Anche io potrei uccidere una donna

Christian Raimo
www.europaquotidiano.it

Sono un uomo, un maschio voglio dire, ma seguo le questioni di genere. Questo per dire che qualche anno fa ero un lettore costante e allibito di Beatrice Busi quanto teneva una rubrichetta settimanale di spalla su Liberazione: 3000 battute, forse meno, per ri-raccontare gli omicidi di donne avvenuti nei sette giorni precedenti che negli altri giornali erano stati rubricati a cronaca nera, delitti passionali, regolamenti di conti, assassini etnici. Messi uno in fila all’altro, facevano impressione, quelli che allora non si chiamavano ancora placidamente femminicidi. Già: se del resto anche solo l’anno scorso parlare di femminicidio era un discorso per pochi, oggi – per fortuna – il termine è diventato di uso consueto (anche se mentre scrivo mi rendo conto che Word non lo riconosce), e la questione ha finito per l’indossare molte pelli: culturale, sociale, politica. Prima ancora della discussione del decreto legge ad hoc, era un item che aveva conquistato lo spazio mediatico come, per dire, l’argomento più discusso della saggistica di quest’anno dopo Papa Francesco: da Loredana Lipperini & Michela Murgia a Cinzia Tani, da Riccardo Iacona a Serena Dandini fino al blog della 27ora del Corriere, finalmente si è affermato nel senso comune che la violenza domestica è una delle prime cause di omicidio in Italia, e che – ovviamente – oltre le donne ammazzate, ce ne sono migliaia di altre che vengono ogni giorni picchiate e violentate, fisicamente e psicologicamente.

E c’è da essere soddisfatti se questa vittoria culturale non è un fenomeno di moda ma è stata resa possibile specialmente dalle tanti militanti di associazioni di donne che in questi anni hanno lavorato sulla violenza di genere nella più totale marginalità, proprio fino a riuscire a rendere legittimo l’utilizzo della parola femminicidio – il suo valore concettuale, storico più che giuridico tracciabile attraverso il blog di Barbara Spinelli, per esempio; una rivendicazione di questa legittimità sul blog di Giovanna Cosenza, per esempio, dove per me si bypassano anche le sensate obiezioni sulla debolezza statistica, avanzate tra gli altri da Fabrizio Tonello e da Davide De Luca (qui e qui).

Quest’onda rinfrancante di dibattito la si è voluta poi appunto colare nella forma di una legge: il decreto anti-femminicidio. In mezzo all’abulia governativa, al metamorfismo deprimente dell’attuale alleanza Pd-Pdl, questa legge bipartisan ha avuto quantomeno il pregio di tracciare una linea per un intervento politico. Anche se. Anche se, come era successo per le leggi sullo stalking, si è finito per ridurre il problema a emergenza sociale, facendo leva sui dispositivi più pavloviani: normazione e criminalizzazione. Le critiche, proprio da chi aveva aspettato questa legge prevedibilmente non c’hanno messo molto ad arrivare.

L’idea che molte femministe si sono fatte è che il decreto non servirà a molto se non si finanziano i centri anti-violenza sul territorio, o più in generale se non capisce come poter realizzare un programma nazionale di educazione sulle questioni di genere. Questo – tra le righe – vuol dire qualcosa di al tempo stesso molto semplice e molto complesso. Molto semplice: serve qualche soldo di più. (Questa conclusione è lapalissiana tanto da essere recepita anche dal New York Times. Molto complesso: questo governo dovrebbe far propria una prospettiva femminista che prevede ovviamente una trasformazione di sé che non si può improvvisare. Arrivato a questo punto dell’articolo, esprimo quella che è la mia opinione: fare propria questa prospettiva, lavorare sul lungo periodo, è comunque l’unica strada.

Ora, come dicevo all’inizio, sono un maschio, un maschio assolutamente convinto della bontà della pratica femminista di partire dal sé. E per questo arrivato a questo punto del dibattito, mi sono sentito esplicitamente chiamato in causa qualche giorno fa da un lettissimo articolo di Beppe Severgnini, in cui in ottima fede, ma un po’ come un tizio cascato da un alto pero, si scriveva:

Noi maschi dovremmo occuparci di più del femminicidio: parlarne, scriverne, domandare, provare a capire. Anche a costo di dire e scrivere leggerezze. È invece un dramma confinato in un universo femminile: ne parlano le donne, ne scrivono le donne, le fotografie sono quasi sempre delle vittime e non dei carnefici. È come se noi uomini volessimo prendere le distanze da qualcosa che non capiamo e di cui abbiamo paura.

Capita anche a me spesso di scrivere questa specie di articoli che dicono: dovremmo fare questo e quello, nella cultura italiana c’è un gran deficit di questo, perché in Italia nessuno si occupa di. È un primo passo, ma spesso è inutile. Perché resta l’unico: ho individuato una mancanza, la stigmatizzo, passo alla prossima.

Ma non è soltanto l’autoindulgenza sul proprio deficit d’interrogazione (perché soltanto ora Severgnini richiede quest’interrogarsi?), è soprattutto invece troppo morbido, diciamo pastello, il ritratto che Severgnini fa degli uomini violenti: creature Jekyll-Hyde di cui non possiamo che continuare a stupirci della morale schizoide. L’errore implicito di Severgnini è però lo stesso che fanno i fanno maschi che si occupano di questioni di genere: non partire da sé.

Anche nel pezzo di Severgnini, che cerca di aver un occhio laico e attento, la violenza è sempre descritta come altrui, misteriosa, nascosta, lontana.

La sociologia dell’orrore è rovesciata: i mostri non sono semplificazioni lombrosiane, personaggi abbruttiti e abitualmente violenti. Molti studiano, lavorano, guadagnano, si vestono bene. Tra di noi ci sono uomini tragici e pericolosi mascherati da persone prevedibili; e li riconosciamo quando è tardi.

È chiaro che questo “tra di noi” dovrebbe essere preso un po’ più sul serio. Che questi altri che si aggirano mascherati dalla loro buona facies affidabile e borghese somigliano a chi vediamo nello specchio. Occorrerebbe sfumare un po’ i confini tra una comunità di persone razionali e perbene (uomini avvertiti, compagni che affiancano le proprie donne nelle loro battaglie, che decidono di accompagnare le loro partner alle manifestazioni sulla violenza domestica) e un’altra massa di uomini potenzialmente violenti, che covano sotto le camicie inamidate e uno sguardo innocuo un impulso alla brutalità pronto a emergere al primo raptus. Io preferirei che se un discorso maschile deve partire sul femminicidio si cominciasse a riconoscere l’esistenza di una “zona grigia” in cui la razionalità e l’irrazionalità sono confuse. Sul New Yorker di qualche settimana fa – e in un articolo del Post che ne riprendeva gli highlights – si raccontava la vicenda legata alla legislazione sulla violenza domestica negli Stati Uniti a partire dal caso seminale, quello di Dorothy Giunta-Cotter, una donna finita ammazzata dal marito nonostante l’avesse denunciato più volte e fosse seguita da un centro anti-violenza. Da quella tragedia esemplare il centro Jeanne Geiger elaborò una sorta di questionario in grado di prevedere a partire da una serie di indizi qual è la percentuale di rapporti finiranno con un omicidio. Si inaugurò insomma un modello predittivo: molto discusso, come è ovvio per tutti i modelli predittivi. Ma non voglio entrare nel merito della problematica giuridica, quanto mettermi di fronte alle domande che il questionario propone.

1. Le violenze fisiche sono aumentate – nel numero o nella gravità – nell’ultimo anno?
2. Lui possiede un’arma da fuoco?
3. Lo hai mai lasciato nell’ultimo anno vissuto insieme?
4. È disoccupato?
5. Ha mai usato un’arma contro di te o ti ha mai minacciata con un’arma letale? In questo caso, era un’arma da fuoco?
6. Ha minacciato di ucciderti?
7. Ha evitato in passato un arresto per violenza domestica?
8. Hai un figlio non suo?
9. Ti hai mai forzata a fare sesso con lui?
10. Ha mai tentato di strangolarti?
11. Fa uso di sostanze stupefacenti illegali (anfetamine, metanfetamine, speed, fenciclidina, cocaina, crack)?
12. È un alcolista o ha problemi con l’alcool?
13. Controlla la maggior parte delle tue attività quotidiane? Per esempio, ti dice chi può esserti amico e chi no, quando puoi vedere la tua famiglia, quanto denaro puoi spendere o quando puoi prendere la macchina?
14. È costantemente e violentemente geloso di te? Per esempio, ti dice cose come «se non posso averti io, non può averti nessuno»?
15. Sei mai stata picchiata da lui quando eri incinta?
16. Ha mai tentato di suicidarsi o minacciato di farlo?
17. Ha mai minacciato di fare del male ai tuoi figli?
18. Lo ritieni capace di ucciderti?
19. Ti segue o ti spia, ti lascia messaggi di minacce, distrugge le tue cose o ti chiama quando tu non vuoi che ti chiami?
20. Hai mai tentato di suicidarti o minacciato di farlo?

Ecco, nonostante come molte delle persone che stanno leggendo quest’articolo, non sono una persona violenta, mi rendo conto ogni volta che leggo un caso di violenza di genere che molti degli comportamenti aggressivi che esistono in una relazione, devo ammettere che li ho praticati o subiti, o avrei potuto praticarli o subirli, e moltissimi sicuramente li ho pensati, e moltissimi ancora – riti ossessivi di varia fatta – li ho amati quando li ho visti rappresentati nella letteratura o al cinema (cos’era se non stalking l’amore di un’Adele H o del pretendente di Amelie Poulain?). Ecco: ricatti, atti distruttivi e autodistruttivi, violenze sulla persona e sulle sue cose, forme più o meno velate di stalking eccetera sono tutte azioni che non sono così distanti da me e dalla maggior parte delle persone educate, razionali, colte, nonviolente che conosco. Cose come controllare la mail del proprio partner, telefonargli nel cuore della notte, alzare le mani: conoscete molte persone che non hanno mai fatto qualcosa del genere? Per fortuna, per quanto riguarda i maschi, questi uomini razionali non hanno un’arma (ci sarebbe da sottolineare quanti dei casi di femminicidio coinvolgono militari, guardie giurate, etc…); ma, ma per brevi periodi, in certe circostanze particolarmente dolorose, possono trasformarsi in persone terribili: possono impazzire. Se non si ammette questa debolezza generale, ma specialmente maschile, nelle relazioni, non si va da nessuna parte nel dibattito. Se non si ammette che c’è una parte di mostro, di irrazionale incapacità di gestire l’abbandono o altre fragilità dei sentimenti, la questione verrà confinata in qualche suo inutile surrogato: sia quello normativo, sia quello che vede schierati uomini e donne perbene da un alto e maschilisti carogne e donne complici dall’altro, sia quello spettacolare con tanti reading affollati di attrici e scrittrici che leggono una qualche Spoon River terribile e tragicamente monotona di donne stalkizzate e poi massacrate dai loro ex-partner che tanto dicevano di amarle.

Dunque, se qualcosa si è capito nelle questioni sociali di questo rilievo è che l’approccio testimoniale o quello normativo sono delle armi spuntate che riconoscono il problema, ma esauriscono la sua soluzione al massimo in una sua esposizione mediatica, con grandi riti di shame on you. Che se ne parli non vuol dire che se ne parli con cognizione di causa, ma soprattutto che qualcosa cambi.

Quindi? Quindi proviamo, come si fa nella pratica femminista, a partire da sé. Dicevo che sono un maschio, che sono un maschio educato e non violento, che ha avuto la fortuna di aver avuto una famiglia che gli ha trasmesso il valore della parità dei sessi e che ha frequentato un’ottimo liceo classico pubblico e un’ottima università pubblica. Ora, pur in tutta questa fortuna, mi è chiaro come un cielo estivo che ho avuto un’educazione decisamente filomaschilista. Il primo libro scritto da una donna che ho letto sarà stato il centesimo della mia giovane vita: a quindici anni, Cime tempestose di Emily Bronte o Flush di Virginia Woolf, proposte da una prof di inglese con la fama di scocciante femminista. Ho scelto il mio primo romanzo scritto da una donna a vent’anni, La campana di vetro di Sylvia Plath. Per tutto il liceo e l’università (un’ottima facoltà di filosofia) praticamente nessuno mi ha mai parlato di pensiero femminista, sono incappato in un paio di testi di Hannah Arendt e Simone Weil in un esame di Filosofia teoretica che in maniera molto vaga accennavano alle questioni di genere. Per dire: Simone De Beauvoir, Toni Morrison, Judith Butler, Julia Kristeva, Luce Iragaray… è tutta gente che ho incontrato perché forse a un certo punto le ho cercate o perché ho avuto la fortuna di conoscere delle donne capaci di farmici arrivare. A pochissimi dei miei amici – maschi, intellettuali, eruditi… – questo è accaduto. Credo che quasi nessuno dei miei amici scrittori abbia letto in vita sua una Carla Lonzi, per citare forse il nome italiano più emblematico; io stesso l’ho fatto per la prima volta un paio di anni fa. Credo che la maggior parte dei miei amici – maschi, intellettuali, eruditi… – abbia avuto e ancora abbia una domestica, rigorosamente donna. Certo tutto questo non è solo colpa dei maschi, certo è vero che la cultura femminista in Italia, ostracizzata, non metabolizzata, vittima di un separatismo interpretato malissimo, si è progressivamente arroccata, ritagliando per se stessa il ruolo di un fortino, e questa cosa è tanto più vera nel paradiso dei fortini che è l’ambito universitario, con cattedre che diventavano luoghi di culto di una pratica femminista impossibile da agire altrove, ma – viene da dire – sono responsabilità decisamente minori o consequenziali.

Per questo, insomma, quando uno dice che cosa si può fare contro il femminicidio oggi in Italia, la mia risposta è lateralissima: leggere più libri scritti da donne alle elementari e alle superiori, studiare di più il pensiero femminista alle superiori e all’università. Far sì che per esempio La campana di vetro non sia una chicca introvabile ma un best-seller estivo per studenti come Il giovane Holden; inserire nei programmi di filosofia, letteratura, storia delle superiori una parte significativa dedicata al femminismo storico; desacralizzare autrici come Amelia Rosselli o Cristina Campo dalla loro pseudosantificazione nelle cattedre di studi femminili e pensarle come centrali in un canone della letteratura italiana. Insomma muoversi pensando una politica di lungo periodo, tutto qui. Ecco mi piacerebbe che queste cose che dico accadessero talmente in fretta che se qualcuno si andasse a rileggere tra un anno quest’articolo sarei contento che mi liquidasse dicendo che ho fatto il pieno delle banalità.