Il razzismo-sessismo come idioma culturale

Annamaria Rivera
www.micromega.net

E’ da vent’anni che lo andiamo scrivendo, in saggi, rapporti e articoli: il razzismo, spesso coniugato con misoginia e sessismo, è tuttora parte profonda dell’immaginario, dell’idioma culturale, dell’ideologia, spontanea e non, di buona parte del nostro infelice Paese. E non parliamo del razzismo mascherato – differenzialista o culturalista –, ma di quello “classico”, basato sulla credenza nella gerarchia e ineguaglianza tra le “razze”. Le recenti sortite dei Valandro, Calderoli e leghisti vari, ma anche di soggetti ben lontani, almeno politicamente, dalla Lega Nord, hanno confermato fino a qual punto i topoi dell’ideologia razzista e sessista alberghino fra il ceto politico italiano e, quel che forse è peggio, siano ritenuti pronunciabili in pubblico.

Come si sa, non vi è niente di più classicamente razzista dell’equiparazione del “negro” alla scimmia (e non già, come diremo, perché i primati siano da disprezzare). Eppure l’indegno vicepresidente del Senato, non ha esitato un attimo a eccitare il suo uditorio con quella battutaccia da fisiognomica per imbecilli. E i suoi critici che in rete si sono divertiti a rovesciarla col raffigurare Calderoli in sembianze scimmiesche hanno seguito la sua stessa logica, dileggiando il dentista di Bergamo e al tempo stesso gli oranghi. I quali – lo sanno anche i bambini – con i bonobo, gli scimpanzé e i gorilla, appartengono alla medesima famiglia del genere homo (con gli oranghi condividiamo il 95% del patrimonio genetico, con gli scimpanzé addirittura il 98,5%).

In realtà, le metafore e i dispositivi che de-umanizzano gli altri e il genere femminile si basano sulla preventiva bestializzazione degli animali: se l’umano può essere inferiorizzato e degradato mediante metafore zoologiche, e sovente trattato al pari degli animali, è perché a questi ultimi si sono attribuiti i caratteri della selvatichezza, istintualità, ferocia, insensibilità, stolidità e così via.

Ancor più razzista-sessista è ciò che ha scritto l’omone di Cavarzere che osa esibire l’effigie tatuata del Che. L’ex consigliere comunale, espulso da Sel, al secolo Angelo Romano Garbin, ha riproposto il genere d’infamia verbale che alla ex leghista Dolores Valandro è costata la condanna a un anno e un mese di detenzione e l’interdizione per tre anni dai pubblici uffici. Garbin ha fatto proprio, infatti, uno dei motivi più classici dell’immaginario coloniale e razzista: l’attribuzione ai “negri” di una potenza o sfrenatezza sessuale mostruose, da cui discenderebbe la loro naturale inclinazione allo stupro. Di suo ci ha aggiunto l’immagine perversa della donna in balia di “una ventina di negri assatanati”: un fantasma sadico e voyeuristico che rimanda all’immaginario del pene come arma per punire e dominare la parte avversa, in tal caso non “etnica”, come nella ex Jugoslavia, ma politica. Per completare l’opera, il gentiluomo settantenne ha aggiunto un tocco di stile leghista scrivendo quella frase in dialetto.

Tutto questo la dice lunga sul profilo psicologico, oltre che culturale e ideologico, dell’ex militante di Sel. Che costui fosse considerato figura “carismatica” e che avesse ruoli di responsabilità non sono cose che si cancellano con un’espulsione e qualche replica pungente all’indirizzo dei leghisti. S’imporrebbe, invece, una riflessione profonda sul degrado culturale e ideologico cui la stessa sinistra non è riuscita a sottrarsi; sulla sua permeabilità ai temi di stampo xenofobico agitati dalla destra; sulla profondità con cui la talpa leghista ha scavato al di là dei suoi confini, rendendo dicibile coram populo ciò che un tempo era in qualche misura interdetto, sebbene covasse nel profondo delle viscere nazionali, mai depurate dai retaggi del colonialismo e del fascismo.

Che l’ideologia leghista abbia concorso a normalizzare le pratiche discorsive razziste-sessiste è dimostrato da una voce che, pretendendo d’essere prestigiosa, non perde occasione per esternare la sua islamofobia compulsiva e per esprimersi rozzamente contro qualsiasi progetto riguardi i diritti delle persone d’origine immigrata. Ci riferiamo a Giovanni Sartori, il quale appena tre giorni dopo l’insolenza razzista di Calderoli prende la parola sul Corriere della Sera col consueto lessico improprio e superficiale, non consono a uno studioso. E non già per stigmatizzare il vicepresidente del Senato e solidarizzare con Kyenge, come spetterebbe a un anziano professore che vuole insegnarci i fondamenti della democrazia liberale, bensì per svillaneggiare la stessa ministra dell’Integrazione e altre due donne autorevoli, Laura Boldrini e Livia Turco: tutte incompetenti e raccomandate, a suo parere.

L’ultima è in più bollata come “pasionaria” di un “terzomondismo dogmatico e pressoché fanatico”: affermazione a dir poco ardita, se si considera che Turco è autrice con Napolitano della legge, tutt’altro che “terzomondista”, che fra l’altro ha istituito la detenzione amministrativa per i migranti. Quanto a Kyenge, per il professore, che evidentemente preferisce i dentisti agli oculisti, ha anche la grave colpa di non aver ancora letto, malgrado le sue reiterate sollecitazioni, ciò che, esagerando, egli si ostina a chiamare libro: una cinquantina di cartelle pubblicate nel lontano 2000 col titolo Multiculturalismo, pluralismo culturale ed estranei, in cui in sostanza rinverdisce la tesi (invero di matrice nazionalsocialista) della “alterità radicale non integrabile”. Che egli identifica, certo, non nella figura dell’ebreo, ma in quella di un altro nemico ontologico: l’africano-arabo-musulmano (prima o poi bisognerebbe spiegare a questo fine pensatore che i tre termini non sono necessariamente coincidenti).

Infine, che il maggiore quotidiano italiano continui ad affidare la propria linea, anche in tema d’immigrazione e cittadinanza, alle sbavature sartoriane, anche questo è un piccolo segno del tragico declino civile, politico e culturale del nostro Paese.

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La normalità deviata

Stefano Rodotà
Repubblica, 20 luglio 2013

Molti fatti, in questi giorni, hanno destato scandalo, suscitato proteste, acceso qualche fuoco d’ indignazione. Ma non sono il frutto di una qualche anomalia, non rientrano nella categoria delle eccezioni o degli imprevisti. Appartengono a quella “normalità deviata” che caratterizza ormai da anni il funzionamento del sistema politico.

Ha corroso il costume civile, accompagna il disfacimento del sistema industriale e la terribile impennata della povertà. Il caso Alfano è davvero una illustrazione esemplare del modo in cui questa normalità deviata è stata costruita, fino a divenire l’ unica, riconosciuta forma di normalità istituzionale. Lasciando da parte la responsabilità oggettiva per fatti di cui non avrebbe avuto conoscenza, bisogna chiedersi quale ruolo giochi la responsabilità politica.

Dove va a finire questa specifica forma di responsabilità quando si adotta questo tipo di argomentazione? Scompare, anzi è da tempo scomparsa, creando una zona di immunità nella quale i titolari di incarichi istituzionali si muovono liberi, quasi estranei alle strutture che pure ad essi fanno diretto riferimento, anche quando il funzionamento di queste strutture produce gravi conseguenze politiche. La responsabilità politica, anzi, finisce con l’ essere considerata come una insidia, un rischio. Guai a farla valere se così vengono messi in pericolo la stabilità del governo, gli equilibri faticosamente o acrobaticamente costruiti.

Questo particolare tassello della normalità deviata finisce con il rivelare la più profonda distorsione del nostro sistema politico – l’ essere ormai prigioniero di uno stato di emergenza permanente. Questo è divenuto l’ argomento che inchioda il sistema politico alle sue difficoltà, negandogli la possibilità di sperimentare soluzioni diverse da quelle che, via via, mostrano i loro evidenti limiti, fino a sottrarre alla politica ogni legittimo margine di manovra. Di nuovo la normalità deviata, di fronte alla quale vien forte la tentazione di pronunciare un “elogio della follia politica”, che spesso consente di cogliere i tratti reali di una situazione assai meglio del realismo proclamato.

Era davvero imprevedibile quello che sta accadendo, l’ intima fragilità delle “larghe intese” che, prive di qualsiasi collante politico, sono in ogni momento esposte a fibrillazioni, ricatti, strumentalizzazioni? È la mancanza di coraggio politico a produrre instabilità. Così non soltanto l’ orizzonte dell’ azione di governo si accorcia sempre di più, fino a ridursi al giorno dopo. Soprattutto si perde la capacità di operare in modo adeguato alle situazioni di crisi e di ripartire le risorse rispettando le vere priorità, le emergenze effettive.

Infatti, si accettano come variabili indipendenti quelle che, invece, sono pretese settoriali o prepotenze di parte. Problemi procedurali a parte, com’ è possibile ripartire le scarse risposte disponibili assumendo come tabù intoccabile l’ acquisto degli F-35, mentre premono altre e più drammatiche necessità? Com’ è possibile inchiodare fin dal primo giorno l’ azione del governo intorno alla questione dell’ Imu, condizionando l’intera strategia economica per soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svaniscono quelle del Pd?

In questa normalità sempre più deviata non riescono a trovare posto le vere, grandi emergenze. Mentre si dissolve l’ apparato industriale, non vi sono segni di una vera politica industriale. Neppure questa è una novità, perché si tratta di una eredità dei governi Berlusconi e pure del governo Monti, dove quelle due parole venivano liquidate quasi con disprezzo come si facesse cenno a una inammissibile interferenza nel mercato.

E da questa ulteriore assenza di politica viene un contributo all’ aggravarsi della situazione economica, che ormai deve essere letta partendo dalle cifre impressionati sulla povertà. Le ha analizzate efficacemente e impietosamente Chiara Saraceno, sottolineando pure la necessità di modifiche strutturali, come quelle riguardanti l’ avvio di forme di reddito garantito. Un governo blindato, dunque, non è necessariamente sinonimo di governo forte e efficiente. Ma la normalità deviata non la ritroviamo solo nel circuito istituzionale. È dilagata nella società, con effetti perversi che verifichiamo continuamente osservando il degradarsi delle regole minime della convivenza civile.

So bene che il caso Calderoli è vicenda miserevole. Ma bisogna ritornarci perché si sono ricordati i precedenti di questo eminente rappresentante della Lega, dalla maglietta contro l’ Islam all’ annuncio di passeggiate con maiali dove si pensava di costruire una moschea. Nulla di nuovo, allora. Gli insulti alla ministra Kyenge appartengono a questa perversa normalità, accettata e addirittura premiata con incarichi istituzionali. Ma Calderoli non era e non è solo, è parte di una schiera che ha fatto del linguaggio razzista, omofobo, sessista un essenziale strumento di comunicazione, per acquisire consenso e costruire identità. E infatti, per giustificarlo, si è detto che le sue erano parole da comizio, dunque legittime, senza rendersi conto dell’enormità di questa affermazione: la propaganda politica può travolgere il rispetto dell’ altro, negandone l’ appartenenza stessa al comune genere umano, pur di arraffare un miserabile voto.

Ma era una battuta, si è detto. Lo sentiamo dire da anni, senza che questa pericolosa deriva sia mai stata contrastata seriamente da nessuno. Anzi, è stata sostanzialmente legittimata da due categorie – i realisti e i derubricatori. Innocue quelle battute, derubricate a folklore, a modo per avvicinare il linguaggio della politica a quello dei cittadini. Ma il linguaggio è strumento potente e impietoso, e oggi ci restituisce l’immagine di una società degradata, nella quale sono stati inoculati veleni che l’ hanno drammaticamente intossicata. Inutili moralismi, ribattono i realisti, che guardano alla Lega come forza politica, addirittura come una “costola della sinistra”. Ma una cosa è considerare la rilevanza politica di un fenomeno, altro è accettarne ogni manifestazione, rinunciando a contrastare proprio ciò che frammenta la società, ne esaspera i conflitti. Altre deviazioni potrebbero essere ricordate. E tutto questo ci dice che, per tornare ad una decente normalità, serve una innovazione politica profonda, che esige altre idee e altri soggetti.

(22 luglio 2013)