Lettera aperta contro omofobia e transfobia

Marco Alessandro Giusta, presidente Arcigay Torino
Facebook, 11 agosto 2013

Bisogna restare calmi, mi dico. Rispondere a chi la pensa diversamente e porta avanti un’idea diversa con toni pacati, invitando al dialogo e alla riflessione. Sorvolando sulle palesi bugie da campagna elettorale che vengono abilmente costruite per porre un freno alle battaglie di rivendicazione di uguaglianza e parità all’interno del nostro paese.

Poi, oggi, apro il giornale e scopro che un altro ragazzo di 14 anni a Roma si è suicidiato perchè era gay. Allora prende il sopravvento la rabbia, che inizia da molto lontano.

Era il 2007, quando Matteo, sedici anni di Torino, si getta da un balcone. I suoi compagni di scuola lo emarginavano e lo chiamavano Jonathan, come il personaggio del Grande Fratello. Lo prendono in giro dicendo “sei gay, ti piacciono i maschi”. E’ il primo suicidio che mi colpisce dritto allo stomaco, il primo che mi urla rabbia nelle vene e mi fa chiedere giustizia. E’ quello che mi ricorda di quando anche io pensavo a come tirare avanti, un ragazzino gay in una provincia come quella di Cuneo dove la parola “omosessuale” era bandita da ogni vocabolario in un clima di omertà e silenzio.

Molti, troppi ne sono seguiti. Da quelli che hanno scalato le cronache nazionali (Andrea, il ragazzo dai pantaloni rosa, impiccatosi lo scorso anno sempre a Roma) a quelli che non hanno fatto troppa notizia, come il ragazzo di Torre del Greco nell’ottobre del 2009, il sedicenne trans gender in provincia di Agrigento, a Vicenza il ragazzo che ha tentato di scavalcare il parapetto di un cavalcavia, il ragazzo che a marzo di quest’anno si è gettato dal balcone sempre a Roma, e molti, molti altri che non entrano nelle cronache ma che conserviamo nel silenzio del nostro cuore: amici, compagni, conoscenti le cui motivazioni sono spesso coperte dal silenzio imbarazzato o inconsapevole.

E’ stimato infatti circa che un terzo dei suicidi di ragazzi e ragazze in età adolescenziale è dovuto al loro orientamento sessuale (dati varie ricerche in Italia, tra cui Modi di dell’Istituto Superiore della Sanità e Arcigay – 2005)

E allora basta, basta. Bisogna avere il coraggio di indicare i responsabili di queste morti. Ed io punto il dito, con la gelida fermezza di chi vede ogni anno persone intorno a sè consumate dal dolore della non accettazione, ragazzi e ragazze che cercano la nostra associazione per potersi dichiarare, per chiedere consiglio su come affrontare i genitori, gli amici, i compagni di scuola. Ragazzi e ragazze vittime di violenza e di bullismo per il loro orientamento sessuale o la loro diversa identità di genere. Famiglie che telefonano perchè hanno scoperto la “vergogna di avere un figlio gay” e hanno bisogno di qualcuno che dica loro che non vi è nulla di vergognoso in tutto ciò, perchè nessuno ha mai loro insegnato che possono avere “un figlio o una figlia, che può essere etero o omosessuale”.

Punto il dito contro Binetti, Giovanardi, Bindi, Buttiglione, Roccella, e chi continua a sostenere che la legge contro l’omofobia è una legge inutile, o contro la libertà di espressione, e che vogliono continuare a mantenere la loro libertà di insulto. Punto il dito contro Ostellino, contro quegli scribacchini vanesi e asserviti ai poteri forti, alle lobby di interessi ben poco morali che rispondono dalle direttive di questo o quell’ecclesiastico di riferimento in cambio di favori, carriere, voti.

Punto il dito contro chi considera i gay malati, nonostante tutto il mondo scientifico ed accademico abbia certificato già dal 1990 che l’omosessualità è una parte naturale dell’essere umano (Organizzazione Mondiale della Sanità), chi li vuole curare o convertire, chi li considera “poverini”, quasi fossero degli esseri inferiori necessari di impegno e affetto, da trattare come bambini ignoranti da chi conosce – meglio di loro, solitamente chi afferma di avere “molti amici gay” – ciò di cui hanno bisogno.

Punto il dito contro Avvenire, e quelli che portano avanti – rivendicando valori cattolici – campagne populiste di falsità e menzogne, non rispettando nemmeno il monito del loro credo che incide nelle tavole di pietra “non dire falsa testimonianza”. Menzogne così evidenti che spiccano dalle parole stesse di chi le pronuncia, quando sotto la bandiera della libertà di espressione chiedono di non essere “colpiti” da una legge che punisce solo le discriminazioni messe in atto e in progetto, rivelando così che la loro volontà è quella di poter continuare a discriminare.

Punto il dito contro di voi, perchè ho memoria di chi da sempre persegue un ordine morale e sociale, di chi ci vorrebbe tutti e tutte uguali, incasellati, ridotti a stereotipi dettati da un dettame religioso o politico. Ricordo che quando queste forze hanno preso il sopravvento tutte e tutti ne abbiamo pagato le conseguenze, non solo chi è “diverso”, come in Germania con l’avvento del nazismo, in Italia con il fascismo, in Russia con lo stalinismo ed ogni altro regime dittatoriale.

La vostra volontà discriminatoria, le vostre violenze verbali, le vostre menzone fecondano e giustificano quell’omofobia e transfobia che sono parte purtroppo della cultura del nostro paese. Un paese che ha bisogno di guarire dal razzismo, dall’omofobia, dal femminicidio.

Io vi accuso. Vi accuso di essere i mandanti ideologici delle le violenze, gli insulti, le minacce, le aggressioni, gli omicidi e i suicidi delle persone LGBT di questo paese. Le vostre mani sono lorde del nostro sangue.

————————————————————-

Lettera aperta ai miei studenti e alle mie studentesse

Gianluca Spitalieri
Facebook, 14 agosto 2013

Qualche giorno fa un ragazzo di quattordici anni si è suicidato, lanciandosi dalla terrazza di casa sua. Dopo aver lasciato un messaggio ai genitori, il drammatico epilogo di una storia, simile a tante altre.

Vi starete tutti chiedendo cosa abbia potuto spingere quel ragazzo a compiere quel gesto così forte, che spezza il fiato e ci lascia tutti sgomenti. A quattordici anni può capitare di pensare alla morte, in realtà capita anche a trenta, a cinquanta, a ottanta. Vi è uno stretto e misterioso rapporto tra la vita e la morte, e a volte queste due parole si confondono, travalicano i loro confini, fino a coincidere nell’intimo di ciascuno di noi. E può accadere che quel margine di distanza si assottigli fino a cadere giù verso terra, e non solo metaforicamente.

In classe abbiamo discusso molte volte delle vostre e delle mie paure, di ciò che ci far stare bene e di ciò che ci rattrista e che ci fa male, ma abbiamo parlato anche dell’amore, quello che provava, ad esempio, Saffo per sua figlia Cleide e allo stesso tempo del suo amore appassionato, descritto nell’ Inno ad Afrodite, in cui racconta il suo sentimento verso la donna amata. Alcuni di voi si sono raccontati, aprendosi al confronto, altri sono rimasti in silenzio, in un silenzio profondo e tenero. Quest’anno abbiamo un po’ fatto di testa nostra durante qualche lezione. Siete stati voi, rispettosi dei vostri bisogni e della vostra autonomia critica, a indicare qualche argomento che vi stava più a cuore. Mi viene in mente, uno fra tanti, quello sull’omofobia. Non ve l’ho mai detto, ma il mio orgoglio, durante il tragitto verso casa, raggiungeva il cielo per come avevate affrontato il dibattito, per la maturità e la libertà con cui vi eravate confrontati.

Ricordo anche gli occhi gonfi dalle lacrime, una mattina, quando abbiamo saputo del suicidio di quel ragazzo, quello dai pantaloni rosa, come veniva chiamato dai giornalisti. E ricordo lo sgomento di tanti di voi e il vuoto d’incomprensione, maturato dalle vostre domande.

Qualche giorno fa un altro ragazzo si è tolto la vita perché non ha retto il peso dell’emarginazione, era deriso perché omosessuale.

Quando avevo la vostra età, anche io ho pensato più volte al suicidio. Avevo paura del giudizio altrui, mi sentivo sporco, non volevo essere gay. Detestavo il mio corpo, le mie pulsioni più profonde, non sopportavo l’idea di provare istintivamente e naturalmente attrazione verso i ragazzi. Era una lotta continua, una mortificazione costante, avrei preferito morire piuttosto che vivere con quel peso addosso. A scuola mi è capitato molte volte di essere preso in giro dai miei compagni. Mi ricordo che un giorno, mentre ero affacciato alla finestra della mia stanza, un gruppo di ragazzi mi urlò contro “frocio” ed io scappai dentro con un senso di vergogna che, ancora oggi a trentatré anni, rivivo come se fosse successo ieri. Un’altra volta, in classe, il mio professore di religione per attirare la mia attenzione, forse perché ero distratto, mi disse: “senti tu, signorina!”, avevo i capelli lunghi. E potrei continuare, la lista è lunga.

Vi raccontavo di me, ragazzi, perché conosco il dolore che si prova, riconosco le paure e quello che passa per la testa di tanti ragazzi edi tante ragazze.

In classe abbiamo parlato molte volte del diritto a vivere una vita piena, del diritto alla giustizia sociale, del diritto all’eguaglianza, del valore delle differenze, del rispetto delle minoranze, del vostro impegno di ragazzi e di ragazze nella società, abbiamo provato a immaginare assieme un mondo diverso da quello in cui viviamo. E nel mondo che abbiamo immaginato assieme vi era anche il diritto ad essere tutelati dalla legge in caso di discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, il diritto ad una vita familiare per gli omosessuali, riconosciuta dallo Stato, il diritto alla paternità e alla maternità per gli omosessuali, il diritto ad amarsi liberamente senza rischiare di essere picchiati per strada e il diritto a non essere discriminati a lavoro.

Ma in Italia si discute ancora sull’opportunità di una legge contro l’omofobia, in Italia si invoca il diritto alla libertà d’opinione sugli omosessuali, invocando leggi naturali, morali, credo religiosi, in Italia l’arretratezza dei dibattiti viene spacciata per cultura democratica, l’assenza di una visione complessiva e profonda della realtà corrode ogni spazio di autonomia e lo relega all’ortodossia del pensiero unico. Nell’Italia dei compromessi, delle larghe intese, dell’impunità, delle diseguaglianze sociali, basterebbe dire che la scuola, oggi, sia rimasta l’unico baluardo solido, l’unico spazio capace di produrre sapere critico e di promuovere culture plurali e condivise, per alleggerire il peso delle frustrazioni sociali, generate da decenni di politiche sbagliate e invece la scuola, oggi, respira un’aria torbida, viene indebolita a colpi di riforme ad hoc, senza prospettive lungimiranti.

In quel mondo che abbiamo immaginato assieme ci sarebbe stato un posto anche per quel ragazzo che si è suicidato e in quel mondo si sarebbe innamorato anche lui, avrebbe dato il suo primo bacio, avrebbe amato, soffrendo, gioendo e sono certo che ci avrebbe dato una mano a rendere più inclusivo questo nostro Paese.

Con affetto,il vostro Professore

————————————————————-

UNA VITA DEGNA DI LUTTO

Francesco Bilotta
www.italialaica.it, 14.08.2013

Nella notte tra mercoledì 7 e giovedì 8 agosto, mentre io stavo ridendo davanti a un bicchiere pieno di ghiaccio, lui cosa stava facendo?

I “se” continuano a comparire nella mia mente come fantasmi: se avessi potuto parlargli, se avessi potuto ascoltarlo, raccontargli come vivevo quando anche io dicevo «tutti mi prendono in giro, nessuno mi capisce. Non ce la faccio più». È assurdo, me ne rendo conto. Ma c’è qualcosa che non sia assurdo nel fatto che un ragazzo di quattordici anni si lasci cadere nel vuoto, invece di salire sul terrazzo di casa a guardare semplicemente le stelle cadenti? (Sulla vicenda leggi Elena Tebano, Marco, suicida a 14 anni perché gay: «Un gesto estremo per la paura di sentirsi minoranza»).

È già successo altrove, purtroppo, che leggi contro l’omofobia siano state approvate dopo fatti di sangue che avevano destato scalpore. In circostanze simili mantenere un atteggiamento razionale non è facile. Eppure è necessario, perché – come cercherò di dimostrare – intorno al progetto di legge contro l’omofobia, che nella sua formulazione attuale desta forti dubbi di costituzionalità, si sta materializzando limpidamente tutto il potere che la gerarchia cattolica è in grado di esercitare sul Parlamento italiano.

Fin da quando la Commissione giustizia ha cominciato i suoi lavori, ho spesso sentito dire: “la cultura non si cambia con una legge, ci vuole ben altro”. E più di recente: “anche se ci fosse una legge contro l’omofobia, questo non avrebbe impedito quel salto nel vuoto”. Se la cultura – scegliendo tra le sue tante definizioni – può essere considerata come l’insieme delle rappresentazioni che sono in grado di descrivere la realtà che ci circonda, allora il diritto è una sua componente fondamentale. Perciò cambiare l’uno significa (parzialmente, ma inesorabilmente) cambiare l’altra.

Questo alla gerarchia cattolica è chiarissimo. Da qui deriva il loro infaticabile attivismo contro tutti gli interventi legislativi che possano in qualche modo trasformare antropologicamente e culturalmente la nostra società. L’espressione “temi sensibili” non fa che indicare quegli ambiti su cui incide maggiormente la loro visione del mondo. Il loro timore è che indurre una modificazione dei comportamenti sociali in tali ambiti possa diffondere pratiche non conformi alle loro tradizioni religiose. Pur di raggiungere tale obiettivo e mantenere fermo il loro predominio valoriale, tendono ad azzerare ogni forma di dialogo con il resto della società. Cosa vuol dire “non negoziabile”? Vuol dire che non se ne deve nemmeno parlare. E ciò perché già il parlarne dà spazio a un’idea di società che può prescindere da quei valori.

La missione dei cattolici impegnati in politica si sintetizza tutta in questo: impedire che la società si organizzi intorno ad un ordine di valori diverso da quello indicato dalla gerarchia cattolica. La diaspora mai ricomposta dei cattolici dopo la fine della Democrazia cristiana, in tale prospettiva, è stata un bene, perché consente alla gerarchia cattolica di ingerirsi sempre nelle decisioni della maggioranza di turno, sapendo di poter essere sostenuta anche dalla parte cattolica che incidentalmente costituisce la minoranza.

La prova (se qualcuno ancora ne dubita) della efficacia della lobby cattolica è la lettera Omofobia, il lavoro fatto e ciò che resta da fare pubblicata il 9 agosto su Avvenire. Ventisei parlamentari cattolici del PD e di Scelta civica scrivono a quello stesso giornale su cui – come avevo segnalato – da mesi è in corso un sistematico martellamento sui temi legati alla proposta di legge contro l’omofobia. Una lettera che serve a rassicurare Oltretevere, comunicandogli il largo successo dell’operazione. Non è una mia illazione, lo scrivono loro: «Grazie a un lavoro costante e fattivo, necessariamente lontano dai riflettori per non pregiudicarne l’efficacia, cui si è dedicato un ampio fronte cattolico in diversi schieramenti presenti in Parlamento, la proposta di legge che è giunta in aula è molto diversa da quella che era stata inizialmente presentata» e sottolineano come tutto ciò sia stato possibile grazie alla «notevole disponibilità» dei relatori.

Due le ragioni del successo: a) sono cadute molte definizioni che rendevano inaccettabile il testo; b) si è nettamente distinto “tra il reato di omofobia e la libera espressione di opinioni, evitando così proprio quei rischi inerenti i reati di opinione giustamente paventati da molti”.

Solo brevemente vorrei ricordare che le definizioni che rendevano il testo “inaccettabile” si riferivano ai seguenti concetti: identità sessuale, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale. Cosa c’è di “inaccettabile” in queste definizioni? Probabilmente il fatto che tali espressioni nominano una realtà, che considera l’orientamento omosessuale una manifestazione della sessualità umana avente la stessa dignità dell’orientamento eterosessuale, che scardina il binarismo sessuale su cui si fonda tutta l’antropologia giudaico-cristiana, che nega la riduzione biologista del genere, in definitiva sovverte tutta la visione della sessualità cattolica, quella che il Pontefice di recente ha definito la “vera sessualità”.

In secondo luogo, vorrei sottolineare che nella sua formulazione originaria, il progetto di legge non avrebbe mai potuto mettere a rischio il diritto fondamentale alla libertà di espressione del pensiero. E ciò anche in ragione dell’interpretazione che nella giurisprudenza ha avuto il testo di Legge Mancino-Reale attualmente in vigore. I nostri magistrati hanno punito l’espressione di “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico” solo quando a tale espressione verbale sia seguita un’azione concretamente lesiva dei diritti di altre persone.

Insomma, un’operazione a tenaglia che consente di non scalfire l’ideologia sessuale della gerarchia cattolica, mentre le assicura di continuare a operare per rendere socialmente prive di supporto le vite delle persone omosessuali e trans fino a sottrarre loro la possibilità di essere degne di lutto, per usare le parole di Judith Butler (in A chi spetta una buona vita?, a cura di Nicola Perugini, Nottetempo, Roma, 2013). Ciò è inaccettabile anzitutto sul piano culturale.

I ventisei parlamentari che hanno scritto ad Avvenire hanno fatto quanto ci si aspettava da loro e giustamente rivendicano il risultato da poter spendere in campagna elettorale. Sono gli altri a non aver fatto quanto ci si aspettava da loro. Fantasticando sulla possibilità di trovare un accordo con la parte fondamentalista dei cattolici per riconoscere protezione e diritti alle persone omosessuali e trans, castrati dall’illusione che il Parlamento possa approvare all’unanimità (o quasi) una legge che include l’identità sessuale nella Legge Mancino-Reale, convinti di saper gestire un potere che di loro, meschini, si prende gioco, hanno girato le spalle a tutti quei quattordicenni che nutrono la certezza che la loro scomparsa non sarà pianta.

In questo frangente, noi tutti abbiamo il dovere di resistere, di rifiutare radicalmente ogni forma di ipocrisia e ogni tentativo di celare dietro le parole un cambiamento che non cambia nulla. È impossibile salutare come un progresso l’approvazione di un testo che sancisce e legittima uno stigma sessuale diffuso negando di fatto alle persone omosessuali una piena soggettività giuridica e sociale. Solo così la Morte non avrà il potere di ridurre al silenzio perpetuo un ragazzo di quattordici anni. Attraverso le nostre voci potrà continuare a ripetere con il poeta: «perché chiedo silenzio, non crediate che io muoia: mi accade tutto il contrario: accade che sto per vivere» (Pablo Neruda – Chiedo silenzio).