Non più costrette a trasmettere malattie (genetiche)

Simona Maggiorelli
simonamaggiorelli.com

Il tribunale civile di Roma ha dato il via libera alla diagnosi pre impianto a spese del sistema sanitario nazionale in applicazione della sentenza Corte di Strasburgo che nello scorso febbraio ha respinto il ricorso avanzato dal governo Monti e ha condannato in via definitiva l’Italia per violazione dei diritti umani. È la prima volta che un tribunale ordinario sovverte quanto stabilito dalla legge 40/2004 sulla fecondazione assistita in tema di diagnosi pre impianto. La norma infatti non permette a coppie fertili e portatrici di malattie genetiche di accedere a esami diagnostici fondamentali per poter evitare la trasmissione della malattia al nascituro.

A dare questo ulteriore colpo alla legge 40 (dopo la sentenza europea e quelle italiane pronunciate dalla Consulta e da vari tribunali) è stato il giudice Donatella Galterio, della prima sezione civile del tribunale di Roma, che ha accolto il ricorso con il quale la coppia romana Costa-Pavan, portatrice sana di fibrosi cistica, chiedeva, in vista di una fecondazione assistita, di poter effettuare la diagnosi pre impianto a spese del servizio sanitario nazionale. Il Tribunale di Roma, in sintesi, ritiene che proprio attraverso la diagnosi pre impianto venga tutelato tanto il diritto all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti quanto il diritto alla salute fisica e psichica della donna che se dovesse subire l’impianto di embrioni geneticamente malati potrebbe andare incontro ad aborto o a vere e proprie patologie.

«Una sentenza importantissima», sottolinea il segretario dell’associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo dal congresso della associazione per la libertà di ricerca in programma ad Orvieto fino al 29 settembre, «perché per la prima volta la legge 40 viene fattivamente disapplicata facendo seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. E ora non c’è più la necessità di attendere un intervento della Corte costituzionale».

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Comitato nazionale di bioetica, nuovo mandato vecchi protagonisti?

Federico Tulli
www.cronachelaiche.it

La crisi di governo rischia di tenere artificialmente in vita il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) il cui mandato, già prorogato a sorpresa nel 2010, è scaduto il 30 settembre. L’attuale organo consultivo sui temi bioetici, nominato dalla presidenza del Consiglio dei ministri, è retto sin dal 2006 dal costituzionalista Francesco Paolo Casavola.
E le sue possibilità di sopravvivenza sono buone, non solo perché in questo momento Enrico Letta ha altro a cui pensare. Se guardiamo ai numeri, con oltre 40 documenti adottati in sette anni (tra pareri, mozioni e risposte), l’attuale Comitato risulta infatti uno dei più prolifici tra tutti quelli che si sono succeduti dal 1990 in poi. Tanti i temi trattati anche se non tutti di spiccata rilevanza bioetica (come nel caso del parere sulla chirurgia estetica). Tra questi ricordiamo, l’etica delle neuroscienze, l’obiezione di coscienza, equità di accesso alla salute, etica della sperimentazione clinica controllata, bioetica e scuola, carcere: suicidio e autolesionismo, donazione del corpo post mortem a fini di studio e ricerca. I pareri del Cnb non sono vincolanti per Palazzo Chigi ma sono più volte entrati nel dibattito politico, specie per quanto riguarda le decisioni sul testamento biologico.

Destò non poche perplessità nel 2009 la creazione di un gruppo di lavoro sui “Criteri di determinazione della morte” nonostante il parere contrario di 16 componenti. I quali senza tanti giri di parole dissero che non c’erano fatti nuovi tali da giustificare l’apertura di un dibattito sui criteri dei protocolli di Harvard del 1969, che ancora oggi ispirano la maggior parte delle legislazioni in materia di accertamento della morte cerebrale. A battezzare il gruppo di lavoro fu la storica contemporanea Lucetta Scaraffia, autrice di un famoso articolo pubblicato a novembre 2008 sull’Osservatore Romano, in cui rispolverava le tesi “anti-Harvard” (e antiscientifiche) del filosofo Hans Jonas, secondo il quale non si potrà mai sapere cosa avviene nel passaggio dalla vita alla morte. Un’opposizione all’idea di morte cerebrale che combaciava con la linea ideologica adottata dal governo Berlusconi nel 2009 durante le fasi finali della vicenda di Eluana Englaro e che si materializzò nell’idea di fondo della proposta di legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento fortunatamente arenatasi in Parlamento.

Ma negli ultimi anni non sono mancate vibranti polemiche anche in seno allo stesso Cnb, data l’elevata delicatezza dei temi trattati. A cominciare dall’anomalo defenestramento dei suoi tre vice presidenti Cinzia Caporale, Luca Marini e la neo senatrice a vita Elena Cattaneo, avvenuto nel 2007, durante l’ultimo governo Prodi, per aver criticato la gestione Casavola non propriamente incline a trattare secondo criteri di laicità le questioni da valutare. I tre, nel gennaio 2009, furono reintegrati dopo il ricorso al Tar vinto da Marini (anche se la Cattaneo si era nel frattempo dimessa dal Cnb). Proprio Marini, che fu l’artefice di quel ricorso, in questi giorni è divenuto il coordinatore del primo Comitato etico creato all’Università La Sapienza di Roma. Per la precisione all’interno della facoltà di Economia retta dall’economista Giuseppe Ciccarone.

Un reintegro che non scalfì la linea di Casavola se solo un anno dopo il ginecologo Carlo Flamigni nel commentare il parere su Bioetica e formazione nel mondo della scuola, disse senza tanti giri di parole: «Quasi tutti i documenti del Cnb sono documenti di “bioetica cattolica”». Il “padre” italiano della fecondazione assistita fu l’unico componente del gruppo di lavoro del Comitato a votare contro l’approvazione del testo finale che serviva a tracciare il percorso per l’insegnamento della bioetica nelle scuole superiori, come prevede un protocollo siglato il 15 luglio 2010 con il ministero dell’Istruzione. Nel testo il Cnb raccomandava che l’educazione alla bioetica fosse condotta «nel rispetto dei valori etici fondamentali in una società pluralista e democratica». Flamigni, ricordando che tra i 41 componenti del Cnb non c’è un solo buddista, musulmano o protestante, osservò che non ci voleva molto per capire a quali «valori etici» si riferisse il Comitato presieduto da Casavola. Paventando il rischio, nemmeno troppo remoto, che qualche insegnante si sentisse autorizzato a spacciare per nozioni scientifiche giudizi di natura etica. Il tutto in aperto contrasto con la sentenza 203/1989 della Corte costituzionale che ha definito la laicità un «principio supremo dello Stato». Corte di cui Casavola è presidente emerito.