Invasione, integrazione e ladri di lavoro: i luoghi comuni sull’immigrazione

Antonello Mangano
www.terrelibere.org

L’immaginario sull’immigrazione e la realtà dell’immigrazione sono ormai due cose completamente separate. Dominano gli opposti luoghi comuni. Forse per l’egemonia culturale della Lega, costruita negli anni e rafforzata dall’accodamento di chi doveva contrastarla. Forse, semplicemente, per effetto di un Paese impaurito e incattivito dalla crisi. Ma anche per l’incapacità di spiegare, parlare di fatti e numeri. Ai luoghi comuni di destra si contrappone un «buonismo» derivato dalla peggiore tradizione cattolica. Proviamo, invece, a usare la ragione.

Sono troppi, è un’invasione

Gli sbarchi sono «coreografici». Trasmettono l’idea dell’invasione. In realtà, gran parte sono salvataggi in mare da parte di unità della Guardia Costiera. Il maggior numero di immigrati arriva da sempre in aereo, con un visto turistico, via terra dal confine orientale o nei porti dell’Adriatico. Ma sono arrivi invisibili e dunque non suscitano allarme.
La quota di arrivi via mare oscilla dai 36mila nel 2008 fino a 67mila nel 2011. Quest’anno siamo a circa 30mila e la cifra non dovrebbe aumentare di molto, perché gli arrivi sono concentrati nel periodo estivo. Bisogna considerare che – negli anni in cui arrivavano soprattutto migranti economici – l’Italia si «arricchiva» in media di un piccolo paese da 20 mila abitanti. Troppo poco per parlare di invasione.

Da due anni a questa parte arrivano soprattutto profughi. Sulle coste siciliane e calabresi, quest’estate, sono arrivati esclusivamente profughi. Persone cioè che scappano da Eritrea, Somalia, Siria, Egitto. Paesi con conflitti endemici o temporanei. Gente che non vuole quasi mai rimanere in Italia e lo considera solo un paese di transito verso la Germania o la Svezia – luoghi capaci di offrire ben altro in termini di inserimento. Oppure, a guerra finita, vogliono tornare al loro paese.
L’Italia dovrebbe offrire solo un buon transito. Evidentemente non ne è capace. La bocciatura della Grecia in ambito europeo come Paese incapace di gestire l’accoglienza dei profughi ha significato l’inizio sostanziale della crisi di quello stato.

Non possiamo mantenerli, portateli a casa vostra

I profughi – dopo aver ottenuto asilo politico – non sono mantenuti a vita. Devono essere accompagnati verso la possibilità di camminare con le proprie gambe. In Italia, invece, sono concepiti come una «mucca da mungere» secondo le regole della shock economy, che nella versione italiana diventa fondi a pioggia per soggetti di qualunque tipo: con l’emergenza «Nord Africa» del 2011 anche alberghi e casolari hanno beneficiato della guerra libica. Una misura anticrisi clientelare e inefficace, senza alcun beneficio per gli stranieri.
L’obiettivo diventa così trattenere più a lungo possibile i migranti, in particolare durante l’attesa per la richiesta di asilo. Un centro come quello di Mineo ospita in media 3000 richiedenti in attesa. È una fabbrica della disperazione. Le proteste dei migranti (numerosissime negli ultimi due anni, in qualche caso anche violente) hanno un solo scopo: velocizzare le procedure, uscire dai centri, iniziare a lavorare. Magari in un Paese meno cialtrone.

Non è un caso che, dopo ogni «emergenza sbarchi», tutti si affrettano a chiedere soldi all’Europa. Non si parla di efficienza, razionalizzazione, organizzazione. Semplicemente denaro, che in grandissima parte finisce agli italiani. Non è un caso che nei centri si distribuiscano pocket money, buoni che possono essere spesi all’interno o nei dintorni per comprare solo determinati beni.

Già non c’è lavoro per noi

Tutti i rapporti degli organismi internazionali da anni dicono che le migrazioni si stanno spostando dall’Europa ai paesi emergenti. La fascia meridionale europea, in particolare, è sempre meno «appetibile». I dati del rapporto Ismu 2012 mostrano che gli arrivi di migranti economici sono praticamente terminati.
Questo porterà a una notevole ristrutturazione del mercato del lavoro in Italia. È tipico dei paesi ricchi, dall’Europa agli Emirati arabi, affidare ai migranti le fasce basse. Gli italiani in questi anni hanno potuto in gran parte (anche se per esempio in edilizia locali e migranti spesso lavorano fianco a fianco) dedicarsi a lavori intellettuali e impiegatizi, persino «artistici». Il problema non è più «ci tolgono il lavoro» ma «come faremo senza di loro».
Il lavoro migrante – da sempre – è usato dalla controparte padronale in funzione antisindacale e per comprimere i salari e diritti. Ma sono stati proprio i lavoratori migranti – a differenza di tanti piagnucolosi italiani – a organizzare gli scioperi in agricoltura (Nardò, Castel Volturno) e nella logistica (Milano, Bologna, Piacenza). Arrivando a contrapporsi a organizzazioni criminali e potenti multinazionali.

Aiutiamoli al paese loro

Secondo gli xenofobi dal volto umano, dobbiamo impedire le migrazioni e «aiutarli al paese loro». Ma gli spostamenti di massa sono da sempre un modo per far crescere le economie locali. Cosa sarebbe oggi l’Italia senza le rimesse di milioni di emigranti che nell’arco di due secoli hanno lavorato in condizioni disumane pur di mandare denaro alle famiglie rimaste in patria?
Oggi, allo stesso modo, paesi come le Filippine si reggono sulle rimesse degli immigrati, così come la Polonia. I polacchi non emigrano più – almeno in paesi come l’Italia – perché sull’emigrazione degli anni ‘90 hanno costruito la loro crescita. Impedire le migrazioni significa fermare questa forma di riequilibrio della distribuzione della ricchezza e – di conseguenza – aprire la strada a esodi veramente di massa.

E loro come ci trattano al loro paese?

Nei discorsi da bar «noi» accogliamo bene i migranti, li sfamiamo e offriamo lavoro. «Loro» ci trattano male nei «loro» paesi. Uscendo dall’astrattezza, basta dare un’occhiata a quello che fanno le imprese italiane nel Corno d’Africa. E in Libia, Tunisia, Romania. In molti casi, le ditte italiane di costruzioni hanno fondato le loro fortune costruendo infrastrutture – spesso inutili – in Africa. Pagando tangenti a regimi sanguinari. Devastando l’ambiente e distruggendo economie locali. Da ultimo, l’impresa Salini – oggi fusa con Impregilo – sta costruendo l’enorme diga della Rinascita in Etiopia, tra le proteste degli abitanti. Gli effetti saranno destabilizzanti per tutta l’area. L’Egitto protesta per la riduzione delle acque del Nilo. Dal Corno d’Africa continuano ad arrivare a Lampedusa profughi di guerre ormai endemiche.
Le ditte venete in Romania lavorano in quel paese – con altissimi profitti – fino dagli anni ‘90. E così le imprese italiane in Tunisia o in Libia. Bel Alì e Gheddafi erano straordinari partner commerciali. E l’Eni in Nigeria si trova come a casa.

A casa vostra

«Andate a casa vostra», dicono i comitati dei cittadini ispirati dal credo leghista e dagli imprenditori della paura. Ma la «casa» non c’è più. In un mondo globale, ci piaccia o no, gli effetti e le cause sono intimamente legati da un punto all’altro del pianeta. È inutile costruire porte e sbarramenti, perché saranno inesorabilmente abbattuti.
Chiudersi di fronte ai profughi di guerra – come per esempio quelli provenienti dalla Siria – significa violare la nostra Costituzione e le leggi internazionali a partire dalla convenzione di Ginevra. Ma anche chiudersi rispetto a un mondo dal quale non siamo isolati. L’Italia usa fondi europei, fa parte di accordi internazionali. Non può sedersi ai tavoli solo quando si tratta di prendere.

L’Europa ci deve aiutare nelle emergenze

Secondo i dati riferiti al 2011, ci sono stati 571.000 rifugiati per la Germania, quarto paese al mondo per numero di persone accolte; 210.000 per la Francia; 194.000 per il Regno Unito; 87.000 per la Svezia; 75.000 per l’Olanda; appena 58.000 per l’Italia.
Come si fa a chiedere aiuto a paesi che già danno molto di più, pur non essendo paesi confinanti? La situazione in Italia e Grecia, palesemente incapaci di gestire i profughi, ha portato al paradosso di Dublino. I migranti che arrivano nei paesi del Mediterraneo sono costretti a fare lì domanda d’asilo e a rimanere. Ma spesso hanno parenti e prospettive di lavoro in quelli del Nord. I quali, però, sono spesso saturi. E quasi sempre l’emergenza italiana è il frutto della disorganizzazione e dell’improvvisazione.

Ma non vogliono integrarsi

Per integrazione possiamo intendere due cose. L’inserimento socio-lavorativo in un determinato contesto oppure l’adeguamento a regole, abitudini e modi di pensare del contesto stesso. Gli emigrati di tutti il mondo puntano all’inserimento. Altrimenti non partirebbero neanche. Dunque si tratta di un’ovvietà.
Nel secondo caso, dobbiamo chiederci quali sono le «regole» reali vigenti in Italia. «Devono rispettare le nostre leggi e la nostra cultura» suona paradossale in determinati luoghi. Basta fare un giro nelle campagne meridionali. Imprenditori analfabeti e mafiosi, sfruttatori e brutali sono la norma. I migranti, per fortuna, non si sono integrati all’omertà, al lavoro nero, alla sopraffazione mafiosa. Altrimenti non avremmo avuto le rivolte di Rosarno e Castel Volturno e lo sciopero di Nardò.

Conclusione

«L’immigrazione è un fatto sociale totale», afferma il sociologo algerino Abdelmalek Sayad. Più prosaicamente notiamo che i migranti, in generale, non sono un problema ma la spia di un problema. Dal sistema di accoglienza allo sfruttamento sul lavoro, dall’inefficienza politica alla criminalità, mettono in evidenza impietosamente tutti le criticità italiane.