La sfida della Green Economy

Aldo Bonomi
Il Sole 24 Ore

Per ripartire c’è bisogno di un’iniezione di robustezza: non “pannicelli caldi” ma motori che sviluppino una capacità di spinta tale da far compiere un salto di qualità al sistema. E’ la ripresa degli investimenti il motore da rimettere in moto: senza investimenti niente produzione, innovazione, accumulazione o distribuzione di ricchezza. Ciò dipenderà non solo dalla riorganizzazione dei fattori strettamente economici quanto soprattutto dalla capacità di quella che io chiamo “macropolitica” di costruire visioni e programmi per il futuro che ricostruiscano la tela lacerata della fiducia. Capaci cioè di disegnare sentieri nuovi di sviluppo a partire da un’idea di crisi che ne coglie soprattutto gli aspetti di metamorfosi sociale, culturale e ambientale. Gli animal spirits imprenditoriali possono tornare a funzionare solo dentro una nuova visione di progresso e sviluppo che abbia al centro l’accoppiata governance e sostenibilità.

Con tutte le cautele del caso penso che programma e visione possano essere sintetizzati dall’idea, seppur vaga, di “green economy”. Concetto ormai precocemente abusato e spesso utilizzato come scatola semantica buona per tutti i contenuti e gli usi. Che tuttavia può assumere significati più concreti e innovativi se associato all’idea di green society, ovvero all’idea che un nuovo ciclo di sviluppo economico all’insegna della sostenibilità potrà innescarsi solo se sarà l’esito di nuovi rapporti sociali e nuova governance pubblica. Green economy è concetto che non appartiene all’ambientalismo classico. Riguarda invece l’idea che il capitalismo incorpori il limite ambientale nel suo processo di accumulazione. Ne faccia motore di un nuovo ciclo.

È un discorso che riguarda il tema della sobrietà dei consumi e di una strategia keynesiana di nuovi investimenti. L’idea di green economy va quantomeno situata nelle condizioni reali del ciclo attuale. Perché a ben vedere ne possiamo identificare almeno tre versioni, con significati ed esiti politici opposti tra loro: anzitutto green economy è un concetto che sul piano delle economie mondiali è stato spesso declinato come grande bolla finanziaria, come finanziarizzazione delle commodities alimentari e dell’accaparramento delle terre agricole in Africa e in America Latina per produrre biogas oppure altri tipi di combustibili alternativi al petrolio in via di esaurimento. Una green economy fatta di una ristretta élite composta di dodici transnazionali che da sole monopolizzano il mercato mondiale delle commodities e ne “fanno” la potenza del controllo sui destini delle popolazioni. Al polo opposto esiste anche una seconda declinazione di green economy, legata all’idea di una diversità dei modelli di capitalismo e, nel caso dell’Italia, alla radice territoriale e localistica del nostro apparato produttivo.

Una green economy territoriale, dunque, che in parte sta già crescendo come esito di due processi evolutivi. Da una parte come evoluzione del capitalismo molecolare, come adattamento delle economie produttive di piccola e media impresa sul lato della maggiore efficienza energetica, della compatibilità ambientale delle produzioni, di una innovazione leggera dei processi produttivi e del design dei prodotti. Dall’altra, come evoluzione di una tendenza al vivere “borghigiano”, la propensione a una migliore qualità localistica della vita da parte di ampi segmenti di ceto medio riflessivo, portatore di un’evoluzione postmaterialista degli stili di vita e di consumo che fa da base sociale e culturale a fenomenologie come Slow Food, Eataly, reti e accademie del gusto proliferate sul territorio, ecc.

Un fenomeno a cavallo tra economia e rappresentazione sociale che sostiene filiere produttive e nel medesimo tempo ha sbocchi di tipo partecipativo importanti, che alimenta concezioni democratiche che stanno al confine tra green economy e ideologia della “decrescita felice”. In mezzo tra finanza e territorio si colloca una visione della green economy neokeynesiana e che, per quanto mi riguarda, rappresenta la vera sfida se si intende ricostruire una idea di sviluppo. Essa suggerisce la necessità di spingere in avanti la frontiera della discontinuità tecnologica, per esempio sul piano della questione energetica. Per farlo occorrono infrastrutture e poli che abbiano la massa d’urto adeguata. È chiaro che tutto ciò significa ripensare il ruolo del pubblico fuori sia dai vecchi schemi dell’Iri che dalle retoriche neoliberiste. Un ruolo che va declinato a cavallo tra centro e periferia del sistema.

Occorre continuare a guardare al difficile costruirsi di un’altra coscienza del mondo che per ora si rappresenta nei difficili, aspri e stanchi incontri globali, se si leggono i documenti ufficiali, di Kyoto, Copenaghen, Rio de Janeiro. Un neokeynesismo che dovrebbe tuttavia avere come punto centrale non tanto l’accentramento quanto la capacità dei territori, poli d’eccellenza, le nostre piattaforme territoriali, di fungere da fertilizzatori del nuovo ciclo economico rispetto alle economie territoriali. Questa è la sfida vera che attende i cavalieri che fecero le imprese del made in Italy. È la nostra Tennessee Valley.
È fatta da una riconversione possibile quantomeno di una parte consistente del tessuto produttivo diffuso di sei milioni di capitalisti molecolari trainati da quattromila medie imprese leader. Tutti impegnati nello sforzo epocale del produrre merci altre con altri motori di energia per altri consumi.

Uno sforzo immane che ridisegna il paesaggio che verrà, con meno capannoni e piú colline di Solomeo, dal nome del borgo umbro dove Brunello Cucinelli ha ricostruito una comunità-paese di produttori, piú chilometro zero in agricoltura, piú Eataly per commercializzare il made in Italy dei territori e piú Terra Madre per un vivere di sobrietà. Quando parlo di green economy che deve essere green society e green governance sostengo che la cornice di una grande politica industriale dovrà contenere anche l’eterotopia praticabile di un patto tra composizione sociale terziaria capace di ragionare di soft economy, di sviluppo sostenibile, di innovazione tecnologica, di economia dell’esperienza, di sobrietà, di saperi formali contaminati con i saperi contestuali dell’artigiania, di estetica della merce, contaminando l’impresa.