Caro ministro, io il Concorsone l’ho fatto. Era inutile

Christian Raimo
www.linkiesta.it

Gentile Ministro Carrozza,

nelle settimane passate mi è venuto in mente varie volte di scrivere questa lettera, e il motivo era simile al tono che avrei usato: una rabbia diritta ed emetica. Ma per una serie di ragioni, anche personali, ho pensato di provare a usare un tono pacato e dialettico e a mettere in discussione alcuni presupposti invece di trasformare subito il ragionamento in uno sfogo, seppure, per molti versi, sacrosanto.

Le voglio parlare del concorso. Il concorsone, quello che ha coinvolto centinaia di migliaia di docenti. Compreso me. Gliene parlo da una posizione disagevole. Siamo ai primi di settembre e, per quanto mi riguarda, non so come è andata: ossia non so se sono uno dei fortunati 11.000 e passa che avrebbero dovuto entrare di ruolo di quest’anno. O meglio, diciamola così, so per certo che non entrerò di ruolo quest’anno, ma potrei aver vinto il concorso. In quanto ho partecipato alle preselezioni dove ho totalizzato 44/50, ho passato lo scritto (con 38/40) e l’orale (con 40/40) e quindi forse potrebbe essere mio uno dei 26 posti della classe A037 – filosofia e storia – messi a bando dalla Regione Lazio, con cui ho concorso con all’incirca mille persone iniziali, anche forte del fatto che ho una laurea con 110 e lode e un’abilitazione ottenuta con la SSIS con votazione 97/100, ho qualche pubblicazione (che ancora non so se mi è stata valutata e come), e nonostante non abbia invece né dottorati né master né altre abilitazioni.

Ora, dunque, pur avendo fatto uno splendido concorso, e avendo accettato dunque tutte le regole del caso, io sono giunto a una conclusione praticamente identica al pregiudizio che avevo quando concorso è stato indetto dal suo predecessore, il ministro Profumo: questo concorso è inutile, è stato inutile, per certi versi è dannoso, per la sostanza e per il modo in cui si è svolto. Cosa me lo fa pensare?

Io non sono un insegnante migliore di molti che hanno concorso con me, e non lo dico per modestia – falsa o vera che sia -, lo dico invece perché da una parte, facendo l’insegnante anche se solo da cinque anni, ho una certa capacità di autovalutazione, e dall’altra perché penso che i metodi di selezione siano stati totalmente sballati. Io sono stato un bravo concorrente, ho capito quello che di scaltro potevo fare per andare bene al concorso e l’ho fatto, prendendo voti alti – ma questo quasi non ha nulla a che fare con la mia capacità didattica né con la mia preparazione.

Partiamo dalla prova preselettiva: moltissimi miei colleghi si sono preparati per mesi sui test di logica e logica matematica, anche su quei libri da 45 euro che le case editrici di test avevano tirato fuori per l’occasione; io no. Persone con una capacità didattica innegabile, una professionalità indiscutibile non sono passate, io sì.

Da bambino ero un nerd appassionato di Settimana Enigmistica che faceva i quiz del Mensa Test; molti miei colleghi no. Anche, parlo per quelli che conosco, persone che insegnano da vent’anni, che sono giustamente amatissime dai loro studenti, o che hanno un contratto all’Università per insegnare Storia della filosofia – insegnanti migliori di me, anche solo per l’esperienza accumulata. I quiz erano di una elementarità disarmante per certi versi, ma lo erano soprattutto per chi è abituato a ragionare in quel modo.

Ho proposto quei quiz ai miei studenti, la percentuale di quelli che l’hanno passato è stata superiore alla percentuale (35%) dei docenti che hanno superato le preselezioni: cosa dovrei concludere che i miei adolescenti di uno scientifico sono dei potenziali insegnanti migliori di coloro che magari hanno vent’anni di pratica o che magari sono proprio i loro insegnanti?

Veniamo allo scritto. Per la mia classe si trattava di un compito di filosofia e uno di storia con quattro risposte aperte a materia, per rispondere alle quali si avevano venti righe a domanda e cinque ore in tutto. Forse la parte meno insensata della selezione – anche se con alcuni elementi di grande ambiguità.

Non si capiva da nessuna parte come dovevamo effettivamente prepararci, ossia dovevamo farci un’ammazzata modello Trivial Pursuit su tutto lo scibile (comprese parti che mai abbiamo insegnato e non insegneremo mai, tipo storia romana e storia greca) oppure prepararci sulla didattica delle nostre materie? Dovevamo studiare solo le discipline oppure anche tutta la parte di amministrazione della scuola, storia della scuola, diritto complementare e che molti miei colleghi avevano schematizzato generosamente a partire dai comodi manuali comprati anche questi a 45 euro l’uno?

Io non mi sono preparato, ho svolto bene la parte di filosofia – perché mi sono capitati argomenti che sapevo e che tratto in classe e su cui ho presente riferimenti bibliografici -, mentre ho scritto banalità o errori su domande di storia su non ho mai fatto né farò mai lezione (la Grecia del V secolo a.C. e l’Islam dell’VIII secolo). Ma soprattutto credo “di aver imbastito bene”, come si dice tra noi giovani docenti di 40 anni. Ossia ho utilizzato al massimo la mia capacità di articolare discorsi anche su argomenti che padroneggio magari non tanto. A differenza di molti miei colleghi che avevano passato mesi a studiare filosofi minori, a ripetersi date di storia, a citare articoli a memoria sulla formazione degli organi collegiali, sono stato premiato. Non c’è stata nessuna domanda sulla giurisdizione scolastica: i mesi che i miei colleghi avevano impegnati a studiarsela sono stati inutili.

L’orale è stata una replica in peggio dello scritto: non era chiaro per nulla su che cosa potevamo essere interrogati, né come. Nelle nostre competenze, come si dice, avremmo dovuto essere dei super-esperti di valutazione, ma al tempo stesso avevamo nostro malgrado un’idea confusissima di come saremmo stati valutati. L’esame si svolgeva in questo modo: il giorno x si andava a estrarre una traccia tematica su cui si sarebbe dovuta approntare in 24 ore un’unità didattica da esporre il giorno successivo appunto davanti alla commissione. Per la nostra classe di concorso, si potevano estrarre cose tipo Il contratto sociale di Rousseau o Il sistema feudale o La teoria del tre stadi di Comte.

Ci si ritrovava dunque, padri e madri e divorziati e ingrigiti e stempiati (una media anagrafica di 40 anni) proiettati all’indietro di vent’anni come davanti a una sessione universitaria o a una maturità. Ci si chiedeva: come la valuteranno questa prova? Si può usare il computer? Si può usare la lavagna elettronica? Si deve usare il computer per mostrare le slide in powerpoint? Si deve usare la lavagna elettronica, e quale software? Si deve parlare dei ragazzi con disturbi dell’apprendimento? Ci valuteranno sui contenuti o per la didattica? Devo studiarmi un po’ di pedagogia? Devo leggermi e prepararmi su cinque classici della storia della filosofia a scelta come pare a un certo punto fosse prevista da un’indicazione del ministero: mi interrogheranno su questi? La parte di giurisdizione della scuola la chiedono ora, visto che allo scritto non l’hanno chiesta? E la prova in lingua in cosa consiste: devo prepararmi una parte dell’unità didattica in lingua? E la parte di competenze informatiche: devo studiarmi qualche tipo di dispense? Quanto dura questo colloquio? Cosa possono chiedere: tutto il programma di filosofia e storia comunque? E chi sono queste persone che mi valutano? Da chi è composta questa commissione che in aule scalcinate con dei proiettori che a mala pena riescono a illuminare i muri ci stanno esaminando? Saranno utili questi altri comodi manuali da 45 euro l’uno che le case editrici di test hanno sparso a valanga nelle librerie? E i corsi on-line, che mi vengono proposti ogni giorno e mi spammano la mail probabilmente solo perché sono andato su internet a cercare informazione che non mi erano chiare sul sito del ministero, sono utili?.

Non sono domande pleonastiche. Erano le domande che ci siamo fatti, ansiosi io e i miei colleghi candidati, nei giorni precedenti al nostro esame, cercando come matricole imbecilli di andare a carpire qualche dritta, come dire, da coloro che sfortuna loro facevano l’esame prima di noi. Senza essere liquidatori, sta di fatto che eravamo tutti preparati male, anche per il semplice motivo che non si è davvero capito cosa voleva dire essere preparati bene.

E le chiacchiere di corridoio prima o post-esame erano umilianti per noi stessi che le pronunciavano: “Gli devi imbastire”, “Gli devi fare una supercazzola”, “Me so arrampicato sugli specchi”… Come a un esame preparato in fretta all’università per non partire militare. Regrediti, vergognosi, un po’ umiliati ma non umili. E la colpa non era nemmeno degli esaminatori, che a quanto pareva avevano accettato quest’incarico con ancora meno indicazioni di noi e con una necessità di svolgerlo addirittura minore (che tipo di preparazione ad hoc gli è stata richiesta? quanto sono stati retribuiti?).

Sfatti dal caldo, arresi a quella forma di fatalismo che è l’unica filosofia di vita che abbiamo imparato davvero tutti tra i banchi di scuola, la selezione per la classe dei docenti futuri si svolgeva così, con molta indulgenza reciproca, con qualche imprescindibile arbitrio. Nella mia commissione d’esame io ho ritrovato una professoressa che era stata la mia tutor alla SSIS: a suo tempo c’avevo litigato per questioni didattiche, cinque anni dopo ho dovuto sperare che si fosse dimenticata o non facesse valere un’irritazione postuma (così è stato, per fortuna) – ma mi sono anche chiesto insieme a miei ex-colleghi di SSIS: perché devo essere riesaminato da una stessa persona? Fatto sta che ho preso il massimo, dopo un colloquio cordiale.

Non so se ho fatto un esame migliore degli altri, sicuramente so parlare in pubblico, sono disinvolto, e sono stato abile nel riportare tutta l’esposizione dei contenuti al profilo didattico; la cosa che ha fatto la differenza è che insegno da cinque anni e che ho – per quanto limitata – l’esperienza dello stare in classe.

In definitiva, e lo dico di nuovo con totale sincerità, non penso di essere un professore bravo. Penso di essere un professore medio che potrebbe diventare bravo. Come molti. E in un semplice modo: se invece di prepararsi per sei mesi in maniera scomposta e abbarbicata a questo concorso, avesse negli stessi sei mesi frequentato un solido, qualificante, obbligatorio corso di aggiornamento, in cui avrei potuto formarmi in maniera seria da un punto di vista pedagogico per esempio, avrei potuto cominciare a avere una formazione psicologica (cosa che nella scuola non è contemplata nonostante tutti i giorni abbiamo a che fare con ragazzi che questo tipo di competenza ci richiedono), avrei veramente magari capito come utilizzare alcuni strumenti informatici in modo utile alla didattica, etc…

Tutto questo non è accaduto. Si è scelto di indire un concorso, che quest’anno metterà in ruolo un quinto? un ottavo? un decimo? dei vincitori. Sicuramente non me, anche se, Dio volendo, avessi vinto questo concorso: sicuramente non me perché la regione Lazio di fronte alla possibilità di valutare le prove entro il 31 agosto, data limite per l’assegnazione delle cattedre, si è chiamato fuori: ha detto Noi non ce la facciamo sicuro.

Dovrei essere, lo capisce bene, signor ministro, arrabbiato. Ma non lo sono, cerco di non esserlo. Vorrei parlarle da cittadino adulto a cittadino adulto, vorrei togliermi quell’aria da esaminato ansioso e scaramantico che ho tenuto per tutti questi sei mesi e che mi ha fatto sentire come se regredissi a un livello adolescenziale del mio essere cittadino – uno che cerca di svoltare, in definitiva, di elevarsi dalla palude dei suoi coetanei precari, di lasciarsi dietro gli anni di purgatorio lucrando un’indulgenza plenaria.

E vorrei dirle semplicemente che così non va. Che tutta la retorica della meritocrazia, della selezione, con cui è stato approntato questo concorso si è dimostrata sostanzialmente appunto retorica. Per non citare la funzione di propaganda politica che ha avuto per il governo Monti. Ma non voglio parlare di mala fede, buona fede, indignazione, come hanno cominciato a fare i giornali già dagli ultimi giorni. Repubblica titolava Il concorso si trasforma in una beffa, e raccontava in calce all’articolo storie surreali come quella di un docente molisano che ha vinto il posto ma che probabilmente, per la velocità delle immissioni in ruolo dovrà aspettare un paio di decenni.

Un mio conoscente su facebook mi scriveva quest’altra storia paradossale commentando il bailamme del concorso: “A proposito di meritocrazia, la mia esperienza è questa. Faccio le supplenze nei primi anni novanta, poi nel 1999/2000 il concorso ordinario (discipline giuridiche ed economiche). Arrivo secondo in Sardegna nella mia classe di concorso, su circa 2000 aspiranti. C’erano 4 cattedre, per l’ordinario (2 date ai riservisti), una la prendo io. Ora, dopo quasi vent’anni (con la ricostruzione di carriera), ho perso la titolarità, sono diventato soprannumerario e quindi d.o.p., e vengo utilizzato ogni anno in una diversa sede, a disposizione. Cioè sto in sala professori e tappo i buchi. Che abbia vinto il mio concorso col punteggio più alto (il primo mi precedeva solo per l’età) non conta nulla.

La legge prevede che possa essere trasferito ad altra amministrazione e, ove questo non sia possibile, messo in mobilità per due anni e poi licenziato. Le mie pubblicazioni e anche un’eventuale altra laurea contano un tubo”. Le potrei citare le lamentele legittimissime di tutti coloro che l’anno scorso hanno fatto un esame e poi hanno pagato duemila euro per frequentare un TFA, si sono abilitati, e quest’anno si ritrovano con un totale deserto davanti; le graduatorie chiuse, e la totale incertezza sul loro destino, il loro destino professionale rispetto al concorso. E questa è la normalità.

Però non voglio arrabbiarmi, perché vede, signor Ministro, non è mai stata mia la retorica della meritocrazia, anzi l’ho combattuta, ho cercato di seguire chi in questi anni – come Girolamo De Michele, Giuseppe Caliceti, Federica Sgaggio, Michele Dantini… per fare degli esempi – ha mostrato che dietro questa retorica si celino forme di valutazione più arbitrarie; ma invece di ribellarmi come ha scelto legittimamente di fare qualche mio collega (link) sono stato pedissequamente alle regole e mi sono sottoposto a questo concorso. Questo è il risultato.

Dunque, non voglio dire che avevo ragione a sbeffeggiare le interviste del ministro Profumo quando un anno e mezzo fa rivendicava questo concorso come uno dei successi più importanti del suo governo. Sicuramente non avevo del tutto torto, ma non voglio prendermela con lui, né con tutti quei governi – compreso questo – che dicono di mettere la scuola al primo posto e poi di fatto ne fanno strame…

Non m’interessa più lanciare accuse, vorrei che da oggi questa modalità di gestire il mondo della scuola e dell’università cambiasse, vorrei che agli ex-provveditorati non ci fossero quelle scene da western a settembre quando si assegnano le cattedre i primi di settembre, vorrei poter diventare un insegnante migliore, più preparato, più capace, senza dover inventarmi ogni giorno io il modo e forse stufandomi di farlo per pigrizia o forse sbagliando per una qualunque presunzione o ingenuità.

E basta con qualunque retorica, i tablet in classe, la scuola 2.0, le meritocrazie, le tre I: servono soldi. Servono insegnanti pagati bene. Servono ispettori che abbiano gli strumenti per valutare e garantire l’offerta formativa. Servono corsi e corsi e corsi di aggiornamento. Servono tanti investimenti di lungo e periodo. Serve un piano di rifondazione della scuola in nome del quale chiedere tasse giuste, anche ad hoc. Non credo, e vorrò concordare, che si tratte di scelte politiche, ma come dire di scelte “biologiche”: è l’istinto di sopravvivenza ancora prima che quello di evoluzione.

Cordialmente,
Christian Raimo