Riflessioni di fronte alla crisi dell’occupazione

Maurizio Girolami
www.riforma.it

È intorno al nodo del lavoro che si concentrano i guai del nostro paese. Il lavoro, infatti, ha a che fare con corruzione, ambiente, istruzione e ricerca, equità, salute. Riscoprire la logica dello shalom biblico

Il Rapporto annuale dell’Istat sul 2012 traccia un quadro preoccupante dell’economia italiana: il consumo delle famiglie è calato del 4,8%; l’inflazione media è stata del 3%; la capacità di risparmiare che nel periodo 2001-2010 era stata del 13,5%, è calata nel 2012 al 8,2%; gli italiani senza lavoro sono 6 milioni. Con le attuali regole di bilancio per portare il deficit pubblico dal 130% del Pil al 60%, ci vorranno 80 anni! L’ex direttore dell’Istat Giovannini, ora ministro del Lavoro, per niente ottimista, dichiara che se per settembre «imprese e lavoratori non avranno segnali di inversione, mi preoccupa molto l’autunno. Abbiamo tempi drammaticamente stretti». Si stanno cercando le risorse necessarie al rilancio dell’occupazione, ma sui 12 miliardi ipotizzati dal governo il ministro dice «di vederla difficile» e comunque se ne parlerebbe solo nel 2014. D’altra parte, dopo la chiusura della procedura d’infrazione dell’Ue verso l’Italia – della quale Letta, ma anche Monti e Bersani, si sono compiaciuti – l’Unione Europea ha posto precise condizioni: proseguimento del rigore (sempre a senso unico in barba alla progressività dei sacrifici sancita dalla Costituzione), concorrenza, privatizzazioni (alla faccia dei referendum), infrastrutture, meno burocrazia, flessibilità del lavoro. Come fidarsi delle due forze politiche (Pd e Pdl) che, dopo aver sorretto il governo Monti, lo hanno messo in crisi, si sono combattute aspramente in campagna elettorale e infine si sono miracolosamente accordate per governare il paese proseguendo il «rigore» di Monti a dispetto della domanda di cambiamento emersa dai risultati elettorali?

Letta ha dichiarato che si punterà a ridurre la disoccupazione giovanile dall’attuale 38% al 32%, ma in che modo e quando ciò avverrà non lo ha precisato. Neanche un minuto è stato dedicato finora per cercare le risorse dove esse sono: nei super-stipendi e nelle pensioni d’oro dei grandi manager di Stato, nei bonus milionari di quelli privati, nelle banche e nei paradisi fiscali. Ma è ambizione del governo, spronato dal presidente Napolitano, affrontare non solo l’emergenza economica ma anche quella istituzionale: la riforma elettorale, quella del Parlamento e quella della giustizia (sulle quali le posizioni di Pd e Pdl sembrano inconciliabili). Di fatto nulla si muoverà prima delle elezioni tedesche (in autunno) e in ogni caso non prima del 2014.

Ma dal lavoro bisogna ripartire subito perché è intorno al nodo del lavoro che si concentrano i guai del paese. Il lavoro ha a che fare con la corruzione (stimata 200 miliardi l’anno) che costringe le nostre imprese a competere non sulla base della qualità dei prodotti, della ricerca, del lavoro, ma sulla capacità di comprare il favore dei politici. La disoccupazione, tuttora in aumento, diminuirebbe di parecchio se fosse reintrodotto il reato del falso in bilancio e se chi commette crimini fosse punito. Viceversa una parte del governo nutre l’intenzione di privare la giustizia di uno strumento essenziale alla repressione del crimine come le intercettazioni, e di subordinare i pubblici ministeri al governo, contro un principio fondamentale della Costituzione come l’indipendenza della magistratura.

Il lavoro è anche ambiente. In Germania le industrie di servizi e beni ecologici e ambientali occupano milioni di persone; se avessimo cura dei nostri centri storici dell’equilibrio idrogeologico e del paesaggio potremmo valorizzare le nostre risorse naturali e culturali e sviluppare il settore turistico, che già ora produce il 15% del Prodotto interno lordo. Lavoro è anche istruzione e ricerca poiché una scuola dotata di mezzi che le consentano di funzionare bene non solo migliora la competitività dell’industria, ma da’ linfa e vita ai giovani e alla società. Lavoro è equità. Se le nostre Università non funzionassero spesso secondo logiche clientelari e baronali, molti nostri giovani non sarebbero costretti a emigrare all’estero, impoverendo la nostra università di preziose energie. Lavoro è salute poiché se sul posto di lavoro fosse garantita la sicurezza e la dignità delle condizioni di lavoro, la produzione migliorerebbe in qualità e in quantità e la spesa per incidenti o malattie professionali diminuirebbe.

Perché, nonostante le tante parole spese dai politici, su questi temi nulla si muove? La formazione del governo di larghe intese voluta dal presidente Napolitano è stata sostenuta da quasi tutti i media in nome dell’interesse nazionale, della coesione sociale e della pacificazione. E ogni giorno si insiste perché si evitino atti o espressioni «divisive» che potrebbero mettere in pericolo il neonato governo. Ma le divisioni esistono e provocano una guerra di posizione tra partiti impegnati a difendere soltanto la loro sopravvivenza, incapaci di dare risposte ai tanti cittadini che esprimono la loro esasperazione nei confronti della politica dei sacrifici a senso unico con manifestazioni, proteste, ma anche con suicidi e tragedie familiari. Viene da pensare ai numerosi passi biblici (del Vecchio e Nuovo Testamento) – che esortano alla solidarietà verso gli ultimi e gli oppressi e profetizzano il castigo di Dio agli oppressori. Sono i passi su cui dai pulpiti delle nostre chiese spesso si predica facendo ben attenzione a non urtare suscettibilità, a non accostarsi troppo all’attualità. Eppure il momento chiede ai credenti di interrogarsi sul senso della loro fede qui e ora, chiede di prendere posizione e di non aver paura delle divisioni se le divisioni servono a fare chiarezza e a favorire l’azione: «non sono venuto a mettere pace ma spada» (Matteo 10,3 4).

La logica dello shalom, che intreccia tra loro pace, giustizia e riconciliazione è chiarissima: non è possibile nessuna pace (assenza di conflitto) e nessuna riconciliazione (vera coesione sociale) senza giustizia (riequilibrio della distribuzione della ricchezza e ritorno all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge).

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Austerità, la lotta di classe dei ricchi

Roberto Ciccarelli
www.ilmanifesto.it

Presentato a Roma l’undicesimo «Rapporto sui diritti globali»: aumentano le disuguaglianze sociali, mentre è in corso la battaglia finale contro il modello sociale europeo del Welfare. Un bollettino di guerra: 1.700 milioni di disoccupati in più dal 2008, aumenta la povertà e i più precari sono i giovani e le donne

Torniamo a dare il giusto peso alle parole. Quella che stiamo vivendo è una lotta di classe. Oggi la fanno i ricchi contro i poveri che sono stati messi a morte dalle politiche dell’austerità. Il tono è enfatico, ma sono le parole usate dal Nobel per l’economia Joseph Stiglitz per descrivere il più grande saccheggio della ricchezza avvenuto in tempi moderni. La violenza della crisi è tale da mettere a rischio la vita di milioni di persone. Gli autori dell’undicesimo «Rapporto sui diritti globali» (Ediesse), presentato ieri a Roma presso la sede centrale della Cgil in Corso Italia, spiegano nelle oltre mille pagine del volume le caratteristiche della guerra di rapina condotta dal capitalismo finanziario e descrivendo il meccanismo di una «redistribuzione al contrario». Quella messa in piedi dal 2008 dalle politiche dell’austerità nell’Unione Europea è una gigantesca macchina di drenaggio verso l’alto dei redditi da lavoro e dei risparmi delle famiglie. Le banche, i fondi di investimento, le grandi imprese, lo Stato che aumenta il carico fiscale sui cittadini senza restituire nulla in servizi, hanno accumulato un’enorme massa monetaria che non «sgocciola» nell’economia reale, resta nelle sfere della finanza e viene usata per acquistare o vendere buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Questa situazione ha annientato la produttività del lavoro in Italia. Dal 2000 al 2009 è diminuita dello 0,5% ogni anno, impresa mai riuscita in un paese a capitalismo avanzato fino ad oggi. Gli occupati italiani lavorano di più dei colleghi europei, ma producono il 25% in meno dei tedeschi e il 40% in meno dei francesi. Senza contare che l’occupazione è crollata di 1 milione e 700 mila unità dal 2008, abbattendosi con particolare violenza sui giovani tra i 15 e i 24 anni, il 41,7% dei quali è disoccupato (con punte di oltre il 50% a Sud). Ciò ha comportato un impoverimento generalizzato tra i pensionati e persino tra i bambini. Nel 2011 i bambini da 0 a 2 anni che avevano la possibilità di frequentare un asilo nido non superavano l’11,8% (era il 3% nel 2004). Su un totale di 16,7 milioni di pensionati, quasi 8 percepiscono una pensione inferiore a mille euro al mese, oltre 2 milioni non arrivano a 500. Senza contare che il processo di deregolamentazione del lavoro ha creato in Italia un esercito di lavoratori precari da 3.315.580 milioni di persone, più di mezzo milione delle quali lavorano per lo Stato, il più grande sfruttatore di lavoro precario al mondo. Il reddito di queste persone è di 927 euro mensili per i maschi e 759 euro per le donne. Queste cifre sono utili per dare un’idea della povertà dilagante nel nostro paese.

Questo processo è destinato a durare a lungo. L’Italia, come anche Francia, Spagna, Grecia o Portogallo, ha approvato nella loro costituzione l’impegno a ridurre il debito sovrano dall’attuale 130% al 60% sul Pil. Ciò porterà alla dismissione del patrimonio pubblico e alle liberalizzazioni, tagli alla spesa e altre misure che dovranno «risparmiare» 50 miliardi di euro all’anno per i prossimi venti. Fondi che alimenteranno la bolla degli interessi sul debito e non andranno in investimenti. La stessa sorte è toccata ai mille miliardi di euro prestati dalla Banca Centrale Europea alle banche europee altasso d’interesse irrisorio dell’1%. Le banche italiane hanno ottenuto 200 miliardi. Di questa montagna di denaro fresco solo il 5% delle persone sopra i 15 anni ha ottenuto un prestito negli ultimi dodici mesi, a fronte di una media europea del 13%. Questo significa che il nostro paese fluttua in una bolla finanziaria che espropria la ricchezza alle persone, non libera risorse verso il basso, ma le accumula in un forziere chiuso a doppia mandata da cui esce solo qualche centesimo. Questa è la cornice macroeconomica dove prolifera la disuguaglianza sociale. Il reddito di uno dei 38 mila «straricchi» (lo 0,1% più ricco in Italia) vale oggi quello di cento poveri. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% dei redditi. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale.

La responsabilità di questa tragedia non è solo di Berlusconi o di Monti che hanno gestito la parte terminale di una crisi che viene da lontano, cioè dall’inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica» nel 1992. Oggi solo cinque paesi Ocse, tra cui gli Stati Uniti, mostrano disuguaglianze più feroci tra i ricchi e i poveri dell’Italia. Ad avere allargato la forbice tra le rendite e i redditi è stata l’abolizione della scala mobile nel 1984, la crisi valutaria ed economica del 1992 e la manovra finanziaria da 90 miliardi di lire fatta da Amato nello stesso anno. Da quel momento tutti i governi hanno portato il loro contributo alla lotta di classe in corso. Il «pilota automatico», una volta evocato dal presidente Bce Mario Draghi per spiegare la natura delle politiche economiche europee, indipendentemente dalla maggioranza politica alla guida di un paese, è stato azionato più di vent’anni fa. Da allora continua a pretendere l’applicazione rigorosa degli imperativi del rigore del bilancio, la liberalizzazione dei servizi e la precarizzazione dei rapporti di lavoro.

La tesi del rapporto sui diritti globali sostiene che il tentativo in corso di «ammorbidire» la cura preparata dalla Troika (Bce, Fmi e banca mondiale) per i paesi indebitati come Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e ora anche Francia, non riuscirà a fermare la rovinosa corsa a precipizio del treno dell’austerità. L’obiettivo finale della lotta di classe è farla finita con il « modello sociale europeo», quello del Welfare, già dichiarato morto da Draghi. Lo dimostra il taglio del 90% alle politiche sociali che tra il 2010 e il 2012 sono passate da 435 milioni di euro a 43 milioni, mentre i fondi per scuola e università sono stati tagliati di 10 miliardi. Entro il 2015 la sanità subirà 30 miliardi di tagli. Alla luce di questi dati si comprende meglio l’utilità del governo delle «larghe intese». Parliamo di una forma politica postdemocratica che si è candidata a gestire la liquidazione dei diritti sociali in Italia e a normalizzare i conflitti sociali che potrebbero nascere. Un lavoro arduo, ma è a buon punto.