Tra papa Francesco e settori tradizionalisti è gelo profondo

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 34 del 05/10/2013

Che papa Francesco non piaccia a lefebvriani e tradizionalisti è pacifico. Lo stile dimesso e per nulla ieratico, l’umiltà ostentata, le modalità anticonvenzionali, il registro informale dei suoi discorsi, i gesti di grande impatto emotivo e mediatico come la visita a Lampedusa o il messaggio inviato ai musulmani di tutto il mondo per la fine del Ramadan non sono in alcun modo assimilabili alla visione verticistica, sacrale ed autoritaria del ruolo del pontefice dei seguaci ed estimatori del vescovo Lefebvre.

Ma anche a papa Francesco i lefebvriani ed i gruppi più tradizionalisti della Chiesa sembrano stare oggi sempre più “stretti”, costituire cioè un impaccio al suo pontificato, piuttosto che una risorsa. Tutto il contrario di quanto era avvenuto sotto Benedetto XVI, che li aveva vezzeggiati ed accontentati nelle loro rivendicazioni, facendo del riavvicinamento alla Fraternità San Pio X uno degli assi portanti del suo pontificato, nella prospettiva di restituire alla Chiesa, attraverso il ritorno ad una severa e rigida dottrina, liturgia, pastorale, quella credibilità, quella centralità e quella autorevolezza che pareva irrimediabilmente perduta, travolta dagli scandali, dalla secolarizzazione, dalle lotte intestine.

Quella strategia non solo si è rivelata perdente, ma addirittura controproducente. Soprattutto quando, nel gennaio del 2009, Ratzinger decise di revocare la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, tra i quali anche quel Williamson che in precedenti interviste aveva negato la Shoah; e ancora quando, poco meno di due anni prima, alla fine del 2007, optò per la liberalizzazione della messa in lingua latina, che a molti nel mondo cattolico parve una rottura senza precedenti con lo spirito della riforma liturgica postconciliare. Si era arrivati più volte ad un passo dalla definitiva riconciliazione con i seguaci di Lefebvre, con la clamorosa proposta di concedere alla Fraternità San Pio X ciò che solo l’Opus Dei aveva ottenuto nel recente passato: la prelatura personale.

Con papa Francesco sembra che da quei tempi (e da quella prospettiva) siano passati secoli, e non mesi. «Quella roba se la metta lei, monsignore. Il tempo delle carnevalate è finito», si dice (specie negli ambienti tradizionalisti) abbia detto papa Francesco al maestro delle cerimonie pontificie, mons. Guido Marini quando quest’ultimo lo ha invitato ad indossare gli abiti pontificali da sempre utilizzati dai papi nel corso della prima messa celebrata nella Cappella Sistina. Al di là delle parole effettivamente pronunciate, non c’è dubbio che oggi per Bergoglio la carta vincente per riconquistare un’opinione pubblica laica e cattolica tiepida se non apertamente critica verso l’establishment cattolico sia quella di dismettere i panni della difesa ad oltranze della tradizione e della dottrina, specie nelle sue manifestazioni più evidenti (messa in latino, ma anche pronunciamenti su gay, divorziati, aborto) e quindi di più vasto impatto.

Bergoglio, infatti, è un “papa d’emergenza”, scelto dal Conclave come risposta ad un periodo tra i più critici che la Chiesa cattolica contemporanea abbia mai vissuto. La sua azione deve perciò essenzialmente mirare a mostrare una Chiesa aperta, generosa, compassionevole, umile e povera; e soprattutto al passo con i tempi. In un contesto del genere, per lo sfarzo tridentino, i riti solenni, le liturgie in latino, l’arcigna condanna della modernità e della secolarizzazione tipica dei gruppi tradizionalisti sembra non esserci più spazio. Una linea che pare condivisa anche da molti tra i settori più conservatori della Chiesa, consapevoli che cambiare le forme è l’unico modo per tentare di mantenere il più possibile inalterata la sostanza. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che siano oggi l’Opus Dei e i Cavalieri di Malta le lobby cattoliche che più sostengono la necessità di una riforma dello Ior (come ha evidenziato anche la defenestrazione dell’opusdeista Ettore Gotti Tedeschi, nel 2012).

Strategia che ha però messo all’angolo i settori meno disponibili al cambiamento e al rinnovamento generazionale. E che sta creando più di qualche mugugno tra prelati, intellettuali e uomini di Chiesa vicini ai tradizionalisti. Anche perché molti uomini di Curia, formatisi alla scuola del card. Siri e con radicate simpatie tridentine, erano stati promossi in ruoli non marginali da Benedetto XVI. E sono ora marginalizzati da papa Francesco. Primo fra tutti Mauro Piacenza, giunto a guidare la Congregazione per il Clero e appena trasferito alla Penitenzieria apostolica.

Un segno di questa tensione crescente è il caso dei Francescani dell’Immacolata, Istituto nato negli anni Settanta, che si rifà al Poverello d’Assisi e a san Massimiliano Kolbe. Non assimilabili all’area tradizionalista, hanno però subìto una notevole svolta a “destra” negli ultimi anni, da quando, per volere del loro fondatore, p. Stefano Manelli, dopo la promulgazione del motu proprio di Benedetto XVI, la liturgia tridentina è stata liberalizzata nei conventi dell’Istituto religioso. Nel corso del Capitolo generale del 2008, padre Manelli aveva infatti provato a introdurre una revisione delle Costituzioni dell’Istituto per rendere obbligatorio il vecchio rito nelle messe conventuali. Ma la forte opposizione lo aveva indotto a non mettere nemmeno ai voti la proposta. Eppure, nei tre anni successivi, l’uso del messale preconciliare era stato suggerito e talvolta in qualche modo imposto, pur in assenza di norme scritte o di decisioni del Capitolo generale.

Di qui, a seguito delle proteste di molti religiosi, la decisione – datata 5 luglio 2012 – da parte della Congregazione per i religiosi, di disporre una visita apostolica all’Istituto, cui è seguita, nell’agosto di quest’anno, la decisione di papa Francesco di commissariare i Francescani dell’Immacolata, come richiesto dal dicastero vaticano. Una decisione che ha messo in subbuglio gruppi, siti e blog tradizionalisti, che da mesi parlano della vicenda ritenendola la pietra tombale del dialogo avviato sotto Benedetto XVI.

Il 14 settembre (anniversario della entrata in vigore del motu proprio Summorum Pontificum) quattro studiosi cattolici vicini alla destra ecclesiale hanno scritto un “esposto” a papa Francesco perché intervenga a favore dei Frati della Immacolata, colpiti nella loro “libertà” di celebrare. A rilanciare ed amplificare la notizia anche presso l’opinione pubblica non tradizionalista è stato – e non pare casuale – il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, molto vicino al card. Camillo Ruini, che non ha nascosto il suo sostegno all’iniziativa.

Nel documento, si afferma che il provvedimento di censura contro i Francescani dell’Immacolata avrebbe compromesso la loro «libertà di celebrare la messa in rito antico che papa Joseph Ratzinger aveva assicurato a tutti col motu proprio Summorum pontificum». In realtà il motu proprio di Ratzinger, pur liberalizzando l’antico rito, stabilisce rigide condizioni affinché esso possa essere celebrato pubblicamente. «Solo “ogni singolo presbitero”, e solo quando celebra “sine populo”, può essere libero di farlo indifferentemente con il Vetus Ordo o il Novus Ordo, ma questo non vale mai per una comunità (parrocchiale o religiosa che sia)», ha sottolineato infatti il liturgista Andrea Grillo sul suo blog (http://grilloroma.blogspot.it/).

In questo senso, continua Grillo, «non stupisce che i quattro firmatari, nel difendere una posizione indifendibile, argomentino solo sulla base di una lettura del motu proprio del tutto astratta dalle concrete condizioni di esercizio di una normale vita pastorale o religiosa. Che a loro naturalmente non interessa, anzi disturba».