Per camminare insieme di Fine Settimana

Fine settimana (Verbania) – Gruppo aderente alla Rete dei Viandanti
www.viandanti.org

Abbiamo l’impressione che oggi i cambiamenti o gli aggiornamenti necessari nella Chiesa stiano avvenendo più per necessità (in particolare per la forte riduzione del numero di presbiteri) che per consapevolezza, con il rischio concreto di soluzioni del tutto inadeguate, di un coinvolgimento laicale solo come forza ausiliaria, al di là di riconoscimenti formali.

E’ il modello tradizionale di parrocchia, tutto centrato sul ruolo del presbitero, che deve essere rimesso in discussione. Occorre pensare cioè ad altri modelli di comunità cristiane che prevedano vere responsabilità laicali.
Il punto di partenza non è il tempio, non è la chiesa, non è un luogo religioso, sacro, separato. Il punto di partenza, l’ambito in cui avviene l’annuncio e la testimonianza, come per Gesù, è la strada, è il villaggio, è lì dove si svolge l’esistenza quotidiana delle persone. La buona notizia è che la pienezza del vivere, a partire dai più poveri, è possibile, che sono possibili relazioni autentiche e liberanti con gli altri, con il mondo, con se stessi, con Dio. Il punto di partenza è insieme la fedeltà alla parola di Dio contenuta nelle Scritture e la fedeltà alle donne e agli uomini di oggi nella concretezza della loro esistenza.

La mancanza di un dibattito vero

L’assenza di un vero confronto, franco e rispettoso, all’interno della Chiesa è un freno alla crescita di una maggiore consapevolezza da parte di tutti. Gli spazi per questo confronto sembrano inesistenti.
Nella stampa cattolica ufficiale non c’è pluralismo, dibattito, confronto. Come scrive il vescovo emerito Giuseppe Casale, se «un giornale cattolico (Avvenire…), in maniera inopportuna, continua ad essere voce dei vescovi (in verità solo del vertice CEI) e non favorisce il dialogo tra le varie realtà ecclesiali, non ha senso, non serve… Per i cattolici italiani ci vogliono giornali che facciano circolare le idee e favoriscano il confronto» (Per riformare la Chiesa, p. 65).

Questi giornali al momento non esistono, tanto è vero che le prese di posizione del cardinal Martini sui temi della bioetica sono apparse sul Sole24Ore o sul Corriere della Sera. Sulla maggior parte delle questioni attinenti alla fede o all’etica non si lascia spazio al confronto di posizioni differenti, ma solo alla difesa delle posizioni ufficiali; e, come scrive Severino Dianich, «nell’area pubblica risuona forte la comunicazione dei vescovi e del papa, diretta ai fedeli e alla società civile, mentre è solo mormorata la comunicazione dei fedeli ai vescovi e al papa e alla società civile. Questo non fa bene alla Chiesa, né contribuisce alla sua missione.(…) quando i giornali cattolici saranno i luoghi dell’opinione pubblica dei fedeli e non solo i portavoce dei vescovi la Chiesa sarà veramente “un corpo vivo”» (http://www.vivailconcilio.it/index.php/rubriche-del-25/editoriale/243-editoriale-settembre-2011).

Collegialità e sinodalità

La mancanza di dialogo e di confronto è un segno dell’assenza di una vera collegialità e sinodalità, di un vero camminare insieme ai vertici e alla base, con la riproposizione nei fatti di una Chiesa anzitutto gerarchica, in cui nell’opinione comune Chiesa e gerarchia continuano ad essere sinonimi. Resistenze ad un cammino più collegiale sono presenti sia ai vertici sia alla base. La collegialità episcopale è debole, mentre il governo della Chiesa non ha ancora assunto la via della sinodalità. Qualche segnale incoraggiante è giunto ora da papa Francesco, in particolare con la scelta di otto rappresentanti del collegio cardinalizio con funzioni di consiglio.

Il camminare insieme anche nelle nostre comunità fa fatica a crescere sia perché a volte i presbiteri che le presiedono non ritengono loro compito prioritario valorizzare i carismi e le competenze presenti, sia per l’abitudine alla passività e alla delega di molte delle persone che frequentano abitualmente le nostre chiese.
Nella nostra esperienza il coinvolgimento è cresciuto nel momento in cui si sono offerti spazi perché ognuno possa davvero offrire il proprio contributo.

Primato e formazione della coscienza

Uno dei cambiamenti più significativi e liberanti promossi dal Vaticano II è stato il passaggio da una visione centrata sul primato della verità (che si presumeva di possedere e alla quale le persone erano chiamate ad adeguarsi con le buone o con le cattive), ad una visione che afferma il primato della coscienza e la libertà della fede.
Tutti i documenti conciliari sono attraversati da questa prospettiva più biblica e umanizzante, in particolare Gaudium et Spes e Dignitatis Humanae: la fedeltà alla coscienza è il criterio da privilegiare in ogni decisione umana, anche nell’ambito della fede. La coscienza è il sacrario dell’uomo, il nucleo più segreto, il luogo in cui si rende trasparente la voce di Dio, la legge dell’amore. Questa coscienza, posta nuovamente al centro (il cuore biblico), diventa anche la via attraverso la quale istituire un fecondo confronto tra credenti e uomini di buona volontà per affrontare e trovare soluzioni ai problemi comuni (cfr. Gaudium et Spes 16).

E’ un cammino sempre in atto e impegnativo quello di superare una concezione oggettivistica della vita morale, tutta centrata sull’osservanza di leggi e precetti, in cui si prestava più attenzione ai singoli atti che non alle scelte di fondo e con scarsa attenzione alle disposizioni interiori, in cui l’amministrazione del sacramento della penitenza aveva al suo centro la confessione minuziosa dei peccati, delle inadempienze nell’osservanza delle norme.

E’ un cammino che comporta un passaggio da una prassi pastorale pensata per istruire, per insegnare verità (da apprendere), per illustrare precetti e norme da eseguire fedelmente ad una prassi che pone al proprio centro la formazione di coscienze mature, di persone capaci di assumersi le proprie responsabilità, di camminare insieme agli altri con le proprie gambe e di ragionare con la propria testa, di operare scelte di fondo umanizzanti e liberanti.

E’ un modello educativo impegnativo quello che tende a formare persone capaci di assumere le proprie responsabilità nelle scelte morali, persone mature in grado di accettare il rischio delle scelte, senza fare appello in ultima istanza a supporti esterni, con un malinteso senso dell’obbedienza. Ed è anche un modello molto esigente, perché non si accontenta dell’osservanza di un precetto o di una norma, ma si apre all’avventura senza fine dell’amore, in cui ognuno è chiamato a valorizzare i talenti ricevuti.

Celebrazione comunitaria della penitenza

Rientra in questa visione il cammino che abbiamo cercato di fare nel celebrare la penitenza comunitaria, in cui la comunità si lascia interrogare dalla parola di Dio in ascolto anche delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce delle donne e degli uomini del nostro paese e del mondo, dà importanza alle scelte di fondo che orientano la vita, si riconosce peccatrice e bisognosa di perdono, accoglie con gioia e riconoscenza il perdono di Dio.

Il cammino su questa strada prosegue con fatica, nel pericolo costante di rendere irrilevante la dimensione comunitaria del sacramento della riconciliazione, riducendo le penitenze comunitarie in penitenze individuali di massa, in cui torna ad essere centrale confessione e assoluzione individuale.

Questo appannamento del primato della coscienza, a partire dal quale sarebbe possibile un confronto fecondo tra credenti e laici su temi di interesse comune, ha reso sempre più difficile il dialogo, ha accresciuto diffidenze e irrigidimenti, dall’una e dall’altra parte. Ne è stato un chiaro esempio l’opposizione della Cei all’introduzione dei prudentissimi Dico (“Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi, disegno di legge del 2007) nella legislazione italiana per regolamentare la situazione delle coppie di fatto. Prevale la volontà di affermare i propri convincimenti attraverso la costrizione della legge sulla necessità di far leva sull’educazione e formazione delle coscienze. Addirittura si irridono i cattolici adulti, accusandoli di arrogante presunzione. Abbiamo la sgradevole sensazione di essere trattati da eterni bambini, incapaci di compiere responsabilmente delle scelte.