La riforma dell’Iran

Michele Paris
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Con un risultato a sorpresa, l’11esima elezione presidenziale della storia della Repubblica Islamica dell’Iran ha decretato la nettissima vittoria del candidato moderato Hassan Rouhani. Contrariamente alla maggior parte delle tesi sostenute da media e commentatori occidentali, il voto nel paese mediorientale è stato contrassegnato da una sostenuta partecipazione popolare e da una sostanziale libertà di scelta degli elettori, confermando la relativa apertura del sistema politico iraniano, soprattutto in relazione a quello delle vicine monarchie dittatoriali del Golfo Persico alleate di Stati Uniti ed Europa.

Anche se ben lontana dai livelli del 2009, quando sfiorò l’85%, l’affluenza alle urne nella giornata di venerdì ha superato le aspettative, assestandosi attorno al 72% nonostante l’esclusione preventiva da parte del Consiglio dei Guardiani di due candidati considerati tra i più popolari, l’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e il capo di gabinetto di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashaei. Le lunghe code al di fuori dei seggi hanno addirittura costretto il governo iraniano a prolungare l’orario del voto fino alla serata di venerdì.

Favorito dall’abbandono alla vigilia dell’unico candidato con credenziali “riformiste, l’ex vice-presidente Mohammad Reza Aref, già dopo lo spoglio delle prime schede Rouhani aveva fatto intravedere una solida performance. Alla fine, il Ministero dell’Interno di Teheran lo ha dichiarato vincitore già al primo turno con il 50,7% dei consensi, vale a dire oltre 18 milioni di voti espressi.

Sulla candidatura di Rouhani sono chiaramente confluiti i suffragi dell’elettorato che si riconosce nel movimento “riformista” grazie all’appoggio pubblico ricevuto settimana scorsa di Rafsanjani e dell’altro ex presidente, Mohammad Khatami. Il largo successo di Rouhani, tuttavia, ha evidenziato anche un significativo sostegno ricevuto dall’elettorato rurale e dalle classi urbane più disagiate, penalizzate da un’economia in grave crisi a causa delle sanzioni occidentali e dal progressivo abbandono delle politiche populiste promosse durante i primi anni dell’amministrazione Ahmadinejad.

Il voto di venerdì, inoltre, è stato segnato dal clamoroso fallimento dei candidati conservatori, indicati da molti, soprattutto in Occidente, come i favoriti per il successo grazie all’appoggio, peraltro mai dichiarato pubblicamente, di Khamenei. L’attuale negoziatore sul nucleare, Saeed Jalili, ha in particolare pagato la linea dura che ha ispirato la sua campagna elettorale, riuscendo a raccogliere poco più dell’11% dei consensi, meno anche dell’altro presunto favorito, il sindaco di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf, fermatosi al 16,6%.

Ancora più indietro sono finiti gli altri tre candidati ammessi dal Consiglio dei Guardiani: l’ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Mohsen Rezaee (10,6%), l’ex ministro degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati (6,2%), e l’ex ministro del Petrolio, Seyed Mohammad Qarazi (1,2%).

Se la decisione di ammettere alla competizione solo candidati che non rappresentavano una minaccia al sistema era stata presa a maggio dai vertici della Repubblica Islamica tramite la selezione del Consiglio dei Guardiani, la scelta del presidente tra i rimanenti candidati – espressione di diverse posizioni ideologiche – è stata dunque interamente nelle mani degli elettori iraniani.

La vittoria di Rouhani è stata favorita anche dalle divisioni nel campo conservatore o “principalista”, nel quel il ritiro a pochi giorni dal voto dell’ex presidente del Parlamento (Majilis), Gholam Haddad Adel, ha contribuito ben poco a unificare il voto attorno ad un unico candidato.

Queste divisioni hanno mostrato a loro volta le differenze che caratterizzano le varie fazioni dell’establishment conservatore iraniano, soprattutto in relazione ai rapporti con l’Occidente e alle trattative sulla questione del nucleare. Proprio la possibile evoluzione dell’Iran attorno a quest’ultima vicenda, oltre che alla crisi in Siria, è stata al centro delle speculazioni dei media occidentali dopo l’affermazione di Rouhani, il quale durante la campagna elettorale ha frequentemente criticato la gestione sia della politica estera ed economica del governo uscente che dei colloqui sul nucleare del capo-negoziatore Jalili.

Le sue posizioni moderate, il sostegno ricevuto dal movimento “riformista” e il precedente dell’accordo siglato sulla sospensione delle attività legate al nucleare quando era alla guida dei negoziati con l’Occidente fa infatti sperare in molti in un ammorbidimento dell’atteggiamento della delegazione iraniana nei futuri colloqui. La linea diplomatica che seguirà il paese, tuttavia, verrà in ultima analisi stabilita dallo stesso Khamenei.

Rouhani è comunque una personalità totalmente integrata nel sistema della Repubblica Islamica, come confermano i numerosi incarichi che ricopre all’interno dei vari organi che ne compongono la struttura del potere. Rouhani è infatti membro dell’Assemblea degli Esperti fin dal 1999, del Consiglio per il Discernimento dal 1991, del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale dal 1989 (di cui è stato segretario, e quindi capo negoziatore per il nucleare, tra il 1989 e il 2005) e vice-presidente del Parlamento in due occasioni.

Come ha riportato l’agenzia di stampa ISNA, nella sua prima dichiarazione televisiva dopo l’elezione, il presidente-eletto ha sottolineato la sua vicinanza all’ayatollah Khamenei, esprimendo il suo apprezzamento per la Guida Suprema e per “la nazione iraniana che ha risposto positivamente” all’appello di quest’ultimo di recarsi in massa alle urne.

Lo stesso Khamenei, a sua volta, nella giornata di sabato si è congratulato con Rouhani per il successo elettorale, aggiungendo che il vero vincitore è stato il popolo iraniano, il quale “con prudenza e giudizio ha affrontato la guerra di nervi lanciata dai lacchè dell’egemonia globale”.

Al di là della retorica post-elettorale di Khamenei, è possibile che l’atteggiamento iraniano di fronte all’Occidente sarà di maggiore disponibilità nei prossimi mesi, rappresentando perciò una sfida per gli Stati Uniti e i loro alleati, responsabili di un’escalation di minacce, intimidazioni e sanzioni senza precedenti nei confronti di Teheran.

L’elezione sostanzialmente libera di un presidente moderato, ben disposto verso il dialogo con la comunità internazionale e appoggiato da un movimento “riformista” che trova il favore dell’Occidente dovrebbe infatti rendere più complicato per Washington o Tel Aviv decidere un’eventuale azione militare per risolvere la questione del nucleare iraniano.

Se Rouhani, con l’approvazione di Khamenei, dovesse mantenere le promesse elettorali e cercare più attivamente una soluzione diplomatica alla crisi sul nucleare, la palla passerebbe ancora una volta nel campo dell’Occidente, da dove le manovre per forzare un cambio di regime a Teheran o la ricerca di una sottomissione incondizionata al proprio dettato verrebbero smascherate clamorosamente.

Il successo della presidenza Rouhani, in ogni caso, dipenderà anche dall’impatto sulla maggioranza della popolazione delle politiche economiche che verranno adottate per far fronte alla crisi e, soprattutto, dall’equilibrio che il suo governo riuscirà a stabilire con gli altri centri di potere della Repubblica islamica.

Come hanno ricordato gli ex funzionari del Dipartimento di Stato USA, Flynt e Hillary Mann Leverett, sul loro blog GoingToTehran alla vigilia del voto, i presidenti dell’Iran devono infatti tradizionalmente fare i conti innanzitutto con la figura della Guida Suprema, il cui compito è quello di assicurare che le politiche messe in atto dal governo non mettano a rischio “l’identità e la sicurezza a lungo termine della Repubblica”.

Inoltre, come hanno dimostrato le difficoltà incontrare dall’amministrazione Ahmadinejad in questi ultimi anni, il presidente nel proprio operato potrebbe essere seriamente ostacolato dal Parlamento, presieduto dal potente speaker Ali Larijani, impegnato nel tentativo di ridimensionare i poteri della più importante carica esecutiva del paese.

All’interno di questi vincoli dovrà perciò muoversi il pragmatico e conciliatore Rouhani, la cui gestione sul fronte domestico e internazionale contribuirà a modellare il futuro della Repubblica Islamica dell’Iran nei prossimi quattro anni.