«Cosi come sono, vanno chiusi. Fanno schifo»

Katia Ippaso
www.italiarazzismo.it

Se, lo diceva Shopenauer, la vita oscilla come un pendolo tra Disperazione e Noia, ma parlava degli uomini liberi, la vita degli uomini non liberi, trattenuti e detenuti contro la loro volontà in luoghi che dovrebbero identificarli e in qualche misura acco- glierli, oscilla tra Alienazione e Schifo. Alienazione e Schifo: sono i termini usati da Luigi Manconi, presidente per la Commissione dei Diritti Umani al Senato, per descrivere ciò che ha visto dentro i Centri di Identificazione ed Espulsione, e in particolare dentro il Cie di Gradisca che ha visitato a settembre e in seguito al quale ha espresso la sua ferma posizione a riguardo: va chiuso, almeno in questa forma. La faccenda dei Centri di Identificazione ed Espulsione è ovviamente complessa, e vale la pena seguire il filo di un ragionamento che parte dagli uomini/stracci incontrati dentro i nostri recinti, per rivolgersi alle istituzioni e a questa Italia indifferente e ostile che pensa per stigmi, espellendo da sé chi crede straniero e criminale tout court, senza distinzioni. Ma conoscere, lo dice l’etimologia della parola, significa distinguere. Luigi Manconi, senatore Pd e docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, ci aiuta a farlo.

Come vivono questi uomini?
La sensazione che io mi sono fatto partendo dalle tre visite che abbiamo realizzato come Commissione e dal ricordo di molte altre visite precedenti (le prime risalgono al 2000) è che questi uomini vivono in uno stato di totale alienazione. Alienazione è il termine esatto. E un termine marxiano caro a chi, come me, ha una cultura di sinistra, e mi sembra particolarmente pertinente. In quale accezione? Abbiamo degli individui alienati da se stessi. La condizione del trattenuto nel Cie è tale da rendere particolarmente difficile, faticoso e doloroso il processo di autoidentificazione. Soprattutto è deprivato della possibilità di avere una consapevolezza di sé. In questo senso io uso il termine alienazione. Alludo alla scissione tra il proprio corpo, la propria fisicità e la propria esistenza materiale da una parte e la possibilità di riflessione dall’altra. Il processo di alienazione che ha la sua radice nel lavoro di fabbrica, è riproposto identico a se stesso dentro i Centri.

Quale è il processo di arretramento dell’umano di cui lei è stato testimone? E se dovesse spiegare cosa sono i Centri di Identificazione ed Espulsione a qualcuno che non ne conosce l’esistenza, che parole sceglierebbe?
Direi che siamo in un non luogo per eccellenza. Ma, mentre la presenza di un non luogo cosi come viene analizzato da Mare Augè è il frutto di una scelta volontaria (per quanto manipolata possa essere), il Centro di Identificazione ed Espulsione non è il frutto in alcun modo di una scelta. E, invece, l’esito di un processo di reclusione, di internamento. Reclusione e internamento sono termini giuridicamente estranei alla natura dei Cie, ma materialmente di quello si tratta. Persone trattenute e internate, cioè messe a forza dentro un non luogo, e li recluse, cioè impedite nei movimenti. Ora, questo processo che si dà anche in altre situazioni, nei Centri di Identificazione ed Espulsione viene appesantito dal fatto che si vive in uno stato di totale non consapevolezza.

Ci sono stati momenti in cui il suo pensiero riguardo ai Cie ha vacillato?
Facciamo l’esempio piú sgradevole, quello meno allettante per lo sguardo umanitario. A Gradisca una buona parte dei trattenuti è formata da ex detenuti, alcuni responsabili anche di reati capaci di rappresentare allarme sociale. Tra gli altri, abbiamo incontrato un uomo accusato di traffico di esseri umani, cioè di essere uno scafista. E evidente che in questa situazione l’empatia umana vacilla terribilmente. In me magari un po’ meno che in altri, perché da qualche decennio sono abituato a considerare le persone per come esse sono in quel momento, non per il loro curriculum, criminale e non criminale. Però, si, non si può non vacillare di fronte a casi cosi estremi. Detto questo, bisogna analizzare bene la situazione. La maggioranza dei detenuti riteneva che, una volta scontata la pena, ci si trovasse liberi. Cosa che accade in tutto il mondo, in tutti i regimi. Invece qui cosa succede? Una volta scontata la pena, c’è la pena accessoria di una reclusione che non si chiama reclusione in un carcere che non è un carcere ma un Cie, dove si sta in attesa di essere identificati e espulsi. Se non si è identificati e espulsi (i casi che a noi è capitato di incontrare proprio a Gradisca), i 18 mesi si scontano tutti. Ora, a questa pena non prevista e non conosciuta, si aggiunge il fatto che quei 18 mesi sono un período variabile, che l’esito di quel trattenimento non è noto. Stiamo parlando quindi di persone che per un tempo variabile vivono in una condizione di totale smarrimento. Non sanno perché sono lì. Non sanno quanto staranno lì. Non sanno, una volta usciti, dove andranno. Se a ciò si aggiunge la vita quotidiana dentro il recinto del Cie, il termine alienazione è reso ancora più evidente, perché la vita quotidiana li dentro è tutta un vuoto, una terribile assenza. Non c’è la minima attività. Infine, le persone lî trattenute in una percentuale elevatissima consumano psicofarmaci. Quindi ad alienazione si aggiunge alienazione.

Rispetto agli episodi di rivolta di Gradisca, si tratta più di esempi di autolesionismo che di aggressione verso l’altro.
A Gradisca, abbiamo approfondito la questione e sembra che non ci sia stato contato fisico tra custodi e custoditi. E comunque, in genere il contrario è uno stereotipo. In tutti i luoghi chiusi, i cosiddetti episodi critici raccontano che la violenza contro se stessi è in larga parte più diffusa della violenza contro terzi. A ciò si aggiunga che una buona dose della violenza contro se stessi è di tipo dimostrativo, dichiaratorio. In parte è un calcolo razionale: esercitare violenza contro terzi significa precipitare in una situazione estremamente più vulnerabile, che i trattenuti dei Cie non possono permettersi di vivere. Ci sono reati che immediatamente posso essere imputati, c’è il rischio di avere guai fisici maggiori. Mentre l’atto di autolesionismo può essere controllato da chi ne è autore.

Lei si ritiene contrario alla costituzione stessa dei Cie. Ma dal momento che non solo esistono ma hanno già prodotto tutta la violenza di cui stiamo parlando, cosa bisogna fare: chiuderli, riformarli?
Necessariamente devo dare una risposta articolata. Come presidente di una Commissione istituzionale, posso dire che noi stiamo conducendo questa indagine: ai tre Cie che abbiamo gia visitato, se ne aggiungeranno altre tre (di sicuro Modena e Torino). Tutti i commissari senza eccezione rilevano lo stato dei Cie, facendo soprattutto attenzione allo scarso rispetto per i diritti umani e alle condizioni di vita che sono sempre deficitarie sotto il profilo igienico, sanitario. Quello che ho detto dopo Gradisca ritengo che possa essere condiviso dalla Commissione, ma non necessariamente tutti sono d’accordo sulla mia posizione, E quale è la mia posizione? Il Cie di Gradisca va chiuso, ma se cambiano radicalmente le condizioni, il Cie di Gradisca può continuare ad operare. La questione è sovranazionale e nazionale. La possibilita del trattenimento al fine di identificazione ed espulsione è un obbligo contratto dall’Italia rispetto all’Europa col trattato di Schengen. Ma le modalità di questo trattenimento sono poi affidate alle legislazioni nazionali. La necessita di trattenere qualcuno per identificarlo ed espellerlo, qualora venisse ritenuto giusto, non ha niente a che fare con le modalità di questi processi di identificazione ed espulsione, che possono essere sideralmente, incompa- rabilmente, incondizionatamente diversi da quelli attuati. Le modalità attuate all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione che io ho visitato sono definibili con una sola parola: schifo.

Il coma, le malattie, gli incidenti, le rivolte che accadono dentro questi luoghi recitanti, sono, lei l’ha ribadito piú volte, “un affare istituzionale”. Come si affronta giuridicamente quest’affare?
Bisognerebbe riformare con una normativa. I Cie sono stati definiti all’interno di una legge, quindi per modificarli ci vuole una legge. Anche se oggi ci potrebbero essere notevoli risultati anche con provvedimenti che passassero attraverso circolari del Ministero dell’Interno. Le ricordo che fino al mese di novembre del 2011 l’accesso ai Cie era limitato ai parlamentari nazionali. Persino i consiglierei regionali trovano e tuttora trovano (questo è successo anche a Gradisca) difficoltà. Nel novembre del 2011 l’allora ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri emise una circolare che prevedeva la libertà di accesso per i giornalisti: che ora non è incondizionata ma è ben piú ampia di allora. Le diverse burocrazie oppongono resistenze.

Perché le condizioni di vita/non vita dentro questi luoghi di trattenimento non interessano a nessuno?
Nell’immaginario collettivo, gli abitanti dei Cie non sono che uomini/rifiuti, che nessuno vuole vedere.
Stiamo parlando di due stigma che combinati insieme producono, nel migliore dei casi indifferenza e, nel piú corrente dei casi dei casi, ostilità. I due stigma sono straniero e criminale a poco vale spiegare che la componente ex detenuta è minoritaria. Nei Cie si trovano tre gruppi di trattenuti. Il primo gruppo è formato da richiedenti asilo che hanno presentato in ritardo o non hanno presentato proprio la richiesta per il riconoscimento dello status di rifugiato, ai fine della protezione internazionale. Il secondo gruppo è composto in misura notevole da persone titolari di un permesso di soggiorno per lavoro scaduto, con la conseguenza ine- vitabile dello scadere anche del permesso di soggiorno per sé e per i propri cari. A questo proposito, vorrei ricordare che il governo Monti ha protratto a dodici mesi il periodo di attesa di lavoro, prima che ciò comporti l’espulsione. Ma in un periodo di crisi economica come questo, dodici mesi sono pochissimi. Noi abbiamo verificato dei casi di persone residenti regolarmente in Italia da 15 anni che, una volta perso il lavoro sono spediti direttamente al Cie per essere identificati ed espulsi verso paesi di cui nulla piú sanno e nei quali piú nessun familiare esiste. Infine c’è una terza categoria di individui che non hanno commesso nessun reato e che semplicemente sono entrati in Italia irregolarmente o vi si sono trattenuti irregolarmente. Quindi la faccenda è compli- cata, ma si tende ad estendere lo stigma a tutti. Eppure non bisogna pescare molto in là nella nostra storia filogenetica per ricordarci di quando eravamo migranti noi, e di come è stata dura la vita per chi era considerato dagli “altri” poco più di un relitto.
Le rispondo con una citazione da Tacito: “Su ciò non posso aggiungere parole perché troppe ne ho dette