La vera vergogna

Alessandro Esposito
pastore valdese

Già prefiguro il profluvio di parole da cui oggi, 4 ottobre, saremo travolti e a cui anche queste mie, come le altre vane, vengono ad aggiungersi. In questa che ci ostiniamo ancora a chiamare civiltà e che di civile ha ben poco, l’indignazione ha il respiro corto e la commozione, telecomandata, dura lo spazio di un servizio televisivo.

Dinanzi a questa ennesima cronaca di una morte annunciata, reagiamo con uno stupore che non ha altro alibi se non l’ormai frusta indifferenza in cui conduciamo placidamente le nostre vite. Così ascoltiamo inebetiti, anziché attoniti, le dichiarazioni a caldo del nostro vice-premier, che invoca l’intervento dell’Unione Europea al solo scopo di proteggere le frontiere del nostro benessere: specchio fedele di quella mentalità da fort apache che ormai abbiamo assimilato e che sconcerta sempre meno.

Quello stesso Mediterraneo che per secoli ha costituito il luogo di incontro di civiltà e culture rappresenta oggi il guado a difesa di una fortezza arroccata e decadente che vive tormentata dal fantasma dell’assedio. Sulle cause di un’ecatombe che insanguina da decenni questo mare sempre più nostrum, nemmeno un accenno, sia pur vago. Ogni responsabilità viene declinata: meglio una contrizione di circostanza, un dolore dissimulato. È mediaticamente più efficace, si sa.

Nomi di Paesi che giacciono nell’oblio della coscienza e dei mezzi di (dis)informazione, come Somalia ed Eritrea, riaffiorano soltanto con i corpi straziati e senza vita dei loro cittadini: nulla conosciamo delle situazioni da cui fuggono, sempre che l’interrogativo ci attraversi le menti in altre faccende affaccendate. Noi, sempre a guardarci l’ombelico. Noi, che ad una crisi-farsa dedichiamo fiumi d’inchiostro, profondendo energie in dibattiti come la nostra civiltà stanchi ed esangui.

Quanto avvenuto per l’ennesima volta a pochi chilometri dalle nostre coste è stato definito una vergogna. Ma la vera vergogna è l’aridità disarmante di questa nostra «società del benessere», impenetrabile all’altro così come vorrebbero esserlo le sue frontiere fittizie eppur amaramente reali. Questa, a ben guardare, è la barca che da tempo ormai, silenziosa e mesta, sta lentamente inabissandosi.