Siria, le armi della propaganda

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Coerentemente con l’abituale manipolazione delle notizie provenienti dalla Siria da parte dei principali media occidentali, le informazioni giunte in questi giorni dal paese mediorientale e dagli ambienti diplomatici internazionali continuano ad essere utilizzate per aumentare le pressioni sul regime di Bashar al-Assad e spianare la strada ad un intervento militare esterno per cambiare drasticamente le sorti del conflitto.

Ampio risalto è stato infatti assegnato, ad esempio, al rapporto di una speciale commissione delle Nazioni Unite sulle violenze commesse da entrambe le parti in Siria, così come alle nuove esplicite accuse lanciate dai governi di Francia e Gran Bretagna contro Damasco per avere fatto uso di armi chimiche contro i “ribelli” armati. Al contrario, decisamente meno spazio hanno trovato le notizie che non rientrano nel quadro della presunta repressione di un regime dittatoriale contro un’insurrezione popolare democratica e che raccontano invece una storia ben differente.

I risultati dell’indagine condotta dalla Commissione Internazionale d’Inchiesta sulla Siria sono stati presentati lunedì in una conferenza stampa a Ginevra e hanno dipinto un scenario sempre più allarmante della crisi in atto da oltre due anni. Quasi 7 milioni di persone sono ormai costrette a vivere in aree interessante dal conflitto, quasi 4,5 milioni di siriani hanno abbandonato forzatamente le proprie abitazioni e altri 1,6 milioni hanno trovato rifugio all’estero.

Il rapporto ONU indica poi come causa principale del prolungarsi della guerra l’afflusso ininterrotto di armi da altri paesi, con un possibile aggravamento della situazione dovuto sia alla recente decisione dell’Unione Europea di cancellare l’embargo sulla fornitura di armi all’opposizione sia all’annunciata spedizione del sistema missilistico S-300 dalla Russia al governo Assad. Mentre nel primo caso, equipaggiamenti militari sofisticati potrebbero finire nelle mani di gruppi jihadisti già responsabili di orrendi massacri in Siria, le batterie di missili russi hanno una funzione in larga parte difensiva e servono per contrastare un’eventuale no-fly zone che potrebbe essere imposta dall’Occidente.

Uno dei punti chiave del rapporto è comunque la conferma della prevalenza tra le fila dell’opposizione di formazioni integraliste sunnite, in alcuni casi legate direttamente ad Al-Qaeda, le quali, grazie a militanti stranieri provenienti da paesi vicini, contribuiscono con le loro azioni ad innalzare i livelli di “crudeltà e brutalità”.

Gli investigatori dell’ONU spiegano che esiste una disparità tra i crimini commessi dalle forze governative e quelli dei gruppi di opposizione, ancorché tale disparità riguarda l’intensità degli abusi e non la natura di essi. A scorrere il rapporto, tuttavia, emerge ancora una volta il ritratto di un’opposizione armata dai lineamenti a dir poco inquietanti e responsabile di “crimini di guerra, tra cui assassini, condanne ed esecuzioni senza un processo equo, torture, rapimenti e saccheggi”.

Particolarmente preoccupante viene poi definito il crescente reclutamento di bambini-soldato e la pratica sempre più diffusa della decapitazione di soldati disarmati dell’esercito regolare.

L’attenzione dei media si è rivolta però soprattutto alla sezione del rapporto relativa all’uso di armi chimiche, pretesto utilizzato per giustificare un possibile intervento militare diretto in Siria. Gli investigatori avrebbero infatti trovato per la prima volta prove dell’uso di bombe termobariche che, oltre ad un’esplosione, determinano un consumo istantaneo dell’ossigeno nell’area interessata, impedendo la respirazione. “Quantità limitate di agenti chimici tossici” sarebbero stati inoltre usate tra marzo e aprile in varie località, tra cui Aleppo, Damasco e Idlib.

Il presidente della commissione d’inchiesta dell’ONU, Paulo Pinheiro, non ha però fornito ulteriori dettagli, né ha spiegato a chi dovrebbe essere attribuita la responsabilità dell’uso di armi chimiche. Lo scorso mese di maggio, un membro autorevole della stessa commissione, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva affermato in un’intervista che le prove raccolte indicavano un probabile uso di gas sarin da parte dei ribelli e non dalle forze del regime.

Da questa dichiarazione, rapidamente insabbiata dai media “mainstream”, avevano preso le distanze gli altri membri della commissione, probabilmente in seguito a pressioni internazionali, senza però smentirne il contenuto. Ugualmente omessa dalla maggior parte dei resoconti giornalistici è stata anche un’altra notizia di qualche giorno fa che ha descritto l’arresto in Turchia di una dozzina di guerriglieri appartenenti al Fronte al-Nusra – la principale formazione jihadista attiva in Siria – nelle cui abitazioni sono rinvenute sostanze chimiche come il sarin.

Gli arresti sono giunti in contemporanea con la rivelazione di un attentato sventato dalle autorità nella città turca di Adana, nonché un paio di settimane dopo la doppia devastante esplosione a Reyhanli, al confine con la Siria, che ha causato la morte di 52 persone ed attribuita sbrigativamente dal governo di Ankara al regime di Assad pur in presenza di molteplici segnali che riconducevano proprio ai gruppi integralisti in guerra contro Damasco.

Le conclusioni del rapporto ONU, in ogni caso, nonostante implichino nelle violenze entrambe le parti in lotta e rivelino ancora una volta la vera faccia dell’opposizione anti-Assad, hanno spinto media e governi occidentali ad intensificare le accuse nei confronti del regime e a promuovere un maggiore impegno a favore dei “ribelli”, propagandando la consueta favola della necessità di armare al più presto le fazioni “moderate”, in modo da emarginare quelle radicali.

Come hanno messo in luce svariate inchieste giornalistiche nei mesi scorsi, tuttavia, il predominio delle formazioni estremiste in Siria è ormai pressoché assoluto ed esse finiranno perciò per beneficiare ulteriormente di un intensificarsi del flusso di armi che andrebbero peraltro ad aggiungersi a quelle già ricevute da oltre due anni tramite gli alleati degli USA nella regione mediorientale sotto la supervisione di Washington.

Per favorire questa evoluzione, i governi di Londra e Parigi questa settimana hanno tra l’altro annunciato di essere in possesso di risultati di laboratorio che dimostrerebbero l’uso di gas sarin in molteplici occasioni. Secondo il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, “non ci sarebbero dubbi che i responsabili sono il regime e i suoi complici”. Mercoledì, poi, una dichiarazione simile è giunta dal “Foreign Office” britannico, anch’esso però incapace di produrre prove tangibili delle accuse rivolte contro Damasco.

Questa nuova offensiva dei principali paesi occidentali impegnati a manovrare per rimuovere Assad è stata lanciata tutt’altro che casualmente in concomitanza con lo sfondamento delle forze del regime, appoggiate da Hezbollah, nella località strategicamente fondamentale di Qusayr, poco lontano dal confine con il Libano.

Dopo settimane di scontri, mercoledì la televisione siriana ha infatti annunciato che l’esercito siriano ha ripreso il controllo totale della città, centro nevralgico per la fornitura di armi ai “ribelli”. In questi giorni, inoltre, alcuni media hanno citato testimonianze sul campo che indicano come l’esercito regolare e guerriglieri di Hezbollah stiano preparando un’imminente operazione militare ad Aleppo per riprendere la più grande città del paese, da mesi in mano all’opposizione armata.

I rovesci militari patiti da quest’ultima, al contrario di quanto generalmente sostenuto da governi e media occidentali, indicano in maniera evidente una clamorosa mancanza di seguito tra la popolazione siriana. Un’avversione, quella nutrita nei loro confronti anche dalla maggioranza sunnita, che si spiega facilmente scorrendo il già citato rapporto dell’ONU sulle atrocità commesse dai “ribelli” in oltre due anni di conflitto.

Di questa realtà ne sono perfettamente a conoscenza i governi che appoggiano incondizionatamente i “ribelli”, come dimostra un’indagine finita recentemente nelle mani dei vertici NATO e puntualmente trascurata dalla grande maggioranza dei media ufficiali. A fine maggio, cioè, la testata World Tribune aveva rivelato i risultati di una ricerca condotta da organizzazioni e attivisti sponsorizzati dall’Occidente, secondo la quale il presidente Assad godrebbe di un consenso tra la popolazione siriana ben superiore ai livelli che possono vantare, ad esempio, i governi di Washington, Londra o Parigi.

In particolare, circa il 70% dei siriani sosterrebbe il regime alauita, mentre il 20% si dichiara neutrale e un misero 10% è a favore dei “ribelli”. Questi dati smascherano clamorosamente la strategia degli Stati Uniti e dei loro alleati nei confronti della crisi siriana, sfruttata in maniera deliberata per avanzare i propri interessi, presentando come campioni della democrazia un insieme di formazioni integraliste e di dissidenti da tempo screditati con poco o nessun seguito nel paese.

Lo stesso presunto massacro a senso unico messo in atto dal regime contro una popolazione inerme appare infine ben lontano dalla realtà. A smentire questa versione sono stati i numeri forniti un paio di giorni fa all’agenzia di stampa americana McClatchy dall’Osservatorio per i Diritti Umani in Siria, un’organizzazione britannica che sostiene l’opposizione e che monitora gli eventi sul campo nel paese mediorientale.

Secondo questa indagine a pagare il prezzo più alto in termini di vite umane sono proprio i membri delle forze di sicurezza del regime, tra i quali si conterebbero finora quasi 25 mila morti. A questi vanno aggiunte poco più di 17 mila vittime tra gli appartenenti alle milizie filo-governative. I combattenti anti-Assad deceduti ammonterebbero invece a poco meno di 17 mila, mentre i civili morti nel conflitto a più di 35 mila, tra i quali l’Osservatorio non distingue però le numerosissime vittime delle operazioni condotte dai “ribelli”, compreso un lungo elenco di attentati di chiara matrice terroristica.