Lo stupro, arma di guerra. La parola, terapia e salvezza

Serena Danna
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«Non potevo stare ferma dal momento che sono una donna, per di più una donna con un grande potere tra le mani: i media. Ho deciso di usarlo per cambiare le cose. Vedere che stanno cambiando è la conquista più grande». Chouchou Namegabe, 35 anni, è una giornalista congolese impegnata a raccontare quello che succede nella sua terra tormentata, dove il corpo delle donne è diventato un terreno su cui si combatte una delle tante guerre dimenticate dal mondo. Ha appena ricevuto il premio Anna Politkovskaja per il giornalismo di inchiesta al Festival della rivista Internazionale a Ferrara.

È arrivata in Italia con la sua bambina, abiti tradizionali che esibisce fiera durante gli incontri e la voglia di condividere con il mondo la sua battaglia. Parla con voce bassa, negli occhi la dolcezza di chi deve insegnare alle donne della sua comunità a non avere paura.

Con il tempo la fiducia è arrivata.

Quando, agli inizi del 2000, da poco giunta a Radio Maendeleo, una stazione radiofonica di Bukavu, nella provincia del Kivu Sud, ha cominciato “a dare il microfono alle donne violentate”, non esisteva neanche la parola stupro nella lingua locale, la giornalista ha dovuto prenderla in prestito dalla vicina Tanzania: ubakaji. «Non volevano parlare – spiega – perché temevano di essere respinte dalla comunità: lo stupro era un tabù».

Così le donne si trovavano, e si trovano ancora, a essere vittime di una doppia violenza: quella psicofisica dei soldati e quella morale di parenti e amici. «La nostra sfida era fare in modo che le donne violentate non fossero stigmatizzate dalla società: dovevamo far capire a tutti che lo stupro non è una vergogna per la vittima ma per la comunità», racconta la giornalista.

Le prime testimonianze erano anonime, poi un giorno bussò alla porta della radio una ragazza con la sua bambina di 12 anni. Avevano camminato due giorni per raggiungere Kaivu. Raccontò che nella foresta che collega alcuni villaggi del sud le donne venivano catturate e violentate dai militari, costrette a mangiare la carne di quelle che venivano uccise.

Quel giorno la donna pronunciò al microfono a voce alta il suo nome, Nzgire, e quello di sua figlia, Ansima. Raccontare era la terapia, parlare la salvezza.

E la radio, con 4 milioni di ascoltatori, l’unico strumento di informazione accessibile a molti.

«All’inizio fu uno shock: le persone dicevano che non si potevano raccontare quelle cose: sesso, dolore, sangue, violenza. Ma noi volevamo trasmettere l’atrocità».

Nella Repubblica Democratica del Congo lo stupro è diventato un’arma utilizzata da tutte le fazioni in lotta tra loro: «La violenza sessuale esiste ovunque ma quello che succede qui è che le donne vengono torturate per spaventare la comunità. Lo stupro è una tattica di guerra. Siamo il pilastro della comunità: senza di noi non c’è riproduzione, non c’è vita. Per questo motivo si accaniscono contro la vagina: il desiderio sessuale non c’entra, è una tortura programmatica e dimostrativa per spingere i nemici a lasciare i territori».

In dieci anni di attività della radio, la giornalista ha raccolto più di 500 testimonianze. Ma dare il microfono alle vittime di violenza non era abbastanza, bisognava insegnare loro a usarlo. Così Namegabe ha fondato un’associazione no-profit, South Kivu Women’s Media Association, per formare giornaliste.

«Quando vedo la situazione delle occidentali penso che anche per noi c’è un orizzonte di diritto a portata di mano, che anche noi un giorno potremo indignarci per ballerine svestite in televisione. Tuttavia l’aspetto più drammatico è che, pur in contesti così diversi, la violenza sessuale resta il filo rosso che ci unisce».