Usa e Iran, le paure di Israele

Michele Paris
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Con il discorso del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è chiusa martedì a New York un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dominata dall’offensiva diplomatica dell’Iran, culminata con lo storico colloquio telefonico della scorsa settimana tra Barack Obama e il nuovo presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rouhani.

Le fondamenta appena gettate di un dialogo diretto tra Washington e Teheran per una possibile risoluzione dell’annosa questione del nucleare iraniano hanno scatenato una valanga di commenti e interrogativi tra i commentatori di tutto il mondo, mentre gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente non hanno tardato a manifestare tutta la loro opposizione ad una soluzione pacifica della crisi, a cominciare dal governo di Tel Aviv che ha salutato le prove di distensione con reazioni al limite dell’isteria.

Come era ampiamente prevedibile, al Palazzo di Vetro Netanyahu ha sostanzialmente ribadito le dichiarazioni allarmate degli scorsi anni sull’avanzamento del programma nucleare iraniano che, a suo dire e senza nessuna prova, starebbe procedendo verso la costruzione di armi atomiche. Secondo il premier ultra-conservatore israeliano, anzi, l’atteggiamento conciliante della delegazione di Teheran a New York sarebbe servito proprio a fuorviare la comunità internazionale per guadagnare tempo ed evitare attacchi militari contro le proprie installazioni nucleari.

Il giorno precedente l’intervento all’Onu, inoltre, lo stesso Netanyahu aveva incontrato Obama alla Casa Bianca, al quale aveva chiesto di mantenere ferma la minaccia militare e di non abolire le sanzioni economiche contro l’Iran. Da parte sua, il presidente democratico aveva cercato di dare un’immagine di unità con l’alleato, così da non allarmare ulteriormente i sostenitori dello Stato ebraico a Washington, sui quali Tel Aviv conta per far naufragare i negoziati che stanno per aprirsi.

Obama ha così ripetuto il consueto ritornello che accompagna praticamente ogni dichiarazione ufficiale americana sull’Iran e cioè che “tutte le opzioni rimangono sul tavolo” in relazione alla Repubblica Islamica, compresa quella militare, aggiungendo poi che la disponibilità mostrata nei giorni scorsi da Rouhani e dal suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, dovrà essere seguita da atti concreti.

Nonostante le difficoltà e le forti pressioni a non abbandonare la linea dura nei confronti di Teheran sia da parte degli ambienti filo-israeliani che dei falchi “neo-con”, l’amministrazione Obama sembra intenzionata a proseguire sul cammino del dialogo con l’Iran, cogliendo l’occasione scaturita dall’elezione a giugno del moderato Rouhani e, soprattutto, dalla necessità di questo paese di allentare al più presto la morsa delle sanzioni che ne stanno strozzando l’economia.

La decisione di Washington, tuttavia, non è scaturita da un’improvvisa volontà di riconoscere i diritti e le legittime aspirazioni iraniane, ma è piuttosto la conseguenza di una scelta strategica obbligata seguita al fallimento del progetto bellico preparato per la Siria. In altre parole, l’impossibilità di risolvere con un’aggressione militare la crisi siriana, a causa di una fortissima opposizione popolare e della fermezza degli alleati di Damasco – a cominciare dalla Russia – nel non lasciare mano libera alla macchina da guerra USA, ha spinto gli Stati Uniti dapprima ad accettare la proposta di Mosca sullo smantellamento delle armi chimiche di Assad e successivamente a rispondere positivamente alle aperture iraniane.

La battaglia condotta per procura contro il regime siriano rientra d’altra parte in un disegno più ampio per il Medio Oriente che ha appunto al centro la Repubblica Islamica e il tentativo ultimo di forzare un cambio di regime a Teheran. Se, dunque, gli USA fossero riusciti nello scatenare l’ennesima “guerra umanitaria” rimuovendo Assad in Siria, la loro attenzione si sarebbe inevitabilmente rivolta all’altro caposaldo della “resistenza” nella regione, vale a dire l’Iran.

Con i piani di guerra almeno momentaneamente frustrati, invece, l’amministrazione democratica di Washington si è vista pressoché costretta ad optare per la diplomazia e a trattare con un governo da poco insediato e ben intenzionato ad ottenere un rilassamento delle sanzioni in cambio di concessioni non ancora messe sul tavolo.

Viste poi le disastrose conseguenze di un eventuale conflitto diretto con l’Iran, gli Stati Uniti hanno con ogni probabilità ritenuto di potere ottenere maggiori vantaggi attraverso un qualche dialogo con Teheran, dove a condurre i giochi è oggi una leadership pragmatica e moderata. Sul medio o lungo periodo, infine, il ristabilimento di relazioni normali con un paese che dispone di ingenti risorse energetiche potrebbe servire anche a limitare la partnership che lo lega ai rivali degli USA in Medio Oriente: Cina e, soprattutto, Russia.

In ogni caso, nonostante i rapporti tra i due rivali storici abbiano raggiunto in queste settimane livelli mai visti negli ultimi tre decenni, la delegazione americana che si appresta a recarsi a Ginevra a metà ottobre per il nuovo round dei colloqui sul nucleare sarà ancora una volta ben decisa ad estrarre dagli iraniani le condizioni più favorevoli possibili per Washington e i suoi alleati.

Come sanno bene a Teheran, la necessità degli Stati Uniti di far prevalere i propri interessi su qualsiasi ambizione iraniana e le resistenze ad ogni forma di distensione manifestate da più parti rendono comunque particolarmente accidentato il percorso che potrebbe portare ad un accordo diplomatico in tempi brevi.

Se il Senato di Washington ha infatti deciso di attendere dopo l’incontro tra i P5+1 e i rappresentanti iraniani a Ginevra per discutere in aula il nuovo pesantissimo pacchetto di sanzioni economiche contro Teheran approvato a larghissima maggioranza dalla Camera dei Rappresentanti a fine luglio, queste stesse misure continuano ad essere minacciosamente presenti nel dibattito sull’Iran e, come ha scritto mercoledì la Associated Press citando alcuni membri del Congresso, la loro implementazione sembra “probabile nonostante il disgelo tra i due paesi”.

Sul Congresso confida anche il governo israeliano per ostacolare il processo distensivo in atto, in particolare utilizzando l’attività delle lobbies che rappresentano gli interessi di Tel Aviv a Washington. Proprio il ruolo del Congresso risulterà decisivo, visto che la Camera e il Senato hanno approvato in questi anni le sanzioni economiche in vigore ai danni di Teheran e un’eventuale soppressione dovrà passare nuovamente da un voto dei due rami del parlamento americano. I poteri del presidente, in questo ambito, sono invece limitati alla possibilità di sospendere temporaneamente le sanzioni già esistenti.

Israele stesso, inoltre, nel suo intento di impedire in tutti i modi non tanto l’avanzata di un inesistente programma nucleare a scopi militari quanto l’emergere dell’Iran come legittima potenza regionale che minacci la propria supremazia in Medio Oriente, potrebbe mettere in atto provocazioni per boicottare il dialogo, come conferma il più che sospetto arresto annunciato domenica scorsa di una presunta spia iraniana, guarda caso in possesso di immagini dell’ambasciata statunitense a Tel Aviv.

Da parte della Repubblica Islamica, infine, il mandato di Rouhani per trovare un accordo con gli Stati Uniti e l’Occidente appare sempre più legittimato dall’establishment conservatore che fa capo alla Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei.

Dagli ambienti più intransigenti stanno in realtà giungendo alcune critiche nei confronti di qualsiasi apertura agli USA ma, per il momento, i vari centri del potere in Iran sembrano approvare, o quanto meno tollerare, il tentativo del neo-presidente, a riprova delle profonde apprensioni create dalle sanzioni per una possibile esplosione delle tensioni sociali nel paese.

Un attestato della fiducia riposta in Rouhani è giunta così questa settimana al suo rientro da New York, quando 230 dei 290 membri del parlamento iraniano – dominato da fedelissimi di Khamenei – ha firmato una dichiarazione nella quale viene espressa completa approvazione per il tentativo di “discutere e stabilire contatti allo scopo di risolvere le questioni regionali e internazionali”.

L’Iran, in definitiva, sembra unito nella ricerca di un dialogo con i propri rivali storici e toccherà perciò ora a questi ultimi accettare la sfida e trattare finalmente con i leader di questo paese su un piano di uguaglianza.