Aborto, l’allarme dei medici non obiettori

Associazione Laiga *
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La relazione del ministro della Salute sullo stato di applicazione della legge 194 conferma la netta riduzione dei tassi di abortività nel nostro Paese, sottolineando il dato di fatto che la legge funziona, nonostante gli innumerevoli attacchi subiti nei 35 anni trascorsi dalla sua approvazione. Apprendiamo con favore la notizia della attivazione di un tavolo tecnico con le regioni, per avviare un monitoraggio riguardante le singole strutture ospedaliere e i consultori, per individuare le criticità, già più volte denunciate da LAIGA e dalle numerose associazioni impegnate per la piena applicazione della legge e riportate con allarme e grande preoccupazione nel dibattito alla Camera citato nella relazione stessa.

Senza dubbio la maggiore criticità è rappresentata dall’uso strumentale del “diritto” all’obiezione di coscienza. In questo senso, come da noi più volte denunciato, i dati reali si discostano notevolmente da quelli ufficiali riportati dal ministro, che non tengono conto dell’esistenza di una “obiezione di struttura”: in molti ospedali del nostro paese, infatti, i servizi per le interruzioni volontarie di gravidanza semplicemente non esistono, per cui i medici che lavorano in queste strutture, obiettori di fatto, non hanno alcun motivo di sollevare obiezione di coscienza, e vengono spesso conteggiati fra i non obiettori. In proposito, colpiscono le conclusioni della ministra: anche se un numero altissimo di ginecologi è obiettore di coscienza, poiché il numero di IVG/anno è più che dimezzato, il numero di non obiettori sarebbe congruo al numero complessivo di IVG. E’ evidente, invece, che le differenze abissali esistenti tra le varie regioni, riportate peraltro nella relazione stessa, rendono assolutamente non significativo il dato riportato su scala nazionale.

Confidiamo allora che il tavolo tecnico da lei approntato possa riportare alla ministra notizie e dati sulle reali condizioni di lavoro dei pochi ginecologi che ancora permettono che una legge dello Stato venga applicata, nonché sugli ostacoli che incontra il diritto alla salute delle donne nella stragrande maggioranza delle regioni del nostro paese.
Confidiamo inoltre che il tavolo tecnico possa riportare alla ministra notizie sulle tante donne costrette a migrare in altre province o regioni per interrompere una gravidanza indesiderata, nonché sulle tante donne costrette a migrare all’estero per l’aborto terapeutico.

I media hanno acceso i riflettori sul possibile ritorno, nel nostro paese, dell’aborto clandestino, soprattutto tra le cittadine straniere, ma non solo. Vi accenna anche la relazione della ministra, riportando una stima che fa riferimento ad una rilevazione del 2005; si ripete qui la stessa ammissione di assoluta ignoranza dei dati, che hanno già fatto i ministri precedenti, purtroppo senza dire cosa si vuol fare per valutare l’entità del problema e per limitarne la diffusione.

I dati riportati sull’IVG farmacologica confermano che si tratta di una procedura sicura a cui ogni donna dovrebbe poter avere accesso. Purtroppo dalla relazione della ministra non si sottolinea come nel nostro paese scegliere l’aborto farmacologico è ancora, per tantissime donne, un diritto negato. Nella quasi totalità delle regioni italiane, infatti, per l’IVG medica è previsto il ricovero ordinario, con maggiori costi sanitari e difficoltà burocratiche a volte insormontabili. Un maggiore ricorso all’IVG medica in regime di DH, come suggerito dal report di epicentro, il portale dell’Istituto superiore di sanità, permetterebbe una riduzione dei tempi di attesa, che significa, dal punto di vista medico, una minore incidenza di complicazioni, e dunque un’azione a salvaguardia della salute delle donne. La relazione ci ricorda infine l’importanza della prevenzione, “obiettivo primario delle scelte di sanità pubblica”; senza dubbio la diffusione della conoscenza e dell’uso dei metodi contraccettivi è il fulcro di questo impegno. Confidiamo pertanto che la ministra si adoperi in questo senso, appoggiando anche la nostra battaglia per abbattere gli ostacoli alla contraccezione di emergenza, perché la pillola del giorno dopo possa essere dispensata come prodotto da banco, come avviene ormai in un grandissimo numero di paesi nel mondo.

* Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194, www.laiga.it)

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Aborto, l’obiezione di coscienza è una truffa

Mario Riccio, medico e consigliere dell’associazione Luca Coscioni
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È assolutamente necessario operare una netta distinzione tra l’istituto dell’obiezione di coscienza in ambito sanitario e l’erogazione della prestazione medica. Attualmente infatti si accetta come inevitabile che la prima, l’esercizio dell’obiezione, possa o debba necessariamente influire sulla seconda, l’erogazione della prestazione. Premetto che ritengo sia corretto riconoscere alcune forme di obiezione di coscienza in campo sanitario. Sia riguardo alle problematiche di inizio vita – procreazione assistita, interruzione di gravidanza, contraccezione – che a quelle di fine vita, come nel caso dell’interruzione di determinati trattamenti sanitari.

Non è invece accettabile, come purtroppo accade in molte regioni italiane – Lombardia, Lazio e in generale nel sud Italia – che l’obiezione di coscienza di fatto complichi o addirittura impedisca l’erogazione della prestazione sanitaria dell’interruzione di gravidanza.

Concentriamoci sulle problematiche che riguardano l’interruzione di gravidanza con metodica chirurgica. Le figure che sono coinvolte direttamente nella esecuzione dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) sono il medico ginecologo, il medico anestesista e l’infermiere di sala operatoria. In molte realtà ospedaliere – a causa dell’elevato numero di obiettori di coscienza tra queste figure professionali – i tempi di attesa per poter essere sottoposti ad una IVG sono talmente lunghi da rischiare che venga superato il termine massimo delle 12 settimane di gestazione, limite di legge oltre il quale l’aborto è consentito solo in determinate, particolari e limitate circostanze. Tanto che l’IVG può essere definita come una vera urgenza chirurgica di natura amministrativa.
Ma vi sono ospedali che dichiarano di non poter erogare del tutto la prestazione per l’assoluta mancanza di personale sanitario non obiettore.

Non è di mia competenza valutare se un tale rifiuto contrasti con il diritto costituzionale alla tutela della salute, qualora la prestazione – di assoluta ordinarietà – non venga erogata laddove risieda la donna richiedente. Costringendola ad un umiliante peregrinare alla ricerca della struttura accettante, che non sempre risulta oltretutto vicina. Ma questo potrebbe essere correttamente valutato, qualora fosse presentato un esposto da una donna che si vedesse rifiutato, dall’ospedale della città ove risiede, non solo l’aborto in se, ma anche una chiara e precisa indicazione di altra struttura che lo possa erogare in tempi certi.

L’IVG si caratterizza pertanto come l’unica prestazione sanitaria che è – in determinate circostanze – rifiutata dal nostro Sistema Sanitario. Da sottolineare infatti che l’ospedale che non riesce a garantire al cittadino una prestazione sanitaria, perché sprovvisto della competenza necessaria – come ad esempio la cardiochirurgia e neurochirurgia – provvede comunque a mettere in contatto il cittadino con la struttura sanitaria che pò rispondere alle sue necessità. In caso di urgenza o emergenza gestisce invece direttamente la prima assistenza ed il trasporto stesso del paziente presso la struttura accettante.

Gli ospedali, al fine di ridurre il più ampio problema delle liste di attesa, sono autorizzati – qualora non obbligati – ad attuare quanto stabilito nei decreti legge della riforma Bindi del 1999. Ovvero a proporre ai propri dipendenti prestazioni cosiddette aggiuntive e al di fuori dell’orario di servizio contrattuale, per le quali sono remunerati a parte. Si intende che il costo di dette prestazioni è a carico dell’ospedale, a sua volta regolarmente rimborsato dal SSN, e non certo dell’utente. Pertanto ogni ospedale potrebbe ridurre fino a far scomparire il tempo di attesa per l’IVG, incentivando il personale non obiettore.

Un ospedale può anche richiedere personale proveniente da altra struttura ospedaliera qualora la richiesta vada inevasa al proprio interno. Così facendo nessuna struttura ospedaliera si troverebbe a dover rifiutare una prestazione sanitaria – l’IVG – che, come già visto, molto spesso può essere definita d’urgenza.

Tale sistema incentivante è una pratica assolutamente ordinaria. Quasi tutti gli ospedali la attivano per rispondere a elevate richieste di prestazioni – per la maggior parte chirurgiche – derivanti dalla presenza di operatori di eccellenza per un determinato intervento, anche perché risulta un ricavo economico notevole per l’ospedale stesso.
È da ritenersi inoltre che questa soluzione porterebbe molti dei cosiddetti obiettori di comodo a desistere dalla loro posizione, una volta constatato che il loro scopo – impedire la prestazione – è comunque fallito. Innescando così una sorta di circolo virtuoso che nel ridurre il problema limiterebbe anche lo stesso ricorso alla suddetta attività incentivante, effettivamente non priva di costi aggiuntivi.

Non si capisce allora, o forse lo si comprende assai bene, perché non venga applicata per risolvere l’umiliante e talvolta tragica condizione delle donne costrette a mendicare il proprio diritto (costituzionale) ad interrompere – in sicurezza e legalità – una gravidanza non voluta.