Il Brasile che non ti aspetti: la gente stanca di “pane e circo”

Claudia Fanti
Adista Notizie n. 25 del 06/07/2013

Dopo lo stupore suscitato dalle manifestazioni di protesta che scuotono il Brasile da tre settimane, la presidente Dilma Rousseff (per la prima volta in calo di popolarità, fino a subire l’onta dei fischi all’inaugurazione della Confederation Cup) prova a reagire, cercando di dare una prima risposta alle tante e complesse rivendicazioni che si sono aggiunte alla protesta iniziale contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico, inasprita dall’indignazione per le costosissime opere per i mondiali di calcio del 2014. Accantonata l’idea della convocazione di un’Assemblea Costituente incaricata di realizzare una profonda riforma politica, il governo si sta orientando verso una consultazione popolare con domande dirette sulle modifiche necessarie al sistema politico brasiliano, per «migliorare – ha spiegato il ministro dell’Educazione Aloizio Mercadante – la qualità della rappresentanza politica nel Paese, rendendola più permeabile alle aspirazioni popolari». E, oltre che sul fronte della riforma politica, la presidente Dilma Rousseff si è impegnata, nel suo pronunciamento alla Nazione, a intervenire nei campi della responsabilità fiscale, dell’educazione, della salute, del trasporto pubblico e della lotta alla corruzione. «È la cittadinanza, non il potere economico, che deve essere ascoltata per prima», ha dichiarato la presidente, finora ben poco disposta ad accogliere le rivendicazioni dei movimenti sociali (ma, al contrario, assai ricettiva nei confronti delle richieste dell’élite economica).

I limiti della crescitaDi sicuro, se qualcosa di chiaro è emerso dalle inattese proteste di strada, è che la strategia a base di panem et circenses non basta più. Se l’offerta di pane – principalmente attraverso l’imponente programma sociale “Bolsa Familia”, accompagnato da diverse altre misure di sostegno al potere di consumo delle fasce più basse – ha garantito consensi altissimi prima a Lula e poi a Dilma; e se il circo – dai mondiali di calcio del 2014 alle Olimpiadi del 2016, con l’antipasto della Confederation Cup – doveva servire a dare ulteriore lustro al gigante latinoamericano, solleticando l’orgoglio nazionale sul terreno della distrazione più cara ai brasiliani (quella calcistica), oggi la popolazione non può più accontentarsi. Tanto più che, per quanto riguarda il “pane”, se al programma “Bolsa Familia” vengono destinati 20 miliardi di reais, gli interessi sul debito pubblico ne divorano 240, vale a dire che, sottolinea il sociologo Atilio Boron, «in un anno gli squali della finanza dentro e fuori il Brasile ricevono come compensazione per i loro ingannevoli prestiti l’equivalente di dodici programmi “Bolsa Familia”», presentandosi come «i principali beneficiari della democrazia brasiliana o, meglio, della plutocrazia regnante in Brasile».

E tanto più che, per quanto riguarda il “circo”, la realizzazione delle opere di infrastruttura necessarie sta procedendo secondo modalità profondamente antisociali (con tanto di sgomberi violenti e senza alcuna consultazione con la popolazione interessata).Non di solo pane, insomma, vive l’uomo, evidenzia dom Demétrio Valentini: «Il popolo – ha scritto – non si accontenta di piccoli vantaggi economici. E un governo non può limitarsi a garantire la crescita economica. Abbiamo bisogno di orizzonti più vasti. Vogliamo prendere parte all’elaborazione di un progetto di Paese che risponda al sogno di una maggiore uguaglianza sociale, di una vera partecipazione al processo decisionale, di un superamento delle ingiustizie storiche che segnano la società brasiliana». Se ci si limita al pane, sottolinea, «finiamo per delegittimare le nostre rivendicazioni politiche», quelle per un Paese «politicamente democratico, socialmente solidale, economicamente giusto, ecologicamente sostenibile, culturalmente plurale, regionalmente diversificato e religiosamente ecumenico».Dietro la richiesta – portata in strada in particolare dai figli della media e medio bassa – di un servizio pubblico, di ospedali, di scuole, di università di livello equivalente allo “standard Fifa” per gli stadi (i quali, finiti i mondiali, appariranno davvero come cattedrali nel deserto), è possibile constatare come il programma di cambiamenti senza una reale ridistribuzione della ricchezza portato avanti da Lula prima e da Dilma poi abbia raggiunto il suo limite naturale.

Limite che, prima ancora che le proteste esplodessero nella maniera più inattesa, era già risultato più che evidente dai ripetuti conflitti socio-ambientali legati all’estrattivismo, come viene chiamato il modello – dilagante in tutta l’America Latina e particolarmente accentuato in Brasile – centrato sulla produzione, sull’estrazione e sull’esportazione di materie prime senza valore aggiunto, in base alle esigenze del mercato internazionale e senza alcun riguardo per gli ecosistemi del Paese (dall’espansione delle monocolture di soia, di canna da zucchero, di eucalipto all’ampliamento dell’attività mineraria e petrolifera). Non è di sicuro un buon segno che la leader della bancada ruralista (il gruppo di potere dei latifondisti al Congresso) Kátia Abreu sia giunta ad affermare di sentirsi vicina alla presidente Dilma sul piano delle idee e della comprensione della realtà agricola brasiliana: «Chi, a sinistra, ha votato il Pt sperando di vedere una ruralista contenta?», si interroga Cynara Menezes (Carta Capital, 15/6). Senza contare che per nulla contenti sono invece i popoli indigeni, impegnati in una strenua resistenza contro le ripetute e violente aggressioni condotte da più parti con la benedizione e l’attiva collaborazione del governo (v. Adista n. 22/13).È in ambito urbano, tuttavia, che il disagio è esploso in maniera irrefrenabile, prendendo il via, a São Paulo, dall’aumento di venti centesimi del prezzo del biglietto dell’autobus, poi revocato con il montare della protesta. Un aumento che potrebbe apparire irrilevante se non fosse che un lavoratore retribuito con un salario minimo finisce per spendere a São Paulo addirittura oltre un quarto del suo stipendio per i trasporti, per poi trovarsi a viaggiare su autobus strapieni e lentissimi, a causa del vertiginoso aumento del numero di macchine dovuto alle politiche di incentivi adottate dal governo. Un problema, quello della mobilità urbana, che va poi a combinarsi con le difficoltà legate alle pessime condizioni dei servizi pubblici.

In cerca di un progetto di PaeseSe dunque nessuno poteva immaginare una mobilitazione di tale portata nel Brasile dell’accelerata crescita economica, della riduzione della povertà, della disoccupazione ai minimi storici, i segnali per non scambiare «il bicchiere mezzo pieno» per uno «traboccante» di sicuro non mancavano, come ha evidenziato Aldo Zanchetta nel Mininotiziario America Latina dal basso (n. 21), non senza interrogarsi sull’evidente mancanza di spirito critico nella sinistra internazionale e in quella nostrana.Iniziate in maniera spontanea, attraverso i social network, e senza leader, le manifestazioni costituiscono tuttavia, come ha evidenziato ancora dom Demetrio Valentini, «un fatto complesso, di difficile interpretazione», addirittura ambiguo (anche nel ricorso da parte di una minoranza ad atti di vandalismo). «Anche perché non è ancora concluso: il suo significato autentico dipenderà dagli sviluppi che seguiranno». Ancor più perché, con il passare dei giorni, le manifestazioni (che presentano finora un bilancio di 5 morti) sono diventate anche il terreno di uno scontro tra opposti orientamenti: quello del populismo di destra interessato a cavalcare le proteste in funzione antigovernativa, con un occhio che già guarda alle presidenziali di ottobre 2014, e quello dei movimenti popolari, che invece spingono per una svolta progressista del governo Dilma, o, perlomeno, per il rilancio di un dibattito a sinistra, rimasto soffocato negli anni del lulismo.

E di certo non può non destare «grossi interrogativi», evidenzia Aldo Zanchetta (Mininotiziario n. 22), «se un movimento nato con richieste certamente di sinistra rischia di non intendersi proprio con la sinistra e di farsi egemonizzare da una destra certo più reattiva ed abile ad inserirsi al suo interno». È in questo quadro allora che, nel tentativo di restituire protagonismo alla operaia e al movimento contadino, finora assenti dalla mobilitazione, le centrali sindacali, insieme al Movimento dei Senza Terra, uno dei più importanti movimenti sociali del continente (ma, sotto il mandato di Dilma, divenuto anch’esso meno deciso nelle sue critiche al governo), hanno fissato per l’11 luglio una Giornata nazionale di lotta, sul tema “Per le libertà democratiche e per i diritti dei lavoratori”, presentando una piattaforma unitaria su temi dell’educazione, della salute, della riduzione della settimana di lavoro a 40 ore, di un trasporto pubblico di qualità, della democratizzazione dei mezzi di comunicazione, della riforma agraria (Dilma Rousseff è riuscita a far peggio del neoliberista Fernando Henrique Cardoso quanto a espropriazione di terre per l’insediamento di famiglie contadine), del genocidio dei popoli indigeni. Pieno appoggio alle manifestazioni («purché pacifiche») è stato espresso anche dall’episcopato, che in un nota approvata nella riunione del Consiglio Permanente svoltasi a Brasilia dal 19 al 21 giugno, individua nell’inattesa presenza del popolo nelle strade «un fenomeno che coinvolge il popolo brasiliano e lo risveglia ad una nuova consapevolezza», richiedendo «attenzione e discernimento per identificarne i valori e i limiti, sempre in vista della costruzione della società giusta e fraterna che aneliamo»: le manifestazioni, scrivono i vescovi, «mettono in discussione tutti noi e attestano che non è più possibile vivere in un Paese con tanta disuguaglianza», testimoniando, nella «giusta e necessaria rivendicazione di politiche pubbliche per tutti» e nella denuncia «contro la corruzione, l’impunità e la mancanza di trasparenza nella gestione pubblica», che «la soluzione dei problemi che attraversa il popolo brasiliano sarà possibile solamente con la partecipazione di tutti». ()