Bologna, il referendum tradito

Francesca De Benedetti
www.micromega.net

Tradimenti estivi sotto l’ombrellone delle larghe intese. E’ il destino già scritto che spetta ai referendum: successe nel 2011 con la consultazione sull’acqua e i servizi pubblici locali, accade nuovamente a Bologna che si è espressa perché i finanziamenti comunali venissero rivolti non alle scuole private paritarie ma a quelle comunali e statali. Succede sotto il sole, stavolta, del luglio 2013.

Il tentativo di cancellare l’esito del voto dei cittadini come fosse una scritta sulla sabbia è molto più di un errore estivo. La ripetitività, la costanza e l’accanimento con cui un ampio raggio di rappresentanti si coalizza per far divorziare la volontà popolare dal piano della decisione istituzionale è molto più di un inciampo momentaneo. Questa tenacia va di pari passo con il ruolo che lo stesso strumento referendario sta sempre più acquisendo: tanto più i rappresentanti spezzano il meccanismo virtuoso con i rappresentati, quanto più il referendum assume la portata di strumento principe per coagulare le forze della società civile orfane di rappresentanza nelle stanze delle decisioni. Una dinamica che sta maturando da almeno un paio d’anni, e che preconizzava a ben guardare tanto il governo cosiddetto tecnico quanto le cosiddette larghe intese – tanto la versione acerba quanto quella matura ed esplicita di accordo fra i partiti di centrodestra e centrosinistra.

Nel 2011 il referendum sull’acqua favorì l’espressione di istanze già allora da tempo senza voce sulla scena pubblica. E nonostante l’appoggio del Pd – arrivato in extremis, con molti “se” e quando la probabile vittoria referendaria prometteva di essere l’ennesima spallata al governo Berlusconi – bastarono poche settimane per verificare che la classe dirigente avrebbe fatto lo sgambetto alla vittoria dell’acqua pubblica.

Per l’esattezza bastarono due mesi: la manovra economica riaprì le porte alle privatizzazioni, incentivandole. Poi arrivò il governo sostenuto da Pd e Pdl, e l’entrata nell’era Monti non fece che consolidare la direzione ostinatamente contraria alla volontà popolare. Doccia fredda di gennaio, per il popolo del referendum: alla voce “liberalizzazioni”, arrivavano proprio i provvedimenti che la pioggia di “si” avrebbe dovuto scongiurare. Assieme alle ampie fette di società rimaste afone, anche la democrazia aveva perduto le sue parole essenziali: accountability, reliability, insomma rapporto tra il voto e chi dovrebbe portarlo a una conseguenza. Parole spezzate, fiducia tradita. Parallelamente, la consapevolezza dell’importanza costituente dei referendum che aggregavano i cittadini sulla base delle istanze dal basso, e al contempo un quadro politico che portava a piena conseguenza quella alleanza-distacco dalla volontà popolare.

Il referendum consultivo bolognese per la scuola pubblica è il tradimento in fase matura, e la larga intesa nell’età dell’evidenza. La scelta di finanziare con i soldi pubblici comunali le scuole private paritarie dell’infanzia aveva contraddistinto dalla metà degli anni Novanta tanto le giunte di centrosinistra quanto di centrodestra. Il Pd e il centrodestra un anno fa avevano congiuntamente confermato quella volontà politica. Prima ancora che la consultazione popolare avesse luogo, il primo cittadino bolognese già annunciava che a poco sarebbe valsa l’opinione dei cittadini, perché il cosiddetto sistema integrato pubblico-privato era fuori discussione. L’opposizione al referendum ha assunto toni aggressivi non tanto e non solo per la questione di merito messa in campo, quanto per lo stesso fatto di sollevarla all’attenzione e alla scelta di tutti i cittadini.

Per i finanziamenti alle scuole private si è espresso un arco di forze politiche ed economiche quanto mai potente: non solo Pd e centrodestra, ma anche un matrimonio di ferro tra Cooperative, Curia, Comunione e liberazione, e tante altre organizzazioni. Il 26 maggio 2013 i cittadini si sono espressi per la A, ovvero perché i finanziamenti comunali venissero indirizzati alla scuola pubblica, comunale e statale. Il referendum è sì consultivo, ma le norme del Comune di Bologna prevedono che il Consiglio comunale debba esprimersi sulla materia oggetto di referendum entro tre mesi dallo svolgimento dello stesso. Insomma, la politica si deve mettere dietro al banco. E possibilmente, dice la regola democratica, deve farlo considerando la partecipazione consapevole dei cittadini come il principale alimento per svolgere al meglio il proprio ruolo.

Invece a Bologna questo lunedì 22 luglio il Partito democratico con il sostegno annunciato del centrodestra ha proposto con un ordine del giorno (il cui voto effettivo è stato rinviato al 29 luglio) il mantenimento dello status quo, del finanziamento comunale alle scuole private paritarie dell’infanzia, perché così è giusto, sostiene la “larga intesa” (diversamente da Sel, M5S e altri). Insomma l’intesa politica trascende ormai il fondamento della politica stessa, che è “un cittadino, un voto”. La coazione a ripetere, e la coalizione a ripetere, pare strozzare il referendum, abortirne le conseguenze, negarne le evidenze.

Ma questa sorte ironicamente non fa che rafforzare gli strumenti di partecipazione dal basso come principale veicolo di ripristino del meccanismo democratico. E il tradimento è destinato a perpetrarsi finché potrà farlo impunemente. Il matrimonio tra rappresentati e rappresentanti va alla prova delle urne, e il senso di impunità della politica che tradisce può durare soltanto fino a quando lo stato di salute della democrazia sarà tale da non consentire il ricambio, l’alternanza. Insomma oltre la cortina spessa delle larghissime intese, l’emergere di una reale alternativa.