare tutti?
Quando concludo i miei corsi di formazione su questi temi invito sempre i presenti a fare una semplice operazione che però ha un’ampia portata: nominare le identità LGB, usare le parole: gay, lesbica, omosessuale, bisessuale. In sostanza rendere visibile l’invisibile, rompere il silenzio in cui ancora troppo spesso rimangono nascoste queste identità.

Desiderio omoaffettivo e stigma socio-religioso: come e perché si può vivere in modo sano ed armonico l’omoaffettività cristiana?

La religione può offrire una guida nella vita e costituire una risorsa di sicurezza, ma talvolta può essere fonte di sofferenza e conflitti. Le persone gay e le lesbiche che crescono in famiglie e comunità ortodosse e fondamentaliste, senza quindi avere accesso a visioni alternative, rischiano di assumere le concezioni negative sull’omosessualità e di associare la parte omosessuale alle parti considerate peccaminose o cattive. Questo Sé peccaminoso o cattivo può essere talvolta dissociato e così sottratto alla consapevolezza, ciononostante può alimentare senso di colpa, ansia e vergogna.
La Chiesa romana cattolica pone il credente in una situazione di impasse psicologica: o sceglie di vivere nel rifiuto e nella negazione della sua affettività/sessualità o soffre per avere contravvenuto ai dettami della Chiesa, sentendosi colpevole agli occhi di Dio. In ogni caso la sensazione è che non vi sia scampo al conflitto. Una differenza fondamentale, che può aiutare il credente LGBT, è quella tra due dimensioni dell’essere credente: la spiritualità e la religione. La prima si riferisce all’attitudine personale, alla soggettività dell’esperienza della fede, alla connessione diretta con l’amore di Dio, la seconda al sistema organizzato di dogmi, norme e di precetti rispetto all’espressione del sacro.
La distinzione tra essere religioso e spirituale, la diversa interpretazione delle Sacre scritture, la frequentazione di gruppi di omosessuali credenti e la trasformazione dei significati che si attribuiscono all’attrazione per persone dello stesso sesso sono le variabili che più influiscono nel rendere compatibile il proprio orientamento sessuale con la fede.

Omonegatività e società italiana: perché la mancanza di una legge che consideri un’aggravante i reati di violenza nei confronti delle persone LGT avalla quella stessa violenza?

In Italia assistiamo ad un vuoto normativo che non ha eguali in Europa; quest’assenza è una chiara espressione dello stigma: il mancato riconoscimento giuridico (del matrimonio, dell’adozione, della legge contro l’omofobia) comunica implicitamente che queste istanze non sono degne, quindi contribuisce indirettamente a perpetuare lo stigma nei confronti delle persone LGBT, a creare dei cittadini di serie B. Il mancato riconoscimento è una forma di quell’atteggiamento culturale, tipicamente italiano, rispetto all’omosessualità, ossia il silenzio. Un sistema ipocrita e patogenetico che tuttavia non può più andare avanti, in questo caso grazie all’Europa.

Fede ed omoaffettività: il primo dei due capitoli conclusivi del Suo libro – dal titolo Cristianesimo e omosessualità, a firma della pastora valdese Letizia Tomassone – affronta la questione da diversi punti di vista, non ultimo quello sociologico, che risulta essere il più importante per evidenziare la crescente realtà dei gruppi di persone LGBT credenti in Italia. Siamo di fronte ad una realtà che non può più essere passata sotto silenzio, vista la sua consistenza…

Molto può essere fatto per contrastare l’omofobia. È necessario coinvolgere come detto tutti i livelli, quello istituzionale e personale. Dalla mia esperienza come formatrice mi sono resa conto, ad esempio rispetto al tema dell’omogenitorialità, che il blocco, il tappo potremmo dire, è a livello politico, le persone sono molto più accoglienti di quanto si possa credere.
Io e alcuni miei colleghi abbiamo appunto condotto un corso sui temi dell’accoglienza nella scuola primaria dei figli con genitori dello stesso sesso e abbiamo verificato la disponibilità degli educatori. Come se molti cittadini italiani si collocassero in ambito europeo rispetto al tema dell’orientamento omosessuale, viceversa la politica è rintanata in un provincialismo bigotto, per ragioni ideologiche e di potere. Occorre dunque intervenire a livello istituzionale per promuovere un ampio cambiamento culturale.
Credo che sia importante ad esempio presentare nei media la varietà delle persone che sono gay, lesbiche o bisessuali, mentre lo stereotipo le dipinge tutte uguali, gay effeminati e lesbiche mascoline. Come l’eterosessualità, l’omosessualità è un fenomeno che si presenta in una molteplicità irriducibile di modi. E tutti hanno diritto di cittadinanza.