L’Italia antigay

Tommaso Cerno
L’Espresso, 6 settembre 2013

«Non siete uomini, siete froci». Così, come un colpo di pistola, l’insulto è risuonato in tutta la banca. Siamo in Sicilia, a Palermo. Allo sportello, di fronte a una cassiera di mezza età, ci sono Marco e Gianni, 44 e 49 anni, professionisti milanesi in vacanza. Avvocato il primo e architetto il secondo, stavano in fila per versare un assegno. Lo stesso giorno in cui, a Roma, un ragazzino di 14 anni si gettava dal balcone a San Basilio. E lo stesso giorno del colloquio di Roberto, 22 anni, studente di ingegneria per un contratto co.co.co a Torino: «Ti muovi sempre così?». Poi: «Tu sei gay?». Morale, il posto è svanito nel nulla. «Ci scusi», hanno replicato alla coop, «ma il suo profilo non corrisponde. Per cui arrivederci».

È l’Italia no gay. Con migliaia di colpevoli e migliaia di vittime. Secondo l’Istat, il 47,4 per cento degli italiani ammette di avere sentito amici o parenti insultare un omosessuale. Eppure la legge contro l’omofobia è stata svuotata di ogni effetto pratico. E, sia a destra sia a sinistra, c’è chi la vuole boicottare. Perché è meglio che nessuno parli di loro. Dell’incalcolabile esercito di gay, lesbiche e trans che vivono tutti i giorni l’omofobia della porta accanto. Da Nord a Sud. A scuola. Al lavoro. In famiglia. Per strada. Come un’epidemia venuta dal passato. Senza un antidoto. Basti pensare che in Italia non esiste una statistica ufficiale dei casi di omofobia. Ognuno fa da sé. Da una parte l’Istat, dall’altra l’Unar, l’ufficio contro le discriminazioni di palazzo Chigi. E ancora il dossier dell’Arcigay e la Help line del Gaycenter di Roma. Morale: nessuno sa quanti siano i gay colpiti dall’odio omofobo. Né quanti anni abbiano, o dove vivano. Di sicuro la parola “omofobia”, secondo quanto ha rilevato Cybion, è sempre più al centro dei cinguettii su Twitter, con 196.950 conversazioni nel solo 2013, rispetto alle 345.978 della parola “razzismo”, uno dei topic più ricorrenti. “L’Espresso” ha incrociato per la prima volta i dati, le denunce e le storie di tanti gay e lesbiche italiani. Per tracciare una mappa dell’Italia antigay.

METROPOLI A RISCHIO

C’è un dato su cui tutti concordano. Sono Roma e Milano le città dove l’omofobia miete più vittime. «Fra 2012 e 2013 abbiamo catalogato circa 20 mila richieste d’aiuto, di cui circa la metà denunciavano discriminazioni, dalle più gravi alle più nascoste, dal mondo scolastico a quello famigliare», spiega Fabrizio Marrazzo del Gaycenter. «Il dato che emerge è che le tre regioni a più alto tasso di denunce e di episodi, sono il Lazio e la Lombardia, cui segue l’Emilia Romagna. I casi di violenza fisica superano i dieci all’anno, e parliamo solo di quelli certi». Per quanto riguarda la capitale, su cento richieste ben 68 provengono dalla città di Roma, mentre il 14 per cento dalla provincia e un altro 18 per cento da tutte le altre province del Lazio. Ed è così in tutta Italia: da Firenze a Bergamo, da Napoli a Pesaro i casi sono quasi il triplo nel capoluogo rispetto alla provincia: «Il dato, però, ha due diverse interpretazioni. Le zone rosse mostrano anche una maggiore propensione alla denuncia, cosa che invece nelle realtà piccole non avviene. Spesso le regioni che registrano meno casi, come la Sicilia o la Calabria, sono quelle dove è maggiore l’omertà, non dove gli omofobi sono di meno», spiega Marrazzo.

IDENTIKIT DI UNA VITTIMA

Chi pensa che l’omofobia abbia un bersaglio fisso, si sbaglia. Colpisce tutti: giovani e anziani. Il 56 per cento di chi chiede aiuto è maschio, il 40 per cento donna e, per un 4 per cento, le chiamate arrivano da trans. L’età varia dagli 11 agli 80 anni. « Ci sono minorenni che denunciano violenze, così come anziani. Si tratta, stime alla mano, di circa il 10 per cento del fenomeno», spiegano alla Help line. Vale a dire che nell’Italia senza leggi anti-omofobia, solo un caso su dieci viene segnalato e denunciato. La punta di un iceberg che, comunque, mostra già numeri significativi. Delle chiamate giunte al Gaycenter, circa 120 casi sono stati trattati. A questi si aggiungono i 63 episodi violenti e discriminazioni gravi (144 nel 2012), arrivate all’Unar, cui sono seguite indagini giudiziarie. Si va dalle violenze fisiche alle minacce, dagli insulti al bullismo. Fino a omicidi e suicidi. Quattro solo nei primi mesi dell’anno: «Per un totale di 150 vittime dell’omofobia accertate negli ultimi 40 anni», rivela il presidente dell’Arcigay, Flavio Romani. «Una strage drammatica e troppo a lungo taciuta». Con un grido d’allarme rivolto al Parlamento: «La legge in discussione alla Camera va modificata con l’introduzione dell’aggravante per il reato di omofobia, altrimenti è inutile», dice Romani. «Già una legge, da sola, non basta, né riuscirà a produrre questo cambiamento: colpirà i reati dopo che sono accaduti. Almeno deve essere efficace nel fare questo. Poi serve avviare un lavoro culturale e sociale molto complesso, che richiede tempi lunghi e lucida determinazione politica. Oltre che adeguati finanziamenti. A partire da un covo silenzioso di omofobia: la scuola».

INCUBO FRA I BANCHI

Federico è un volontario di Roma. Passa una decina di ore a settimana a rispondere alle telefonate d’aiuto. Il 42 per cento dei gay e delle lesbiche che si rivolgono a lui non ha compiuto 30 anni. Di questi, il 3 per cento è minorenne e frequenta le superiori, mentre il 22 per cento è iscritto all’università. «Quasi la metà di loro non ha nemmeno il coraggio di dirci il nome, figuriamoci di denunciare alla polizia un episodio concreto», spiega Federico. Sono il mondo sommerso dell’omofobia fra i banchi di scuola, un fenomeno molto più diffuso di quanto si pensi. Le istituzioni se ne accorgono sempre in ritardo. Quando qualcuno decide di farla finita perché non sopporta più il peso di quegli insulti. L’ultimo in ordine di tempo risale all’11 agosto scorso. I telegiornali ne hanno parlato, i quotidiani hanno riempito le pagine di cronaca. Poi, però, nulla è cambiato. E così ha chiamato Marco, 16 anni, pochi giorni dopo quella tragedia. A scuola lo prendevano di mira e lui, a settembre, non ci vuole tornare: «Da quando si è sparsa la voce che sono gay, sono stato emarginato dai miei compagni di classe e da altri amici che avevo», racconta a “l’Espresso”. «Prima erano risolini e insulti, poi sono arrivati a mettermi le mani addosso e picchiarmi. Io non l’ho detto a nessuno, però, perché mi vergogno. Non l’ho detto nemmeno ai miei genitori e mi sento solo». Eppure, un pomeriggio, quando rientrava a casa, nella periferia romana, mamma ha notato che qualcosa in Marco era diverso. Un paio di lividi sul braccio, uno sul collo. «Ho raccontato di essere stato aggredito in metropolitana da gente che voleva derubarmi e ora non so più dove sbattere la testa. A scuola non sono tutti uguali, ma per me la vita è diventata impossibile».
Andrea ha 18 anni. È sieropositivo. Ha contratto il virus Hiv proprio da un compagno di scuola di 17 anni. «Ho deciso di non curarmi e di non dire nulla a nessuno, perché non voglio che nessuno scopra che sono gay», è il racconto choc che ha fatto al volontario della Gay Help Line. A Napoli invece c’è Claudio, 15 anni: «L’anno scorso, un gruppo di bulli mi aspettava tutti i giorni sul portone e, quando uscivo, mi gridava “frocio, frocio”. Poi ho trovato una scritta “frocio” fuori da casa mia e ho temuto che i miei genitori potessero capire che si riferiva a me. Io non torno a scuola, andrò a rubare».

DOTTOR OMOFOBIA

Se la solitudine è uno degli sbocchi dell’omofobia, c’è chi rischia che l’aiuto fornito sia peggiore della discriminazione. «È capitato addirittura che Province e Comuni, anziché attivare piani anti-omofobia, abbiano finanziato nelle scuole progetti didattici sulla diversità, affidati a stravaganti associazioni che si occupano di teorie riparative dell’omosessualità», spiegano all’Unar. Già. Nonostante le dure prese di posizione dell’Ordine dei medici e di quello degli psicologi, dalla Lombardia all’Emilia, dalla Toscana al Lazio, le cliniche per curare i gay restano in funzione. Ad Angolo Terme, nel bresciano c’è il centro Regina della Pace, ospitato dalla Casa di spiritualità Sant’Obizio dei padri piamartini. Sebbene le petizioni si siano moltiplicate, con oltre 2 mila firme di psicologi e psicoterapeuti, la Curia ha sempre respinto le critiche spiegando che si tratterebbe di «attività spiriturali». Federico, 20 anni, genovese, ha rischiato di finirci ricoverato dopo avere raccontato alla madre di essersi innamorato di un ragazzo: «È rimasta sconvolta, ma mai avrei potuto immaginare che ne avrebbe parlato con un prete. Le ha indicato un centro per curarmi, figuriamoci. Ho minacciato di andare alla polizia», racconta. Ma dopo qualche mese, Federico non reggeva più il clima a casa. Così ha deciso di andarsene, sotto la minaccia di non poter più tornare, né di ottenere alcun aiuto dai genitori.

VITE SEGREGATE

Quello che non è riuscito a fare Enrico, che di anni ne ha appena compiuti 71. Cinquant’anni fa, sua madre si accorse della sua omosessualità e lo costrinse a una vita segregata in casa. «Io non ho avuto la forza di Federico, ho vissuto con mia madre per mezzo secolo. Io e lei, lei ed io. Mio Dio, se ci penso! Mi sono privato della mia vita. Ora lei è morta e io mi sento morto con lei. Non ho amici, non ho mai scoperto la mia sessualità, se non in modo nascosto e anonimo. Non ho vissuto», racconta il pensionato. Il coming out, però, l’ha fatto. Qualche mese fa. Quando non lo credeva più possibile: «Mi ha dato un senso di liberazione parlare di me come di un omosessuale, respirare liberamente, stare dove volevo. Ha acceso dentro di me una forza, qualcosa che mi farà vivere questi pochi anni che mi restano, cercando di aiutare gli altri», racconta. In pochi mesi ha incontrato altri gay anziani, come lui. E la sua vita è cambiata. Silvio, 79 anni, ha una storia simile a quella di Enrico. Così come Giovanni, 70 anni, che ha cominciato a vivere la sua omosessualità solo cinque anni fa. «Ho conosciuto una coppia del Lazio, che convive da quasi 40 anni, e ho capito cosa ho perso per colpa dell’omofobia della mia famiglia e della mancanza di coraggio», spiega. Storie che solo in apparenza non sarebbero cambiate, se l’Italia avesse adeguato le norme a quelle dell’Unione europea, introducendo leggi contro le discriminazioni e garantendo alle coppie omosessuali un riconoscimento: «Una legge serve anche a questo, a mostrare alle famiglie più retrograde che tu esisti per lo Stato, che non sei un paria della società. Oltre a colpire comportamenti criminosi, o garantire il godimento dei diritti, serve a modificare la cultura della società», spiega Franco Grillini, psicologo e leader storico del movimento gay italiano. Lo sanno bene gli omofobi che, spesso, indirizzano la proprio violenza contro la politica, proprio per spaventare chi invoca i diritti civili. L’ultimo caso risale a pochi giorni fa. Era il primo settembre, quando la consigliera del Comune di Venezia, Camilla Seibezzi, è stata minacciata di morte. Colpevole di essere la delegata ai diritti civili e di avere adeguato i moduli di Ca’ Farsetti, sostituendo i termini “madre” e “padre” con la parola “genitore”. Come in Europa avviene da anni.

TU GAY, IO MOBBING

Un clima simile a quello che, ogni giorno, soffrono molti gay sul posto di lavoro. Negli uffici come nelle fabbriche, nelle cucine dei ristoranti, come nelle cooperative più illuminate. Dopo che, nel 2009, il governo Berlusconi aveva recepito la direttiva dell’Unione europea , adeguando la normativa sul mobbing, secondo la quale tocca al datore di lavoro discolparsi dall’accusa di comportamento omofobico, nulla nei fatti è davvero cambiato. Ancora oggi, infatti, vengono richiesti indizi «gravi, precisi e concordanti», senza tenere conto che spesso la raccolta delle prove passa per la testimonianza proprio di quei colleghi che, nella maggior parte dei casi, erano gli stessi che discriminavano, spiegano alla rete Lenford, un gruppo di avvocati specializzati in discriminazioni e diritti dei gay. In agguato c’è pure una seconda insidia, il precariato, che pone l’omosessuale sotto un ricatto ancora più pesante. I casi sono centinaia. E riguardano spesso i trans. Come Fabrizio, che mentre lavorava per una cooperativa ha cominciato il percorso per cambiare sesso. Ha 31 anni e il suo nome ora è Loredana. Ma il suo lavoro non c’è più. All’improvviso, mentre per mesi le cose erano andate per il meglio, sono cominciati i problemi. «La mia responsabile, assieme a due colleghe, ha cominciato a segnalare per iscritto ogni mia minima mancanza, ingigantendola. Eppure io lavoravo come prima. Le note si sono moltiplicate e mi hanno cacciata», racconta Loredana. Non c’è solo la sessualità a fare da detonatore, ma anche il pregiudizio: la maggioranza dei datori di lavoro è convinto che un trans sia necessariamente una prostituta. E così Monica, 37 anni, cacciata dal bar dove lavorava: «Mi hanno detto che i clienti erano cambiati, che per colpa mia al bar girava gentaglia. E che, avanti di questo passo, avrebbero dovuto chiudere. Una sciocchezza, i clienti erano sempre gli stessi», racconta.
Silvio, 30 anni, un giorno scopre di essere sieropositivo. Al lavoro nessuno lo sa, fino a quando un collega, frugando nel suo pc, scopre una mail personale inviata all’infettivologo. «A fine mese il mio contratto non è stato rinnovato», taglia corto. Lui si è rivolto al sindacato, ma s’è potuto far poco. «Anche se mi hanno assicurato che, dalle verifiche fatte, al 99 per cento sono stato licenziato per questa ragione».

Secondo l’Istat, in Italia gli omosessuali che dichiarano di aver subito discriminazioni sul lavoro sono il 22,1 per cento, contro il 12,7 per cento degli eterosessuali, mentre un altro 29,5 per cento ritiene di non avere ottenuto il posto di lavoro perché gay. Come Edoardo, 34 anni, ingegnere gestionale. Dopo un’esperienza all’estero, impiegato in un’azienda che aveva adottato un codice etico contro l’omofobia, e abituato a godere – assieme al suo compagno James, 28 anni – dello stesso trattamento dei colleghi etero (dalla licenza matrimoniale, ai permessi famigliari), ha deciso di fare rientro in Italia per assistere la madre anziana. «Sono tornato in Italia e ho cercato impiego nello stesso settore», racconta. I colloqui sono presto arrivati, così come una proposta di assunzione. «Durante l’incontro finale, che avrebbe dovuto finire con la firma del contratto, mi sono reso conto che qualcosa non andava. Il titolare si è rivolto a me e mi ha detto: “Noi qui preferiamo avere gente normale, lei capirà? Cosa potrebbero pensare gli altri, se assumessi un finocchio”». Edoardo è rimasto immobile. «Ho pensato a uno scherzo. Mi sono detto: adesso tutti ridono e io firmo il contratto. Ma non era così». Era la cruda realtà, visto che pochi giorni dopo quel posto è stato occupato da un altro candidato, senza nemmeno la laurea.

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L’Agedo scrive a L’Espresso: «Che c’entrano quelle foto con le violenze che subiscono i nostri figli?»

http://gayburg.blogspot.com

«L’omofobia colpisce nelle grandi città. A ogni età. In ufficio e a scuola. E sono oltre 20mila le richieste di aiuto. Rapporto sulle discriminazioni. Ormai un’emergenza nazionale». Sono queste le parole che introducevano l’inchiesta sull’omofobia pubblicata lo scorso 12 settembre da L’Espresso.
A creare malumori, però, non sono state tanto le parole quanto le immagini scelte per il corredo grafico: l’Agedo, infatti, contesta come tutte le fotografie pubblicate nell’articolo si riferiscano a scene che non hanno nulla a che vedere con le violenze che i loro figli subiscono, preferendo mostrare sederi, darkroom e scene di cruising.

Gabriele Scalfarotto, presidente dell’associazione a Foggia, ha così preso carta e penna per scrivere una lettera al direttore del settimanale, parlando apertamente di gaffe e di autogol. «Io non comprendo -si legge nella lettera- l’attinenza delle foto scelte per corredare l’articolo, io non comprendo l’attinenza della discoteca con i ragazzini che si suicidano, io non comprendo l’attinenza del velo rosa e delle piume (come specificato abiti di scena di uno spettacolo) con le aggressioni e gli omicidi di gay. Io non comprendo perché nelle foto sono rappresentati solo giovani uomini se l’articolo afferma che “il 40% delle richieste di aiuto è di donne e che l’età varia dagli 11 agli 80 anni”. Io non comprendo perché l’unico primo piano è di un culo? Gli omosessuali hanno solo il lato b? (Forse per parlare di femminicidio associamo un bel primo piano di tette in lingerie di pizzo?). Io non comprendo perché per rappresentare un abbraccio tra uomini bisogna specificare che avviene “…nella dark room” (accade frequentemente che i reporters dell’Espresso vadano a scattare fotografie in una dark room?). La mia indignazione nasce dallo stridere del testo drammatico (omicidi, suicidi,aggressioni, licenziamenti ecc.) con quelle immagini; la mia indignazione nasce dalla modalità di rappresentazione dell’omosessualità per cui si sottolinea morbosamente la sessualità fino a rendere i gay esseri ipersessuati assurdamente lontani dalla normalità o se preferite dalla quotidianità… Mi domando quanti sono gli omosessuali (donne, uomini, studenti, disoccupati, operai, insegnanti, professionisti, discotecari, casalinghi, belli, brutti, timidi, estroversi, adolescenti, giovani, adulti, anziani) che si identificano in questa rappresentazione dell’omosessualità».