Femminicidio – Nessun decreto di tipo repressivo potrà fermare la mattanza

Senonoraquando – Genova
www.womenews.net

La violenza contro le donne continua senza sosta: nell’arco di due giorni, nel siracusano una donna è stata uccisa a colpi di fucile davanti al figlio di quattro anni dal marito, che non riusciva ad accettare la separazione; a Genova una donna è stata sfregiata al volto da un aggressore ad oggi sconosciuto che le ha lanciato addosso dell’acido; e la lista continua.

Ci siamo chieste se e come il decreto legge presentato dal Governo Letta possa contribuire a fermare questa mattanza attraverso alcune aggravanti delle pene, per esempio in caso di violenze perpetrate in presenza di minori, o tramite l’obbligo di arresto e allontanamento dei soggetti maltrattanti in caso di flagranza di reato, o ancora rendendo la querela non rimettibile. Ma abbiamo molti dubbi.

Prima di tutto, sembra evidente che sia stato ancora una volta strumentalizzato un problema grave come il femminicidio: si è venduto come “anti-femminicidio” un decreto che in realtà comprende una lunga serie di provvedimenti che poco hanno a che fare con le necessità delle donne che subiscono violenza: per esempio norme sul ruolo dell’esercito nei provvedimenti di ordine pubblico e pene più aspre per chi manifesta contro i cantieri delle grandi opere.

Se poi andiamo a vedere il punto che riguarda “prevenzione e contrasto alla violenza di genere”, scopriamo che mancano completamente provvedimenti che vadano alla radice del problema, che è culturale. Nel decreto non si fa menzione di ciò che serve veramente, e senza cui tutto il resto rischia di non essere efficace:

– non c’è un impegno concreto ad investire in percorsi educativi a partire dalle scuole sulla relazione tra donne e uomini e sullo scardinamento degli stereotipi di genere, verso la consapevolezza che nessuno/a possiede l’altro/a. Non si parla neppure di formazione continua per le forze dell’ordine e per i magistrati ancora poco sensibili a questi temi, non educati nel modo adeguato ad affrontarli;

– non si nominano finanziamenti ai centri antiviolenza e alle reti di supporto alle donne prima, durante e dopo il momento della denuncia dell’aggressore, che facilitino anche una maggiore autonomia.

– non si parla di centri di ascolto o percorsi formativi per gli uomini maltrattanti, affinché anche chi abusa possa essere aiutato ad uscire dalla spirale della violenza.

Infine, entrando nel merito di alcuni punti del decreto, abbiamo valutato che:

– la non revocabilità della querela da parte delle donne offese è un’arma a doppio taglio. Potrebbe essere applicata in maniera responsabile solo se si garantisse concretamente alle donne che le violenze non continuino, ma questo può avvenire solo se viene finanziata e fatta crescere la rete di supporto alle donne in ogni momento del percorso di distacco.

– l’inasprimento della pena di un terzo nei casi in cui le violenze vengano perpetrate da un coniuge/partner rispecchia la frequenza dei femminicidi che avvengono in ambito domestico, ma rischia di discriminare tutte le altre situazioni di violenza. E’ certamente in una situazione critica la donna che vive con l’aggressore, ma grave è anche l’aggressione da parte di chi non è il partner. Questa differenziazione potrebbe creare una discriminazione tra le donne soggette a violenza. A nostro avviso, sarebbe meglio personalizzare il supporto alle singole donne a seconda dei casi specifici piuttosto che stabilire differenziazioni standard di pena, che risulterebbero poco efficaci.

– è positiva la possibilità di richiedere al Giudice di allontanare il maltrattante da casa con un provvedimento inibitorio urgente, senza che sia sempre la donna che subisce violenza a dover fuggire altrove; tuttavia abbiamo riscontrato che le misure sull’allontanamento del coniuge violento, previste già nella riforma del codice civile, stentano ad essere applicate. L’allontanato comunque dovrebbe essere inserito in un percorso per uscire dalla spirale della violenza.

– è positivo infine che le donne con basso reddito possano usufruire di assistenza legale gratuita, in attuazione della Convenzione di Istanbul recentemente ratificata (seppur in un’aula parlamentare deserta).

Resta tuttavia non affrontata la radice del problema, che è di tipo culturale. Finché non ci sarà la volontà di agire su questo fronte, con strumenti che puntino sull’educazione nelle scuole e rafforzino il sistema di sostegno alle donne e agli uomini, nessun decreto di tipo repressivo, basato solo su un inasprimento delle pene, potrà fermare la mattanza.

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Femminicidio: sembra che ce l’abbiamo fatta. e invece…

Edda Billi
www.womenews.net

Se penso che si era negli anni ’70-all’inizio del “nuovo” Femminismo, e in un Collettivo che diventerà famoso, quello di Pompeo Magno- e in un acceso dibattito io definii la violenza sulle donne “FEMMINICIDIO”; se penso che nessuna delle “sorelle” prese in considerazione questa definizione, e a quanti anni sono passati e quanto dolore e angoscia sono stati inflitti alle donne;
se penso a tutto questo è perchè sembra che, con la nuova legge, ce l’abbiamo fatta.

E invece. Manca del tutto, o quasi, un’educazione sentimentale fra i due sessi, la sola in grado di cambiare davvero il corso degli eventi.

Aumentare le pene non ha mai sortito gli effetti sperati, purtroppo. C’è bisogno di aria fresca, di dialogo,di speranza e un briciolo di amore.

Ma come sarà possibile in un mondo come il nostro in cui sembra morta la fratellanza e la sorellanza, forse, strozzata nella culla!

Ma di certo non possiamo arrenderci; anche se prevaricazioni e violenze sembrano essere le padrone di ogni azione”umana”,
non bisogna arrenderci perchè abbiamo dalla nostra parte la coscienza dell’intelligenza e della razionalità “donnica”.

Anche se la Speranza, ultima dea, sorride sorniona dall’alto di “tutti” i campanili.

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“Quella non è una legge contro il femminicidio”

Michela Murgia
Vanity Fair

C’è poco da cantar vittoria: il decreto legge approvato dal consiglio dei ministri non è una legge contro il femminicidio. Si tratta infatti di un pacchetto di norme dove la violenza alle donne viene genericamente affiancata a fenomeni di natura assai diversa, come la violenza negli stadi e i crimini informatici, ma anche contro situazioni tutt’altro che criminali, come le proteste civiche contro decisioni imposte dallo Stato, stile Val di Susa. Perchè dunque stupirsi se questo pacchetto contiene solo inasprimenti di pena e procedure giudiziarie di emergenza? Se si considera la violenza di genere come un imprecisato problema di sicurezza nazionale, non si può immaginare molto altro che questo. Eppure sarebbe bastato ascoltare le associazioni delle donne che da anni ripetono che il femminicidio – inteso nel suo significato ampio di pratica di morte e mortificazione di una donna in quanto tale – prima di essere un dato criminale è un fenomeno culturale. Nel decreto, così come è stato presentato, di norme per affrontarne le matrici sociali non sembrano esserne state previste. Si parla ripetutamente di nuovi poteri alle forze dell’ordine, mentre non ci sono riferimenti al potenziamento dei centri anti-violenza, primo vero argine contro il femminicidio. Non si parla di investimento nei programmi scolastici, mentre invece sarebbe fondamentale avere percorsi di istruzione appositi di educazione al genere e all’affettività, le uniche azioni che possono contribuire a cambiare la cultura del possesso sin dalle scuole elementari.

Paradossalmente nel decreto si incarna invece proprio la mentalità che si dovrebbe combattere, attraverso la presenza di norme di stampo esplicitamente paternalistico come quella che rende la querela della donna irrevocabile; chi si assume l’arbitrio di impedire alla vittima di ritirare la denuncia, oltre a privarla dell’elementare diritto personale di rivalutare le sue scelte, dovrebbe anche garantirle con certezza che l’inasprimento degli abusi nei suoi confronti sarà impedito, perché nella maggioranza dei casi la querela porta proprio a un’escalation della violenza. Nessuno può ragionevolmente garantire alla donna e agli eventuali figli una protezione costante per tutto il tempo dell’iter giudiziario, tanto meno può farlo uno Stato che si occupa della violenza di genere solo in quanto reato, proponendo risposte legislative che mettono ancora una volta al centro l’aggressore e non l’aggredita.

Il solo passo avanti rappresentato da questo pacchetto di norme è il fatto che la politica finalmente stia cominciando a considerare il fenomeno del femminicidio come qualcosa di concreto di cui occorre occuparsi. Il secondo passo verso il traguardo di una legislazione civile veramente europea sarebbe quello di tirare fuori le pratiche di femminicidio dall’alveo delle “emergenze criminali” e cominciare a rendersi conto che la violenza di genere è una normalità sociale e che tale resterà fino a quando questo paese non si doterà dei necessari strumenti di contrasto culturale al patriarcato e al suo frutto principale: la violenza sui soggetti che indebolisce