Cento giorni, e poi… un nuovo Concilio di D.Gabrielli

David Gabrielli
www.confronti.net

Nei primi cento giorni dell’episcopato romano di papa Francesco ci sono molte luci, che hanno acceso tante speranze. Vi sono però, anche, silenzi preoccupanti e deludenti. Comunque, senza la convocazione di un nuovo Concilio generale della Chiesa romana, le ardimentose ipotesi di riforma che balenano nelle parole e nelle scelte di Bergoglio finirebbero per rimanere sterili.

Cento giorni – in realtà, un pochino di più, visto che, nella nostra analisi, partiamo dal 13 marzo 2013, giorno dell’elezione di Francesco a successore di Benedetto XVI, per arrivare fino al trenta giugno – non sono ovviamente sufficienti per dare un giudizio esaustivo o per fare previsioni certe sul futuro del nuovo pontificato; sono, tuttavia, un ragionevole «tempo di grazia» lasciato al neoeletto per iniziare a conoscere da vicino i problemi della Curia romana e quelli dell’episcopato mondiale; e, a chi intenda valutarlo dall’esterno, un periodo congruo per poi esprimere, a ragion veduta, una provvisoria valutazione.

Da subito ci colpì lo stile di semplicità e di povertà di Francesco; uno stile che non è stato un atteggiamento momentaneo, ma una decisione dirimente e permanente che caratterizzerà l’intero pontificato, quale che sia la sua durata. E siccome questo stile profuma di vangelo, non possiamo che rallegrarcene. Naturalmente, da scelta ascetica personale, la povertà dovrà diventare istituzionale, cioè convertire le strutture mondane dell’apparato ecclesiastico e, in particolare, della Curia romana. Bene ha fatto, dunque, Francesco, ad avviare la rifondazione – sempre che sia possibile! – dello Ior (Istituto per le opere di religione, la singolare banca vaticana): non possiamo che auspicare che egli proceda arditamente, fino ad aprire quegli armadi che contengono gli scheletri del caso Banco Ambrosiano / Roberto Calvi / monsignor Paul Marcinkus, su cui Giovanni Paolo II impedì alla magistratura italiana di indagare.

Dall’insieme delle omelie (alla messa mattutina nella Casa di Santa Marta, ormai diventata il nuovo – più modesto, più familiare, ma non meno autentico – «palazzo apostolico»), dei discorsi e delle scelte che, di giorno in giorno, hanno costellato questi «cento giorni», traspare in Francesco un’ansia apostolica contagiosa e trascinante. E, tuttavia, alcune parole dette da lui, o certi suoi silenzi, ci sembrano preoccupanti. Qualche esempio, per spiegarci. Nel suo primo Angelus da vescovo di Roma ufficialmente «incoronato» (perché, seppure già pontefice, tale non era quando parlò all’Angelus del 17 marzo), il 24 marzo Francesco non ricordò che quello stesso giorno, nel 1980, era stato assassinato l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero. Non vi è ecclesiastico latino-americano che non conosca tale data; dunque, quella di Bergoglio non è stata una dimenticanza, ma una precisa opzione. E perché? Forse perché una parte notevole della Curia romana e dell’episcopato latino-americano continua a ritenere quel vescovo uno sprovveduto e un «cerca-guai»; un’altra parte, e moltissima gente, lo ritiene invece un «martire della giustizia». Per questo, il silenzio di Francesco fu particolarmente stridente. Del resto, si immagini quello che avrebbe significato per l’intera Chiesa romana (oltre che per l’America Latina) se il papa, in quell’Angelus, avesse definito – come ha pur fatto in privato – Romero «martire».

Pesante, ancora, fu il silenzio del vescovo di Roma quando, l’8 maggio, ricevendo l’Unione internazionale delle superiori generali (circa ottocento, rappresentanti tutti gli ordini e congregazioni religiose del mondo cattolico), non toccò minimamente le responsabilità del maschilismo ecclesiastico per l’emarginazione della donna nella Chiesa romana. Un problema spinoso che, ovviamente, non si può risolvere con una battuta («La consacrata è madre, deve essere madre e non “zitella”!»), e nemmeno con un discorso, ma ponendo quel tema sul tappeto dell’agorà ecclesiale.

Altri silenzi di Francesco – sul fine-vita, sulla contraccezione, sull’aborto, sull’omosessualità, sulla comunione ai divorziati risposati, sulle unioni civili – sono invece tutti da interpretare. Il tacere del papa è un modo per dire che egli non è d’accordo con le tesi rigoriste, espresse da Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger? Oppure egli concorda pienamente con i suoi predecessori, ma preferisce esporsi, in merito, poco alla volta, nel prossimo futuro, inevitabilmente turbando il clima idilliaco che ancora lo circonda? L’insistente (e biblicamente prezioso) riferimento che papa Bergoglio fa alla misericordia divina non potrebbe, logicamente, non portare ad un ribaltamento della «tradizionale» dottrina rigorista cattolica, ad esempio per quanto riguarda l’esclusione dall’eucaristia dei divorziati risposati. Ma un tale dietro-front non sarebbe indolore perché, in radice, metterebbe in discussione lo stesso magistero ecclesiastico: potrebbe, Francesco, dire «sì», là ove un papa non di secoli fa, ma di pochi mesi addietro, ha detto «no»? Eppure non si dà vera riforma evangelica che non si ponga in discontinuità con passate decisioni papali.

E così sul fronte della collegialità episcopale: essa non significa che il papa ascolta vescovi e cardinali, e poi decide autonomamente; significa (significherebbe), invece, che il vescovo di Roma si confronta con gli altri vescovi e, infine, insieme decidono. Perciò, a noi sembra che il ventaglio delle riforme – e, tra queste, ineludibile se si vuole andare alla fonte, un ripensamento del sacerdozio ministeriale, idea estranea all’Evangelo, che parla invece di ministero=servizio – fatte balenare dalle scelte e parole di Francesco, esigano niente di meno che la convocazione di un nuovo Concilio generale della Chiesa romana, una grande assemblea ovviamente aperta all’intero «popolo di Dio» (vescovi, monaci, monache, presbìteri, diaconi, religiosi, suore, laici uomini e donne). Altrimenti le ardimentose ipotesi lanciate dal vescovo di Roma rischiano di essere velleitarie e inani. Perciò, Francesco, coraggio: chiama a Concilio el pueblo de Dios!