Lampedusa. Nel mare dei morti i confini della nostra civiltà disumana

Antonio Cipriani
www.cronachelaiche.it

Un giorno i nostri figli, e i figli dei nostri figli, ci chiederanno conto di questa disumanità, di questa strage infinita. Ci guarderanno negli occhi e ci diranno: perché? Era questo il mondo migliore per il quale vi siete battuti? E nel loro perché vedremo scolpita nella storia la tragedia di questa epoca senza misericordia, tanto occupata a plastificare coscienze a farci discutere del niente in infiniti e retorici salottini televisivi. A occuparci la mente con un divertimento osceno, scantonando dalla via delle responsabilità, del senso civico, della solidarietà, potremmo dire parafrasando Don Milani. E dovremo chiederci, e dovremmo cominciare a farlo sin da adesso: che senso ha tutto questo? Come è possibile accettare che il Mediterraneo, il mare della nostra storia, della cultura che dovrebbe unire i mondi, si sia trasformato in un mare di morte, simbolo di confine e ferocia?

In trent’anni ci sono state ventimila vittime. Ventimila uomini, donne, bambini. Esseri umani in fuga: dalle guerre, dalla fame, dallo sfruttamento, dalla ferocia di un sistema che non possiamo fingere di non vedere. Che non possiamo accantonare nel retrobottega dell’etica che va per la maggiore nella politica e senso comune più bieco e razzista. Morti per una speranza di futuro. Non per il brivido dello sport estremo. Nomi e cognomi, famiglie, occhi, mani, figli. Umanità inghiottita dal mare. E da chi si limita a tradurre questa tragedia del tempo in un fenomeno da ordine pubblico, con respingimenti e leggi repressive. “Il sovraffollamento delle strutture, la carenza di assistenza di base, la privazione dei diritti fondamentali, oltre a essere una vergogna per un Paese che si vuole definire civile, comportano inevitabilmente l’inasprirsi del disagio e della violenza. Grave è anche la mancanza di un progetto di accoglienza: migliaia di persone vengono lasciate marcire in condizioni disumane, senza prospettive, senza speranze, senza sapere cosa succederà di loro. A fare le spese di questa situazione, insieme ai migranti, sono ovviamente i cittadini italiani, lasciati pressoché soli a gestire tutti i problemi che una politica miope e disumana ha creato”, questa la testimonianza di Emergency.

Chi muore e chi sopravvive al mare per un futuro nel nostro Paese. E allora, quando i media accantonano la notizia di cronaca che fa il bilancio dei morti nell’ultimo incidente, restano i luoghi di contenimento. E per chi è fuori il destino di lavoratori trattati come schiavi, senza accesso all’acqua potabile, senza una casa, senza assistenza medica, senza diritti. E non è che non lo sappiamo. Li vediamo con i nostri occhi nelle nostre città, nelle campagne del Sud. A Rosarno, ricordate? Trattati come bestie. Senza che una legge, né scritta né umana, intervenga per dire che gli stranieri, i clandestini, i migranti stagionali sono semplicemente persone.

Per ricordarcene, ribadisco quello che qualche giorno fa abbiamo pubblicato su Globalist: la lettera aperta di Daniela, medico di Emergency a Siracusa che dopo aver curato madre incinta e figlia ustionate da un incendio su una barca della speranza, ha scritto: “Tibia si siede di fronte a me e inizia a fare un disegno, una casa, un albero, il sole, una nuvola bianca, tre persone: i bambini, ovunque siano nati, qualunque sia il colore della loro pelle disegnano sempre una casa un albero il sole una nuvola bianca e delle persone…”.

Questo dimentichiamo. E questo ci chiederanno i nostri figli e nipoti. Perché questa ferocia? Che cosa manca alla nostra civiltà per creare accoglienza? Per operare nella giustizia sociale, evitando di depredare i paesi del Sud del mondo, evitando di accendere guerre e vendere armi. Evitando di esasperare le cause che fanno scegliere a queste persone fragili di rischiare la vita per poter avere una speranza di sopravvivere oltre il nostro mare.

Siamo nell’epoca oscura. Ed è proprio di notte che è bello credere nella luce, che ci si deve battere per la luce, sapendo che non esiste una notte così lunga da impedire al sole di risorgere.

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Le profittevoli stragi, le inutili parole

Alberto Capece Minutolo
ilsimplicissimus2.wordpress.com

E’ davvero un peccato che le parole non possano essere usate come concime, perché il compost di ipocrisie, idiozie, flatus vocis di vergogna e dichiarazioni rituali che ha suscitato questa ennesima tragedia della migrazione non può essere usato per fecondare la terra, ma solo per confondere le menti e trascinare l’etica del discorso, come avrebbe detto Habermas, verso nuovi traguardi di complicità. Si potrebbe far notare che il giorno dopo l’ambigua e non decisiva sconfitta di Berlusconi, il mare e Lampedusa si incaricano di ricordarci che da 11 anni c’è una legge Bossi – Fini, esorcizzata a parole da chi è attualmente al governo, ma mai cambiata anche quando ce ne sarebbe stata l’occasione e l’opportunità.

Però si tratta solo di un peccato veniale perché quella normativa pensata a suo tempo dai luogotenenti di Berlusconi, i diversamente Alba Dorata del leghismo e dell’ex fascismo, è solo una delle cause efficienti della nuova tragedia. Le cause reali sono altrove, molto lontane dal mare e risiedono precisamente nelle filosofie che guidano l’azione di governo e la ricerca di formulazioni stabili per realizzarle. Le migrazioni non avvengono per caso, sono semplicemente un aspetto particolare della libertà del profitto da ogni vincolo e della progressiva riduzione del lavoro a servitù della gleba: cercare di fermarle con trattati, legislazioni, cooperazioni è una pura illusione. Tutte le volte che viene cancellata una tutela sul lavoro, che si affossano le pensioni, che si fa scempio della Costituzione in nome dell’austerità non si fa altro che mettere carburante dentro un meccanismo di circolazione che ha bisogno dei migranti e dunque dei sacrifici umani agli dèi liberisti.

Prima si massacra il sud del mondo e in particolare l’Africa per procurarsi materie prime a quattro soldi, appoggiando i più desolanti regimi tribali o tirannici che rendano possibile la predazione intensiva del territorio oppure si disgregano i legami sociali per potersi impadronire di territori strategici o ancora si fanno guerre “umanitarie” per nome e per conto delle corporation. Così si creano enormi masse di diseredati e perseguitati la cui unica possibilità è fuggire. Poi si riciclano queste stesse vittime del profitto ad ogni costo “importandole” nelle società sviluppate per sfruttare la loro disperazione e la disponibilità ad essere i nuovi schiavi. Il loro utilizzo diretto nei cantieri e nei campi è tuttavia solo secondario: lo scopo finale è quello di ricattare i lavoratori autoctoni costringendoli a sempre maggiori cedimenti, alla ritirata dalle vecchie conquiste, alla precarietà e alla guerra tra poveri, mettendo in piedi un effetto domino che dalle attività meno specializzate arriva via via sempre più in alto. Ogni volta che si parla di competitività in questi termini rozzi e volgari, cioè praticamente ogni giorno, non si fa altro che sottrarre un fiore dall’immenso cimitero del Mediterraneo. Non si fa altro che tradire il cinismo e la futilità delle buone intenzioni: come la denuncia della “globalizzazione dell’indifferenza” che rimane solo una frase ad effetto o l’ancor più vuoto “stroncare il traffico” tratto dalla dal vocabolario buroipocrita di stampo quirinalizio.

Non c’è ovviamente bisogno di un ufficio apposito o di un progetto o di grandi vecchi: basta semplicemente imporre una logica, una visione del mondo “profit oriented” e gli uomini correranno come topolini nel dedalo, senza avere alcuna idea di dove vanno. Si può essere sufficientemente cretini come Alfano che come epitaffio ai 300 morti nota che questi disgraziati si erano messi in viaggio senza l’iphone, peccato mortale tra i sedicenti neo moderni o abbastanza confusi da gridare vergogna senza saper dove dirigere l’invettiva, ma tutti seguiranno il loro corridoio senza avere una pianta generale del labirinto. Del resto è questo il segreto dei nuovi tempi: spezzare con il rumore di fondo la connessione delle cose, permettere solo correlazioni limitate per impedire uno sguardo d’insieme e la direzione generale che prendono gli eventi.

Così le tragedie sono sempre orfane: e i loro padri sono impegnati nelle belle e inutili parole delle esequie.