Lampedusa, dopo l’ultimo orrore

Federica Tourn
www.vociprotestanti.it

Brava la sindaca Giusy Nicolini che scrive al governo e protesta di essere stata lasciata sola, splendida la proposta del nobel per la pace a Lampedusa; cattivissimi e stolidi, ridicoli nei loro completi scuri, tutti i politici in doverosa sfilata davanti alle bare dell’ultima – ormai penultima – tragedia delle morti in mare dei migranti che fuggono da paesi feroci, dalle guerre, dalla fame.

Noi, indignati – per quel che significa – davanti a facebook. Qualche giorno fa girava la notizia di una donna morta con accanto il suo bambino appena nato, morto anche lui, ancora legati dal cordone ombelicale; forse qualcuno addirittura ne proponeva la foto sul social network, “estremo tentativo di sensibilizzare”, l’ultimo in ordine di tempo di tentativi simili, tutti con un posto nella nostra personale galleria degli orrori, inutile e crudele corpo esposto al voyeurismo pietoso di chi sta al caldo e comunque spegnerà il pc per andare a mangiare i cappelletti caldi in questa piovosa giornata d’autunno.

Io non ho bisogno di vedere come è fatta una donna cha ha appena partorito, io lo so per esserlo stata, so il dolore, lo sgomento, la paura di non farcela, l’energia, la forza e la gioia del parto; so come è fatto un bambino appena nato, il suo calore, la sua vulnerabilità e l’estrema inspiegata meraviglia della vita che si rinnova. So, senza saperla dire, la riconoscenza e la felicità senza misura che si prova a prenderlo fra le braccia e attaccarlo al seno, ancora con il cordone che ci lega: lui, venuto dal tuo corpo e ormai irrimediabilmente altro da te.

Quello che non so è la paura di lasciarlo nel freddo, nelle grida, nell’acqua, il terrore della morte e di non saperlo – non poterlo proteggere. Non so come la gioia si possa rovesciare in orrore; e non serve un’immagine per farmelo sapere. Noi non sappiamo immedesimarci nel dolore di chi muore in mare: non sappiamo perché non possiamo sapere; non sappiamo perché non abbiamo condiviso con chi è morto nemmeno un nome e una storia – chi era la madre, come si chiamava? e il bimbo? o era una bambina?

Io non ho visto morti di guerra o di fame e di malattie nella mia vita: sono stata fortunata, poche generazioni in pochissimi paesi del mondo possono dire lo stesso. Ho messo appena un piede in un paese in guerra, la Siria, in tempo per vedere resti di ordigni esplosi di cui non ho voluto imparare il nome e bambini dentro campi profughi che mi hanno preso per mano e regalato caramelle; in altri campi ho visto rassegnazione e dolore, ragazzi mutilati e invalidi per sempre e un neonato bellissimo appoggiato sulla terra, accanto alla tenda dove erano costretti a vivere i suoi genitori e i suoi fratelli dividendo in otto un mezzo secchiello di riso e brodo. E mi è bastato per tornare in Italia e vedere per la strada venirmi incontro persone senza braccia e ricordare con pena (per me) una bambina che non ho rivestito.

Allora, se mi immagino morta con il mio bambino accanto, penso che non voglio migliaia di occhi a guardarmi da una fotografia in un lancio di Ansa; voglio un sudario, voglio un silenzio piuttosto. Non basta il nostro commuoverci pietoso che passa poi subito alla notizia successiva; non basta, non serve, offende persino. Ci vuole almeno una narrazione: se non possiamo fare altro, almeno riprendiamo a raccontare quello che succede, ma non per tweet o status, raccontiamo le storie per esteso, andiamo a raccogliere i nomi, quei pochi che possiamo, testimoni muti di una disuguaglianza di vite di cui siamo anche noi responsabili.

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Lampedusa. «Non ruberete il vostro pane all’affamato e la vostra benedizione allo sfortunato»

Davide Rosso

«Tutti i giorni pensate alle persone erranti che vorrebbero tornare alle loro rovine. Voi rubereste la vostra accoglienza a questi miserabili se la consideraste anche solo per un istante come una cosa scontata, su cui non bisogna riflettere, come un qualcosa che semplicemente vi appartiene e che avete conservato non si sa bene perché. Non private («non derubate») del vostro conforto questi sfortunati dimenticandoli anche per un solo giorno. Pensate tutti i giorni a tutti quanti quelli che non ritroveranno il loro lavoro, voi a cui delle ore di lavoro sono ancora concesse. Non ruberete il vostro lavoro al disoccupato. Non ruberete il vostro pane all’affamato e la vostra benedizione allo sfortunato».

Sono parole che il pastore Roland de Pury disse nella chiesa riformata di Lione in una predicazione su Esodo 20,15 («Non rubare») il 14 luglio del 1940. Il contesto che aveva di fronte non era quello di oggi della crisi economica, dei migranti che cercano lavoro e/o una vita nuova al di qua delle sponde del Mediterraneo o che fuggono la guerra e le persecuzioni nel loro paese. La realtà di quel momento era la guerra in Europa, gli ebrei che cercavano di sfuggire alla barbarie (de Pury ne salvò parecchi ed ha ricevuto per questo nel 1976 la medaglia di «Giusto fra le nazioni»); la realtà che aveva di fronte mentre predicava era quella dei milioni di profughi che a causa della guerra e della stupidità umana avevano perso la casa, il lavoro, avevano fame e cercavano accoglienza.

Storie drammatiche che de Pury incrocia nel suo percorso di pastore e a cui si apre in prima persona, e non solo a parole. Cerca di fare, di ascoltare, di invitare gli altri cristiani innanzitutto a prendere a loro volta posizione e a mobilitarsi per chi è profugo, errante e apparentemente senza futuro, magari anche rischiando là dove è necessario. E tutto questo farlo «per non rubare la dignità e la speranza al prossimo», perché il comandamento ci dice che «non deruberemo la nostra vita a Dio e parimenti non deruberemo la nostra vita ai nostri fratelli e alle nostre sorelle».

Parole attuali su cui vale la pena di continuare a riflettere anche oggi a più di 70 anni di distanza.

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