Ri-conoscere il dono inatteso di L.Sandri

Luigi Sandri *
Adista Notizie n. 32/2013

ANNO C-13 ottobre 2013- XXVIII Domenica del tempo ordinario 2Re 5,14-17 Sal 97 2Tm 2,8-13 Lc 17,11-19

Quando Luca, nel vangelo di questa domenica, annota che, dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, l’unico che tornò indietro per ringraziarlo era un “samaritano”, non dà un semplice dettaglio geografico, ma fa una pregnante affermazione teologica. Per capirlo, è però necessario un flash-back.

Alla morte di Salomone ci fu una lotta per la successione, che infine portò alla divisione del paese in due entità: il regno del Nord, quello d’Israele, nella Samaria, e quello del Sud, il regno di Giuda, con capitale Gerusalemme. Nel 721 gli Assiri conquistarono il regno del Nord, deportarono una parte dei suoi abitanti, e importarono in esso alcune popolazioni che, inevitabilmente, si intrecciarono con gli ebrei nativi. Di conseguenza ci fu un mescolamento di sangue e, soprattutto, la corruzione della purezza religiosa, perché si persero alcune usanze bibliche e si innestarono venature di riti estranei. Per questi motivi, anche ai tempi di Gesù gli ebrei consideravano “bastardi” gli abitanti della Samaria.

Quando, dunque, Gesù presentava come ”esemplari”, rispetto alla ricerca del Regno di Dio, un samaritano (l’uomo che soccorre il poveretto bastonato dai briganti sulla strada da Gerusalemme a Gerico), o una donna samaritana (alla quale confida che è venuto l’ora di non più adorare Dio nel tempio degli ebrei o in quello dei samaritani, ma di adorarlo “in spirito e verità”), egli lanciava una sfida bruciante, e uno schiaffo intollerabile agli ebrei, e soprattutto al potere sacerdotale del tempio ebraico. E indicava che il Regno di Dio annunciato non aveva confini.

Perciò, sottolineando che, dei dieci lebbrosi guariti, a ringraziare Gesù è solamente un samaritano, il Vangelo una volta ancora insiste nel dire che anche tra i “bastardi” – tali considerati dai benpensanti – e, forse, soprattutto tra i “bastardi”, sboccia il fiore raro della riconoscenza. E, perché tutto sia chiaro, Gesù qualifica come “straniero” il samaritano. Come per ribadire che “non è dei nostri” e, tuttavia, primeggia sulla strada del Regno, perché ha avuto fede nella potenza taumaturgica di Gesù e, una volta ottenuta la guarigione, ebbro di gioia è tornato a ringraziare il suo benefattore. Che cosa è mai, la riconoscenza? Il ri-conoscere, appunto, che qualcuno ci ha portato un dono inatteso o, per quanto ardentemente implorato, non necessariamente dovutoci. Si tratta, prima di tutto, di un sentimento legato alla natura umana. È un sentimento che, con parole connesse con la mentalità moderna, potremmo definire “laico”: esso, di per sé, prescinde da qualsiasi fede nell’Ineffabile, o nel Fascinoso e Tremendo; spunta dal cuore e dalla sensibilità innata in chi abbia un minimo di consapevolezza che il “non dovuto” gli è stato “regalato”. Un dono che talora arriva dopo mille imploranti richieste, e talaltra improvviso e imprevisto. Ma l’esperienza ci insegna che, proprio a livello umano, la ri-conoscenza non è affatto scontata. Chi non ha dimenticato, qualche volta, di ringraziare per un dono inatteso? E chi non ha sofferto per non essere stato ringraziato da qualche persona alla quale, magari con sacrificio, aveva fatto un dono importante? Insomma, tanto i “credenti” che i “non credenti” possono avere la virtù della riconoscenza o la povertà dell’irriconoscenza: non vi sono esiti a-priori, dipende dal cuore di ogni singola persona.

Comunque, sul versante della fede cristiana, riconoscenza significa sapere – in linea teorica e nella concretezza della vita – che la grazia viene dall’Alto, e che la misericordia di Dio, commosso dalla croce di Cristo, ci salva pur essendo peccatori. Come, in modo scultoreo, bene affermò, cinque secoli fa, Martin Lutero, nella tesi 52 della sue Resolutiones: “Sia dannato in eterno ogni discorso che convinca ad avere fiducia e sicurezza in o per mezzo di qualunque altra cosa che non sia la nuda misericordia di Dio, che è Cristo”.

* giornalista. Ha lavorato all’ufficio Ansa di Mosca, ed è stato corrispondente della stessa agenzia da Tel Aviv. Attualmente è vaticanista del quotidiano “Trentino” e della rivista “Confronti”. Di prossima uscita, per la casa editrice Il Margine, il suo “Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere”

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Non giudice, ma Padre nostro

Luigi Sandri

ANNO C-20 ottobre 2013-XXIX Domenica del tempo ordinario Es 17,8-13 Sal 120 2Tm 3,14-4,2 Lc 18,1-8

È di straordinaria difficoltà teologica e asprezza storica il tema che emerge dal vangelo odierno. Gesù, infatti – con un arditissimo paradosso, dipingendo Dio migliore di… un giudice disonesto che rende giustizia ad una povera vedova solamente per non sentirsi da lei importunato giorno e notte – fa un’affermazione dirimente: Dio «farà giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano verso di lui».

Ma la storia dimostra esattamente il contrario: troppo spesso, su questa terra, Dio non fa giustizia – visibile, almeno – ai suoi eletti. Dai più lontani millenni alla cronaca di questi giorni, si sono accavallati, e si accavallano, nel pianeta, eventi tremendi: alcuni dovuti a catastrofi naturali, come i terremoti, e altri alla cattiveria umana, come le guerre. Sono forse stati evitati, questi mali, o sconfitti, dal “grido” a Dio degli eletti?

La lettura dell’Esodo assicura che quando Mosè riusciva a tenere le mani alzate, per implorare l’aiuto dell’Altissimo, gli israeliti vincevano contro Amalek. Ma se guardiamo la storia recente, constatiamo che le grida degli ebrei che venivano sterminati da Hitler non sono state ascoltate da nessuno. E il silenzio di Dio di fronte ad Auschwitz lascia ammutoliti i credenti e attoniti i non credenti. È vero che ci sono rari momenti nei quali una situazione quasi disperata viene rovesciata da Dio che “cede” alle preghiere di chi lo invoca. Così gli Atti degli Apostoli (capitolo XII) raccontano che quanto Erode fece imprigionare Pietro, «una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui»; l’angelo del Signore appare all’apostolo, lo scioglie dalle catene, lo rende libero. Dunque – sottinteso – la preghiera della Chiesa ha ottenuto dal Signore la giustizia attesa.

Se il male di cui è intriso il mondo e, soprattutto, la sofferenza degli innocenti, sono argomenti che portano donne e uomini di tutti i tempi non solo a negare la presenza di Dio nella storia ma, più radicalmente, la sua stessa esistenza, quante e quanti osano malgrado tutto credere nella parola del Rabbi di Nazareth continuano a recitare, fidenti, la preghiera da lui insegnata, il Padre nostro… Ma non hanno particolari illuminazioni; incertezza e smarrimento accompagnano le loro giornate, come quelle di tutti; non sanno spiegare il silenzio di Dio; ritengono che Gesù non li abbia ingannati, ma non riescono a conciliare le sue affermazioni con l’evidenza storica che le smentisce; rifiutano una concezione magica del Divino, e sono ben convinti, alla scuola di Dietrich Bonhoeffer (il teologo luterano fatto impiccare da Hitler), che “Dio non è un tappabuchi”. Insomma, sanno che nostra, e solo nostra – dei cristiani, dei credenti di altre fedi, dei (cosiddetti) non credenti – è la responsabilità di costruire un mondo giusto, senza delegare a nessuno compiti non delegabili, ma anche senza pretese di primogeniture nel servizio al mondo.

A Busan, in Corea del Sud, dal 30 ottobre all’8 novembre si celebrerà la X Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, il cui logo è: “Dio della vita, guidaci alla giustizia e alla pace”. Dio – non “Giudice”, ma “Padre nostro” – ascolterà il grido di 345 Chiese (ortodosse, antiche orientali, anglicane, luterane, riformate, e altre ancora), che gli chiederanno giustizia e pace, a cominciare dalla penisola coreana da decenni ancora spezzata in due, e costellata di armamenti atomici?

Ma questa preghiera sarebbe insincera senza la decisione di assumere la via della croce come unico luogo in cui le Chiese possano credibilmente muoversi. Chissà, forse il “miracolo” sarebbe che milioni di cristiani decidessero di «osare la pace per fede» (Bonhoeffer); spendersi con coraggio, nei rispettivi Paesi, perché i vari governi operino per la giustizia e la pace, e risolvano con le trattative le controversie pendenti; e, tanto per dar l’esempio, fare la pace eucaristica tra di loro.