Euro e austerità: ecco la ricetta (sbagliata)

Intervista a Loretta Napoleoni a cura di Adriano Gizzi
www.confronti.net

Ci ripetono ogni giorno che «c’è la crisi», ma forse al cittadino comune non vengono spiegati bene i fattori che hanno causato la situazione economica nella quale ci troviamo…

Le origini di questa crisi sono legate a quello che è successo nel 2008 (mutui subprime, derivati e processo di finanziarizzazione dell’economia a livelli sempre più insostenibili), ma le cause vanno ricercate anche più indietro, nella costruzione dell’economia basata essenzialmente sul debito. Quel che è successo nel 2008 è stato un po’ la punta dell’iceberg: hanno salvato il sistema bancario a spese delle economie nazionali dei paesi industrializzati. L’Italia, in particolare, senza rendersene conto è vittima di tutto questo: l’eccessivo indebitamento ha portato a una politica di austerità controproducente che, invece di migliorare la situazione, la peggiora.

Come si esce, quindi, dal tunnel dell’austerità?

Se ne può uscire solo con un cambiamento radicale delle politiche. Se si va a parlare con quei pochi industriali rimasti in Italia che ancora riescono a gestire delle piccole, medie o anche grandi aziende, ci rispondono tutti la stessa cosa: il problema è l’euro. Io lo vado dicendo da parecchi anni: noi abbiamo una moneta che non corrisponde a quelle che sono le nostre effettive capacità economiche. Questo è un problema che riguarda l’Italia, ma anche i paesi della cosiddetta «periferia» dell’Europa, che erano in concorrenza economica con la Germania. La Francia ha pagato meno questa situazione, perché non era direttamente in concorrenza con i vicini tedeschi. Noi invece abbiamo pagato un prezzo alto: molte industrie sono scomparse perché i tedeschi producevano meglio e a costi più bassi, erano più efficienti, e avendo la stessa moneta non si poteva più utilizzare il meccanismo della svalutazione o della rivalutazione. Il problema è che queste cose nel nostro paese non si possono dire, forse gli italiani non le vogliono sentire…

Forse in materia economica il «pensiero unico» è particolarmente schiacciante… Con questa «grande coalizione» al governo in Italia, che prospettive ci sono per uscire dalla crisi?

Secondo me non c’è nessuna speranza. Chi ci governa non fa certo gli interessi della popolazione, ma solo quelli personali o della propria élite. Negli altri paesi in difficoltà, però, almeno c’è maggiore opposizione alle politiche neoliberiste. Da noi invece, siccome c’è questo accordo tra destra e sinistra, la situazione è molto più seria. In Grecia una forza politica di sinistra come Syriza, che ha quasi il 30% dei voti, fa un’opposizione radicale alle politiche del governo (guidato dal conservatore Samaras in alleanza anche con i socialisti del Pasok, ndr). In Italia invece non c’è una vera opposizione a questo governo Pd-Pdl che si fonda esclusivamente sulla volontà di restare al potere, senza affrontare i veri problemi del paese. Se guardiamo all’opposizione, poi, il Movimento 5 stelle brancola nel buio: non ha una politica e non si capisce bene cosa voglia fare. Anche sull’euro non ha una posizione precisa.

Lei boccia l’euro in ogni caso o è critica solo verso il modo in cui è stata gestita tutta la materia? Con una politica diversa della Banca centrale europea, per esempio, le cose potrebbero migliorare?

L’euro produce ciò che produce il dollaro negli Stati Uniti: alcuni stati molto ricchi e altri molto poveri. La differenza, però, è che lì si parla la stessa lingua, ci si può trasferire facilmente da uno stato all’altro e ci sono forme di sostegno da parte del governo federale. In ogni caso, l’idea che l’euro ci avrebbe permesso di migliorare è stata smentita dai fatti: non c’è stata una crescita, ma siamo andati sempre più indietro. Quindi non capisco perché si continui imperterriti a crederci. Per noi l’unico modo per essere competitivi è avere una moneta diversa. A meno che la nostra economia non diventi competitiva come quella tedesca, ma ormai è troppo tardi: abbiamo venduto tutte le industrie, cosa potremmo fare? Luxottica, per fare un esempio, ha solo l’1% di fatturato in Italia.

Con il nuovo governo in Germania la politica tedesca nei nostri confronti potrà ammorbidirsi?

La linea della cancelliera Merkel rimane sempre la stessa, ma anche se dovesse cambiare l’atteggiamento del governo tedesco, la situazione per noi resterebbe gravissima: l’Italia va verso un progressivo impoverimento, ci stiamo de-industrializzando, come ha detto anche la Commissione europea. Siamo un paese in decadenza. Abbiamo l’Iva al 22% e rispondiamo con una manovra ulteriormente recessiva proprio in un momento di recessione economica…

Ecco, ma come fare delle scelte espansive senza «mettere in allarme» i mercati ed evitando la speculazione sul nostro debito pubblico?

Arriverà anche il momento in cui i mercati gireranno le spalle all’Italia, ma non è questo il momento. E comunque non possiamo preoccuparci solo di quello che potrebbero fare i mercati, perché il problema principale riguarda le condizioni della popolazione. Ai mercati non importa assolutamente nulla che gli italiani si stiano impoverendo: per loro, l’importante è che il governo riesca a racimolare quei soldi di cui ha bisogno. Se poi li toglie ai pezzenti e l’Italia assomiglia sempre più alla Parigi dei tempi de I miserabili… ai mercati non importa assolutamente nulla.

Quando i movimenti come Occupy Wall Street dicono «noi siamo il 99%», dicono la verità? Come può essere che solo l’1% riesca a far valere le proprie ragioni? Esiste un’area intermedia, ossia una classe sociale a cui comunque fa comodo questa situazione di disparità economica?

La grande maggioranza della popolazione non ha la minima idea della ricchezza di quell’1% e di quanto siano diventate grandi le disparità. Certo, poi c’è chi all’interno di quel 99% sta un po’ meglio e un po’ peggio, ma la differenza tra quell’1% e il resto della popolazione è immensa. Per ridurre le sproporzioni nella ricchezza bisognerebbe ricorrere a soluzioni radicali, come ad esempio le espropriazioni e le nazionalizzazioni. L’opinione pubblica ha subìto un lavaggio del cervello, per cui è convinta che questo sistema economico sia l’unico possibile. E questa convinzione viene rafforzata dalla speranza di poter far parte, un giorno, della classe più ricca. La maggior parte delle persone non mira alla giustizia sociale, ma alla ricchezza: vuole illudersi di poter raggiungere i livelli di quell’1% più ricco, ma non si rende conto che così facendo la povertà non fa che aumentare ulteriormente.

—————————————————————

Un’opposizione per la nostra Europa

Guido Viale
il manifesto, 24 ottobre 2013

Non siamo più, e da tempo, cittadini italiani; siamo sudditi di un “sovrano” che si chiama governance europea: un’entità mai eletta, che risponde solo al “voto” dei “mercati”. E’ un governo di fatto che definisce le politiche dei paesi dell’Ue che gli hanno ceduto la loro sovranità, fino a concedere, con l’accordo two-packs, un controllo preventivo sui propri bilanci. Se le cose stanno così – come ci ricorda il ritornello “ce lo chiede l’Europa” – per riappropriarsi della possibilità di far sentire la nostra voce, per restituire alle comunità capacità di autogoverno, occorre creare un’opposizione in ambito e di respiro europei.

Ma come colmare l’abisso tra le politiche imposte dalla governance europea e, per suo tramite, dalla finanza internazionale, e le istanze dei movimenti e delle mille organizzazioni che si battono, ciascuno a suo modo e spesso per proprio conto, per diritti fondamentali che i governi dei paesi dell’Ue stanno erodendo: dignità, lavoro, reddito, casa, salute, istruzione cultura, vecchiaia serena, accoglienza, rispetto della vita di tutti? C’è nella rivendicazione di quei diritti l’embrione di un programma comune in cui si riconoscerebbero facilmente i partecipanti alle manifestazioni sia del 12 che del 19 ottobre, che i rispettivi promotori hanno invece concorso a tener separate per cautele politiche e aggressività verbali in entrambi i casi inaccettabili (se si vuole tutte radunare le forze disponibili).

A questo programma di massima le elezioni europee della primavera prossima, come hanno sostenuto Alfonso Gianni e Tonino Perna, potrebbero fornire una prima occasione per riproporlo in tutti i paesi dell’Unione. I capisaldi di quel programma sono infatti già largamente diffusi e condivisi da un ampio arco di organizzazioni, anche se finora non sono ancora stati oggetto di un confronto diretto e non hanno quasi mai trovato espressione e rappresentanza in sedi istituzionali.

Riguardano innanzitutto i diritti indicati precedentemente; poi la revisione radicale dei vincoli finanziari imposti dalle politiche di austerity che hanno colpito le economie, l’occupazione e le condizioni di vita nell’Europa mediterranea (per ora, ma il disastro si sta estendendo anche all’Europa centro-settentrionale). Riguardano in terzo luogo la riconversione ambientale del tessuto produttivo: sia per arrestare, con nuovi prodotti e nuovi mercati – soprattutto, ma non solo, di prossimità – la perdita di milioni di posti di lavoro e la chiusura di decine di migliaia di imprese grandi e piccole, condannate a morte dalla crisi, dalle politiche di austerità, dalle delocalizzazioni, dalla perdita degli sbocchi tradizionali; sia per creare nuove opportunità di lavoro e di impresa in attività dal futuro sicuro, perché servono a contrastare la catastrofe ambientale che incombe sul pianeta.

Il quarto punto è la emersione di una nuova classe dirigente – già in gran parte all’opera nelle pieghe dei movimenti, del volontariato e delle organizzazioni civiche – che sia espressione diretta delle istanze di rinnovamento che provengono dalle comunità in lotta e che si sia formata – anche tecnicamente – in questa nuova temperie. Perché la crisi in corso non dipende solo da politiche sbagliate; è causata soprattutto dal deterioramento morale e culturale dell’establishment europeo: non solo quello politico, ma anche quelli manageriali, imprenditoriali e accademici.

Ma il problema principale non è il programma; è la forza per metterlo in marcia. Dove trovarla? Non si può contare sulle forze politiche esistenti, o su una loro svolta radicale, a meno di una dissoluzione che ne liberi le componenti che aspirano a un vero cambiamento di rotta. Solo una crescita quantitativa e qualitativa degli organismi e dei movimenti che alimentano il conflitto sociale giorno per giorno può costituire un riferimento solido.

Molte e importanti esperienze ci forniscono un filo conduttore per unire le rivendicazioni e le buone pratiche più avanzate dei movimenti alla possibilità di dare una formulazione sintetica al progetto di un radicale rinnovamento della politica e dei suoi obiettivi; e anche alla possibilità di raccogliere intorno ad esso molte forze, sia sociali che morali e intellettuali, ancora in gran parte disperse. Questo filo conduttore è la promozione di una politica fondata sui beni comuni.

In Italia e in gran parte dell’Europa abbiamo di fronte due problemi di fondo: da un lato, imprese che chiudono, licenziano e non assumeranno mai più, mandando in malora patrimoni giganteschi di conoscenze, di esperienza, di consuetudine alla cooperazione, di vite distrutte; dall’altro, la necessità di offrire nuove opportunità all’esercito degli esclusi dal lavoro e dal reddito, o costretti a condizioni umilianti di subordinazione nella palude di un precariato senza prospettive.

Si tratta dei giovani, i cui tassi di disoccupazione sono astronomici nei paesi dell’Europa mediterranea, ma in crescita anche nelle economie più solide; ma è una condizione che riguarda tutte le fasce di età: tanti e tante trenta-quarantenni (TQ) che nella loro vita hanno conosciuto solo precariato e tante e tanti cinquanta-sessantenni espulsi dal lavoro, a cui viene progressivamente sottratta la prospettiva del pensionamento. E poi i profughi e i migranti che, inseriti nel lavoro e nelle società, potrebbero portare un contributo decisivo sia allo sviluppo economico e culturale dei paesi europei che alla pacificazione dei loro; per contribuire poi insieme, quando potranno ritornare nelle loro terre, alla formazione di un unico grande popolo mediterraneo.

Ora, non si può continuare a intervenire sulle aziende in crisi delegando ai governi il compito di trovar loro un nuovo padrone. I nuovi padroni, quando si presentano, lo fanno solo – è esperienza quotidiana – per depredare l’azienda dei suoi capitali residui, del suo marchio, del suo know-how, delle sue attrezzature migliori, per poi lasciare i lavoratori sul lastrico. Non si può puntare sulle nazionalizzazioni o sull’intervento statale; e non certo per il fatto che l’Unione europea lo vieta. Su molte di quelle imprese gli Stati hanno fatto disastri non meno gravi delle gestioni private o privatizzate.

E poi lo Stato italiano non dispone più, con la dismissione dell’IRI, di manager in grado di gestire un’impresa (tanto che ricorre sempre all’ottuagenario Bondi, che di disastri ne ha già fatti molti). Quelle aziende hanno bisogno di una nuova governance, composta dalle maestranze e dalle loro rappresentanze, dai governi locali e dalle associazioni di cittadinanza dei territori che le ospitano, dalle competenze messe a disposizione da università e centri di ricerca, in un regime che le riconosca come “beni comuni”, né private né pubbliche, ma a disposizione delle loro comunità di riferimento. Un programma che vale, a maggior ragione, per recuperare a una gestione condivisa i servizi pubblici locali: acqua, energia, trasporti, rifiuti, scuole, gestione del territorio; le chiavi della conversione ecologica.

L’altro problema centrale è la quantità di energie, intelligenza, creatività e aspettative degli uomini e delle donne escluse dal mondo del lavoro, che potrebbero contribuire alla rinascita culturale e produttiva dell’Europa e, innanzitutto, dei paesi dell’Ue più colpiti dall’austerity.
Per recuperare quelle energie bisogna sottrarle ai ricatti della miseria, della disoccupazione e del precariato, garantendo a tutti un reddito di base incondizionato: le risorse per realizzarlo sono molte meno di quelle che vengono dissipate in armamenti, grandi opere inutili, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale, costi della politica.

Ma una volta sottratte al giogo di una vita senza prospettive, la riappropriazione in forme condivise di beni comuni oggi inutilizzati o ceduti a operatori privati grazie ai favori della politica – case, edifici, monumenti, beni culturali, suolo urbano, terre pubbliche o incolte, spiagge, biblioteche, teatri, fabbriche e capannoni – insieme al sostegno finanziario e tecnico a progetti autogestiti di avviamento di impresa potrebbe liberare le energie necessarie per fermare il degrado con programmi di conversione ecologica condivisi e gestiti dal basso.

Ovviamente, con il coinvolgimento delle comunità di riferimento e di governi locali sottratti al giogo del patto di stabilità e di sindaci e giunte sottratti ai richiami del business; cominciando dalla requisizione dei beni contesi. Ma solo grandi lotte e grandi mobilitazioni potranno avere questo esito. E’ un progetto di lunga lena, ma andiamo incontro a tempi difficili che richiederanno soluzioni estreme; sottometterlo oggi a un pubblico dibattito è un buon punto di partenza.