Prime impressioni sull’enciclica Lumen Fidei di L.Boff

Leonardo Boff, Teologo/Filosofo
Ricevuto dall’autore e tradotto da Romano Baraglia

La lettera enciclica Lumen Fidei viene a nome del Papa Francesco. Ma è notorio che è stata scritta dal Papa anteriore, adesso emerito, Benedetto XVI. Lo confessa chiaramente il Papa Francesco: “assumo il suo prezioso lavoro, limitandomi ad aggiungere al testo qualche nuovo contributo” (n.7). E così dev’essere, perché in caso contrario non sarebbe classificata come appartenente al magistero papale. Sarebbe soltanto un testo teologico di qualcuno che, un giorno, è stato Papa.

Benedetto XVI voleva scrivere una trilogia sulle virtù cardinali. Ha scritto sulla speranza e sull’amore. Mancava un trattato sulla fede, cosa che ha fatto adesso con piccole aggiunte del Papa Francesco. L’enciclica non ci porta nessuna novità spettacolare che richiami l’attenzione della comunità teologica, dell’insieme dei fedeli e del grande pubblico. Un testo di alta teologia, frutto di appunti e carico di citazioni bibliche e dei Santi Padri. Curiosamente cita autori della cultura occidentale come Dante, Buber, Dostoevskij, Nietzsche, Wittgenstein, Romano Guardini e il poeta Thomas Elliot. Si vede chiaramente la mano di Benedetto XVI, specialmente nelle discussioni raffinate di difficile comprensione perfino per i teologi, maneggiando espressioni greche e ebraiche come è solito fare un dottore e maestro. È un testo diretto all’interno della chiesa. Parla della luce della fede per chi già si trova dentro un mondo illuminato dalla fede. In questo senso è una riflessione intrasistemica.

Inoltre possiede una dizione tipicamente occidentale e europea. Nel testo parlano soltanto autorità europee. Non si prende in considerazione il magistero delle chiese continentali con le loro tradizioni, ideologie, santi e testimoni della fede. È il caso di indicare questo solipsismo dato che in Europa vivono soltanto il 24% dei cattolici; il resto si trova fuori, 62% dei quali il cosiddetto chiamato Terzo o Quarto Mondo. Immaginiamo un cattolico sudcoreano, o indiano, o angolano, o mozambicano o addirittura andino che si metta a leggere questa enciclica. Probabilmente tutti costoro capiranno molto poco di quello che vi si scrive né si ritroveranno in quel tipo di ragionamento . Il filo teologico che trapassa il ragionamento è tipico del pensiero di Joseph Ratzinger come teologo.

La preponderanza del tema della verità, direi, in forma quasi ossessiva. In nome di questa verità, si contrappone frontalmente alla modernità. Ha difficoltà ad accettare uno dei temi più cari del pensiero moderno: l’autonomia del soggetto e l’uso che fa della luce della ragione. Joseph Ratzinger la vede come una forma di sostituzione alla luce della fede. Non dimostra quell’atteggiamento tanto consigliato dal concilio Vaticano II che sarebbe: “nei confronti con le tendenze culturali, filosofiche e ideologiche contemporanee, dobbiamo innanzitutto identificare le pepite di verità che in essi esistono e a partire da lì organizzare il dialogo, la critica e la complementarietà. Sarebbe bestemmiare contro lo spirito Santo immaginare che i moderni pensano soltanto falsità e non-verità.

Per Ratzinger, l’amore stesso viene sottomesso alla verità, senza la quale non supererebbe l’isolamento dell’«io» (n. 27). Tuttavia sappiamo che l’amore ha le sue proprie ragioni e ubbidisce a un’altra logica, diversa senza essere contraria, da quella della verità. L’amore può non vedere chiaramente, ma vede con più profondità la realtà. Già Agostino, sulla scia di Platone diceva che solo capiamo veramente quello che amiamo. Per Ratzinger “l’ amore è l’esperienza della verità” (n. 27) e “senza la verità la fede non salva” (24). Questa affermazione è problematica in termini teologici perché tutta la Tradizione, in modo speciale i concili hanno affermato che soltanto salva “la verità informata dalla carità” (fides charitate informata). Senza l’amore la verità è insufficiente per raggiungere la salvezza. In un linguaggio terra terra diremmo: quello che salva non sono le prediche ma le pratiche effettive.

Tutto il documento del magistero è fatto da molte mani, che tentano di comporre le varie tendenze teologiche accettabili e alla fine il Papa conferisce il suo stile e dà l’avallo. Questo vale anche per questo documento. Nella sua parte finale probabilmente per mano il Papa Francesco, si nota una notevole apertura che si accompagna male con le altre parti anteriori, fortemente dottrinarie. In esse si afferma enfaticamente che la luce della fede illumina tutte le dimensioni della vita umana. Nella parte finale l’atteggiamento è più modesto: “La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma è una lampada che guida i nostri passi nella notte e questo è sufficiente per il cammino” (37).

Con esattezza teologica si sostiene che “la professione di fede non è prestare assenso a un insieme di verità astratte ma fare entrare la vita in comunione piena con il Dio vivo” (45). La parte più ricca a mio modo di vedere, si trova al numero 45. Quando si spiega il Credo. Lì si fa un’affermazione che deborda dalla teologia e tocca la filosofia: “il fedele afferma che il centro dell’essere, il cuore più profondo di tutte le cose è la comunione divina” (n.45). E completa “il Dio- comunione è capace di abbracciare la storia dell’uomo e introdurlo nel suo dinamismo di comunione” (n. 45).

Ma si constata nell’enciclica una dolorosa lacuna che le sottrae gran parte della sua importanza: non abborda le crisi della fede dell’uomo di oggi, i suoi dubbi, le sue domande a cui nemmeno la fede può rispondere: Dove stava Dio nello tsunami che ha decimato migliaia di vite o a Fukushima? Come credere dopo il massacro di migliaia di indigeni fatti da cristiani lungo tutto il corso della nostra storia, delle migliaia di torturati assassinati dalle dittature militari degli anni 70 e 80? Come avere ancora la fede dopo i milioni di morti nei campi nazisti di sterminio? L’enciclica non offre nessun elemento per rispondere a queste angustie. Credere è sempre credere nonostante… La fede non elimina i dubbi e le angustie di un Gesù che grida sulla croce: “Padre, perché mi hai abbandonato”? La fede deve passare per questo inferno e trasformarsi in speranza che per tutto esiste un senso ma nascosto in Dio. Quando si rivelerà?