Riforma batte rivoluzione: la Cina, l’Egitto e la lezione dei gelsomini

Francesco Sisci
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Il fallimento delle rivolte in Egitto, Siria e Libia insegna che i problemi endemici non si risolvono solo con lo stravolgimento del politico e sociale. La Cina lo sa bene. La confusione degli Usa è un pericolo per tutti.

A due anni dall’inizio delle rivoluzioni dei gelsomini, in Medio Oriente siamo tornati al punto di partenza. La maggior parte dei paesi – a partire dall’Egitto – sta instaurando nuovamente qualche forma di dittatura o di regime autoritario, mentre altri che erano (o sono ancora) formalmente esempi di Stati canaglia sono completamente collassati o in preda alla guerra civile a bassa o alta intensità, come la Libia o la Siria. Altri che si presumeva portassero stabilità nella regione – come la Turchia – sono stati contaminati dalla rivoluzione.

Sembrava che le popolazioni di questi paesi desiderassero uno stravolgimento politico per porre rimedio alla mancanza di una direzione economica. Il problema in Egitto e Siria era che i rispettivi apparati istituzionali ed economici stavano collassando. Le rivolte dei gelsomini non hanno fermato questo processo o migliorato la situazione in alcun modo; abbattere i vecchi sistemi politici ha peggiorato le cose sia sul piano sociale sia su quello economico.

La Cina, che due anni fa si pensava potesse subire il contagio dei gelsomini, può dire che le è andata molto meglio senza una rivoluzione, sia essa dei gelsomini, arancione, rossa o blu (ho trattato questo argomento e il tragico epilogo della rivolta dei gelsomini due anni fa in “La Cina e le lezioni di Piazza Tahrir”). Le rivoluzioni non sono la risposta a problemi sistemici; anzi si potrebbe dire che il popolo egiziano, libico e siriano forse sarebbero stati molto meglio se i regimi locali avessero stroncato le rivoluzioni.

Se l’ex leader supremo dell’Egitto Hosni Mubarak avesse fermato le proteste e attuato le necessarie riforme economiche e politiche, il paese adesso probabilmente starebbe meglio. Certamente il problema, che è anche l’aspetto tragico del Medio Oriente, è che Mubarak – come Bashar al-Asad in Siria – voleva solo fermare le proteste senza porre in essere dei cambiamenti. Questa è una lezione per la Cina: le rivoluzioni da sole non risolvono i problemi, le riforme si. Ciò per i cinesi è ancor più vero quando guardano al proprio passato. Se i nazionalisti di Chiang Kai Shek avessero represso i comunisti e portato avanti delle riforme nella Cina continentale – come hanno fatto a Taiwan dove arrivarono nel 1949 – il paese avrebbe evitato trent’anni di depressione sotto la guida di Mao.

Eppure il fallimento delle rivolte dei gelsomini fa venire a Pechino dei forti dubbi riguardo l’amore ritrovato degli Usa per le rivoluzioni. È come se la caduta del comunismo avesse tolto un peso dalle spalle dell’America rivoluzionaria. All’epoca della Guerra Fredda rivoluzione era sinonimo di Unione Sovietica e gli Stati Uniti dovevano essere a favore della repressione o controrivoluzionari. Dalla caduta dell’Urss in poi nessun altro paese ha voluto portare avanti alcun tipo di rivoluzione.

La Cina, malgrado la spilletta comunista sul bavero, è aspramente contro ogni forma di agitazione che potrebbe cambiare lo status quo. D’altra parte gli asiatici e i cinesi in particolare hanno vissuto all’ombra delle rivoluzioni comuniste per quarant’anni e temono che una nuova rivoluzione possa compromettere il loro stile di vita e i progressi economici fatti fino ad ora.

Pertanto, qual è lo scopo del sostegno statunitense alle rivoluzioni nel Medio Oriente? Una risposta potrebbe essere che gli Usa pensino sinceramente che con esse la situazione possa migliorare. Ci sono i motivi per crederlo: i governi precedenti non avevano intenzione di attuare nessuna riforma in questi paesi, persino quando le riforme erano amaramente necessarie. Quindi non restava che fare la rivoluzione.

Eppure il fallimento di tali tentativi dovrebbe far riflettere profondamente gli Usa su quale strategia possa essere portata avanti in un certo paese per promuovere le riforme senza violenza o rivolte. Inoltre, le rivoluzioni dei gelsomini lasceranno un’eredità duratura al Medio Oriente. I paesi in questione vivranno nel caos per molti anni. La Libia e la Siria potrebbero impantanarsi in qualche forma di guerra civile per un decennio. L’Egitto potrebbe trascinarsi avanti con i suoi gravi problemi economici e le sue paralizzate strutture sociali e politiche per un periodo anche più lungo. In questa situazione, gli Stati Uniti, dipendenti dalle importazioni di petrolio e gas provenienti dal Medio Oriente, in passato sarebbero stati profondamente preoccupati.

Ora invece la possibilità che gli Usa diventino indipendenti energeticamente entro i prossimi 4-5 anni grazie allo shale gas fa sì che il caos nella regione diventi un’eredità tossica lasciata ai cinesi, che hanno sempre più bisogno degli idrocarburi provenienti da questa parte del mondo. Inoltre con l’introduzione del petrolio e del gas da scisti bituminosi statunitensi il prezzo di estrazione di quelli convenzionali in Russia potrebbe diventare pericolosamente alto rispetto alle esportazioni dal Medio Oriente; l’ex Urss si troverebbe in un vicolo cieco. Se la situazione nel quadrante mediorientale si pacificasse, il petrolio russo potrebbe essere troppo costoso per essere estratto ed esportato. Pertanto Mosca vuole mantenere tesa la situazione nella regione, affinché i costi di estrazione siano alti e gli idrocarburi russi competitivi.

Tutto ciò potrebbe convenire agli Usa, dato che Russia e Cina si troverebbero l’una contro l’altra; tuttavia, questa situazione potrebbe curiosamente portare anche a una convergenza tra gli interessi di Pechino e quelli dell’Europa, che dipende dalle importazioni di petrolio mediorientale e intende tenerne basso il prezzo. L’avvicinamento tra Cina e Ue per stabilizzare il Medio Oriente servirebbe anche per contenere il loro comune vicino, la Russia.

In questa situazione, che potrebbe palesarsi nel periodo in cui gli Usa sceglieranno il loro prossimo presidente, cosa farà Washington? Come abbiamo visto la strategia del Pivot to Asia sta fallendo, la politica più che decennale di Bush e Obama in Medio Oriente sta cadendo a pezzi e la scoperta dello shale oil e dello shale gas potrebbe spingere gli Usa a una politica più isolazionista. Tuttavia non è possibile pensare che dopo ottant’anni di intervento militante nel mondo, Washington decida semplicemente di ritirarsi.

Ora più che mai gli Stati Uniti dovrebbero pensare a cosa vogliono oltre a essere il confuso spettatore della crescita dell’Estremo Oriente. Fino a oggi, il prudente approccio della Cina nelle proprie linee di condotta e in quelle verso il Medio Oriente – per mezzo secolo campo di battaglia di nuove idee e di politiche estere – si è dimostrato più sensato. Tuttavia è una magra consolazione per il mondo, dato che gli Usa sono e saranno la prima potenza mondiale negli anni a venire.

Un leader globale confuso è estremamente pericoloso per tutti. La Cina non è felice se il leader e il modello di sviluppo a cui fa riferimento fallisce. Senza gli Stati Uniti alla guida, Pechino è più sola; non avere un modello di riferimento è molto rischioso per un paese che si trova ancora in una fase di transizione.