Egitto: verso la guerra civile?

Elisa Ferrero
www.riforma.it

Dopo Mubarak, anche il governo di Mohammed Morsi è caduto. A decretarne la fine sono state ventidue milioni di firme raccolte dal movimento Tamarrud, sostenute da poderose manifestazioni di almeno quattordici milioni di persone (solo il 30 giugno). All’ennesimo rifiuto da parte di Morsi di qualsiasi concessione, e dopo il suo ultimo delirante discorso alla nazione di due ore e mezza, l’esercito è passato all’azione assieme ai rappresentanti di Tamarrud, ai leader dell’opposizione e alle autorità religiose cristiane e islamiche. Il generale Abdel Fattah el-Sissi, forte del sostegno popolare e del ruolo privilegiato concesso ai militari dalla stessa Costituzione approvata dagli islamisti, senza il consenso delle forze laiche e della maggioranza del Paese, ha destituito Morsi passando i poteri al presidente della Corte Costituzionale Adly Mansour e a un governo di unità nazionale.

Questa fine era scritta da tempo. Mentre, infatti, gli abili PR della Fratellanza Musulmana tessevano fitte relazioni internazionali alla ricerca di legittimità all’estero, mostrando un volto democratico, internamente Morsi e i suoi alleati soffocavano qualsiasi dialettica politica all’interno del quadro istituzionale esistente. La coalizione di forze rivoluzionarie creatasi per sostenere Morsi al momento del ballottaggio delle presidenziali è stata progressivamente esclusa da qualsiasi processo decisionale, sostituita da una cerchia di uomini incompetenti ma fidati che si è lentamente accaparrata gran parte delle posizioni di potere in tutti i settori. In assenza della Camera bassa del Parlamento, le cui elezioni continuavano a essere procrastinate, la Camera alta (Shura), in origine semplice organo consultivo, aveva acquisito pieni poteri legislativi per decreto del Presidente, funzionando come fabbrica di leggi che minavano i diritti, la libertà di espressione e l’indipendenza della magistratura. La reazionaria leadership della Fratellanza, rappresentata dalla Guida Generale Mohammed Badie e dal tycoon Khayrat el Shater (soprannominato il Padrino), una volta liberatasi dei dissidenti interni, si è imposta a tutto il Paese dettando la propria politica al presidente Morsi.

Questa leadership, inoltre, ha corteggiato e si è lasciata corteggiare dall’ala islamista più radicale, così come da elementi affiliati all’internazionale terrorista. Come scordare l’amnistia accordata da Morsi, poco dopo la sua elezione, a centinaia di responsabili di atti di terrorismo? In quest’ultimo anno sono proliferati i predicatori televisivi fedeli al Presidente che, usando un linguaggio violento, etichettavano i suoi oppositori come infedeli, giungendo persino a invocare l’uccisione dei manifestanti. Le parole si sono spesso trasformate in violenza fisica, a esempio in occasione delle proteste al palazzo presidenziale, in seguito alla dichiarazione costituzionale del 22 novembre 2012 con la quale Morsi si era arrogato tutti i poteri: le milizie degli islamisti attaccarono il sit-in pacifico, catturando e torturando alcuni dimostranti. Per non parlare del moltiplicarsi delle violenze settarie, perennemente impunite, dei casi di condanna per blasfemia o per insulto al Presidente e dei casi di arresti, talvolta sparizioni, di giornalisti e attivisti.

L’attacco alla libertà di espressione e all’incolumità fisica delle persone, giustificato con la religione, è stato, ancor più delle ragioni sociali ed economiche, il punto di non ritorno. La società si è ribellata in massa, dapprima con manifestazioni pacifiche e una raccolta firme senza precedenti, ma questo non è servito a nulla contro un Presidente ottuso, sostenuto da alleati sempre più chiusi nella loro ideologia. Seppur con rammarico, non è rimasta altra scelta che rivolgersi all’esercito, unico organo dello Stato, assieme alla polizia, a essere legalmente armato e in grado – si spera – di proteggere la popolazione dalla violenza islamista o da un conflitto civile fra parti opposte. La reazione violenta dei sostenitori di Morsi (innumerevoli le testimonianze in tal senso), e il supporto di personaggi come Ayman al-Zawahiri, ha fatto cadere tutte le maschere: quella della Fratellanza non era nemmeno un embrione di democrazia. Il Paese, ora, pare di nuovo caduto nelle mani dei militari e il nuovo governo avrà certamente grosse difficoltà a barcamenarsi fra piazza e generali. Tuttavia, come ha commentato un dimostrante furibondo di fronte alle accuse di golpe espresse da molti mass media ed esperti occidentali: «Se vi piace tanto, tenetevelo voi l’Afghanistan in casa!».

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La seconda ribellione dell’Egitto: un bivio tra guerra civile e riconciliazione

Elisa Ferrero
www.vociprotestanti.it

Dopo Mubarak, anche Mohammed Morsi è stato destituito dalle piazze egiziane, con una rivolta popolare che ha superato, per numero di dimostranti, quella del 25 giugno 2011. L’intervento dei militari è stato decisivo esattamente come nel 2011, ma con modalità molto diverse (basti dire che, al contrario del 2011 quando il generale Tantawi assunse tutti i poteri, questi ultimi sono stati ora distribuiti fra il nuovo presidente ad interim Adly Mansour, capo della Corte Costituzionale, e un governo tecnico di unità nazionale in via di formazione). Questa volta, tuttavia, la mossa dell’esercito ha provocato un feroce dibattito in Occidente (e anche in Egitto, per la verità): è stato un colpo di stato oppure no?

I tantissimi milioni di egiziani scesi in strada contro Morsi dicono convinti che non lo è stato. In effetti, si è trattato piuttosto di un’azione coordinata di una parte consistente della società rappresentata dal variegato movimento Tamarrod, che ha trascinato, infine, anche l’opposizione politica del Fronte di Salvezza Nazionale guidato da Mohammed el-Baradei, i salafiti del partito al-Nour, le massime autorità religiose del paese (la chiesa copta e l’Università di al-Azhar) e naturalmente l’esercito, pilastro immutabile dell’economia e dello Stato egiziano. Di fatto, si è assistito a un’enorme insurrezione popolare sia contro Morsi, sia contro la Fratellanza Musulmana, sia contro la loro ideologia politica e religiosa. In passato sono sempre stati i vari regimi arabi a reprimere duramente gli islamisti. Questa, invece, è la prima volta che si osserva una ribellione (Tamarrud, appunto) di tali proporzioni crescere e scoppiare dalle pieghe della società stessa, il che dà motivo di sperare in futuro positivo, ma anche di temere che il paese possa sprofondare in un conflitto civile.

Il dibattito che si concentra sulla natura dell’azione dei militari sembra inadeguato di fronte alle dolorose vicende che hanno condotto l’Egitto a questo punto, spesso rimaste nascoste all’opinione pubblica occidentale. Non coglie in nessun modo la complessità e la delicatezza della situazione, né il dramma che è in corso in queste ore, nelle quali i sostenitori dell’ex presidente Morsi hanno dichiarato la mobilitazione generale permanente nelle strade. Questo dibattito non afferra il dilemma nel quale è lentamente scivolata la società egiziana (laica soprattutto, ma non solo, poiché una parte dei salafiti si è unita agli oppositori di Morsi): come reagire democraticamente di fronte a un gruppo politico, e a un’organizzazione come la Fratellanza Musulmana che, una volta occupato il governo, si è comportata in maniera totalitaria, riproducendo i meccanismi di oppressione del vecchio regime?

E questo, oltretutto, in un contesto istituzionale e legale ancora incapace di offrire canali democratici efficaci per veicolare le legittime richieste popolari, perché la fase di transizione guidata dal generale Tantawi ha fallito miseramente nello stabilire una base minima di regole democratiche e di convivenza civile, necessarie al corretto funzionamento del confronto politico, della equa rappresentanza delle diverse componenti della società, della separazione dei poteri e della tutela dei diritti di individui e minoranze. Il Parlamento, per esempio, è stato eletto con una legge incostituzionale che, grazie a una particolare suddivisione del territorio in circoscrizioni elettorali, ha favorito la vittoria dei Fratelli Musulmani, violando il principio di equa rappresentanza.

Le elezioni, quindi, non bastano per definire un sistema democratico. Il presidente, una volta eletto, avrebbe potuto riformare le istituzioni dello Stato, ma soltanto con un approccio inclusivo, lavorando con la società civile, cioè con l’aiuto di tutte le forze che piazza Tahrir aveva portato alla luce e che l’avevano sostenuto contro il candidato avversario, Ahmed Shafiq. Avrebbe almeno potuto compensare l’assenza di un quadro istituzionale democratico con una prassi politica democratica. Non l’ha fatto. Ha invece progressivamente escluso dal governo e dalla consultazione chiunque non appartenesse alla sua cerchia di uomini fidati – e sottolineo uomini – vicini ovviamente alla Fratellanza Musulmana, completamente chiuso a qualunque consiglio o voce dissonante. Non c’è spazio per elencare le numerosissime violazioni delle regole democratiche compiute dal presidente Morsi, e dagli islamisti suoi sostenitori, nell’arco di un solo anno. L’approvazione forzata della Costituzione egiziana nel giro di poche settimane è solo l’esempio più eclatante. In qualsiasi democrazia occidentale ciò sarebbe stato sufficiente per chiedere l’impeachment del proprio Presidente.

Queste violazioni, inoltre, sono state accompagnate da un crescente discorso razzista da parte di predicatori e leader islamisti nei confronti di oppositori, minoranze (donne, copti, sciiti, omosessuali, atei, ecc.) e musulmani di qualsiasi tipo che non si accordavano al modello islamista. Questo discorso, diffuso da molte Tv satellitari, si è spesso trasformato in minacce fisiche, talvolta messe in atto. Il presidente Morsi non ha mai battuto ciglio di fronte alle azioni e alle parole dei suoi sostenitori. L’ultima goccia è stata poco prima della rivolta del 30 giugno, quando, alla sua presenza – in uno stadio riempito di suoi sostenitori, subito dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con la Siria e l’appello al jihad a fianco della resistenza (islamista, ovviamente) contro Assad – un predicatore ha lanciato una serie di fortissimi anatemi contro gli sciiti, chiamandoli “feccia” e invitando al loro sterminio. Qualche giorno dopo, quattro sciiti sono stati barbaramente uccisi da una folla di persone esaltate in un paese non lontano dal Cairo.

L’Egitto si è ribellato in massa di fronte a tutto questo. Davanti alla minaccia fisica, e al persistere della sordità del presidente Morsi a qualsiasi appello, manifestazione o altra iniziativa pacifica (come la raccolta di ventidue milioni di firme di Tamarrod), gli egiziani sono stati infine messi in un angolo. Sono stati costretti a chiedere aiuto all’esercito, pur dettandogli le condizioni della nuova fase di transizione. Le alternative erano rassegnarsi a una crescente oppressione o prendere le armi loro stessi. Naturalmente, i manifestanti del 30 giugno sanno meglio di chiunque altro che dell’esercito possono fidarsi fino a un certo punto, ma sono altresì coscienti di rappresentare una grande forza di controllo sui militari. Si spera inoltre che la generazione del generale el-Sisi, addestrata negli Stati Uniti, possa essere più avveduta, nel gestire la situazione, della vetusta generazione del feldmaresciallo Tantawi, addestrata in Unione Sovietica.

Dunque, in realtà, è stata scelta ancora una volta la via che pareva più pacifica. Scelta non facile comunque, nella speranza di giungere una buona volta alla democrazia vera e nella consapevolezza che potrebbe non bastare per prevenire la violenza fra cittadini di fazioni avversarie. Ciò che preoccupa è infatti la reazione dei sostenitori di Morsi. La maggioranza degli egiziani, che in questi ultimi due anni e mezzo ha sistematicamente decostruito il discorso dell’islam politico incarnato dalla Fratellanza a colpi di ironia e sarcasmo, talvolta anche crudele, e ha desacralizzato la sua immagine, ora non teme più gli islamisti. Se questi scateneranno la violenza, sarà pronta a opporsi con determinazione. Ma a quale prezzo?

La domanda ora è: sarà ancora possibile includere gli islamisti (se accetteranno) nel nuovo percorso democratico tracciato da Tamarrod? Del resto, sono parte del tessuto sociale egiziano e non si possono semplicemente escludere, se non si vuol ripetere il loro stesso errore. Il Paese avrebbe urgente bisogno di riconciliazione. In questo momento, tuttavia, sembra impossibile. Il dramma continua in Egitto.