Intervista Gustavo Gutierrez, ricevuto da papa Francesco

Mauro Castagnaro
Vita Pastorale, ottobre 2013

Gustavo Gutierrez, prete peruviano ottantacinquenne entrato nel 2000 nell’Ordine dei frati predicatori, è considerato il “padre” della Teologia della liberazione (il cui inizio è fatto risalire alla pubblicazione nel 1971 dell’omonimo suo libro), che egli concepisce come riflessione critica sull’esperienza di fede vissuta dai cristiani nelle lotte per la giustizia e si sviluppa attraverso un ripensamento dei principali temi della teologia alla luce dell’opzione per i poveri, diventando punto di riferimento per l’impegno sociale di molti credenti in tutto il mondo.

La Teologia della liberazione suscita però in America Latina l’ostilità degli ambienti conservatori, che sfocia nell’uccisione di molti vescovi, preti, religiose e laici a essa legati, e la diffidenza della Curia romana, che la accusa di sostituire il marxismo al Vangelo, di predicare la lotta di classe e di costruire una “chiesa popolare” alternativa a quella istituzionale. Anche se non si arriva alla sua formale condanna, le due Istruzioni pubblicate dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 1984 e 1986 suonano come una sconfessione, soprattutto perché accompagnate da interventi censori nei confronti di alcuni suoi esponenti, come Leonardo Boff – ma non di Gutierrez, al quale, alla fine di un dialogo durato dal 1995 al 2004, l’allora prefetto card. Joseph Ratzinger riconosce di aver chiarito “i punti problematici contenuti in alcune sue opere”.

Dopo il “terremoto dell’89”, interpretato come il trionfo del capitalismo, molti decretano la “morte” della Teologia della liberazione, che, invece, arricchisce la propria riflessione di nuovi soggetti (gli indigeni, con la teologia india, i neri, con la teologia nera, le donne, con la teologia femminista, ecc.), strumenti analitici (non più solo la sociologia o l’economia, ma anche la psicologia, le scienze naturali, l’antropologia, ecc.) e temi (l’ecologia, il corpo, il pluralismo religioso, ecc.).

Vita pastorale ha rivolto alcune domande a p. Gutierrez in occasione della sua venuta in Italia per partecipare al Congresso dell’Associazione teologica italiana e presentare con l’arcivescovo Ludwig Muller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, al Festival di letteratura di Mantova il libro scritto a quattro mani nel 2004 e oggi edito in italiano dall’Emi e dalle Emp col titolo “Dalla parte dei poveri”.

I teologi della liberazione sono stati accusati di usare l’analisi marxista per interpretare la società. Come risponde?

Già anni fa Leonardo Boff aveva spiegato che Karl Marx non era né il padre né il padrino della Teologia della liberazione. D’altro canto il marxismo considera alienante la religione, mentre noi dicevamo che è liberatrice! E citare un autore o considerare valide alcune sue categorie non significa aderire al suo pensiero: per esempio, io ritengo utili concetti come “meccanismi di difesa” e “inconscio”, ma non sono ateo come Sigmund Freud, che pure conosco meglio di Marx, avendogli dedicato la mia tesi in psicologia.
Io e altri teologi della liberazione abbiamo, invece, utilizzato la Teoria della dipendenza, all’epoca innovativa, secondo cui i paesi latinoamericani non erano solo poveri, ma dipendenti. In essa si riconoscevano autori marxisti e altri non marxisti, come Fernando Henrique Cardoso, futuro presidente della Repubblica del Brasile (1995-2002); e il sociologo ecuadoriano Augustin Cueva la considerava antimarxista. Oggi è uno strumento insufficiente per analizzare la realtà, perché allora, per esempio, non c’era la globalizzazione. Ma non vuol dire che fosse sbagliata. Certo impiegava nozioni coniate da Marx, ma se usassimo solo concetti di autori cattolici non potremmo neanche accendere la luce, perché molti atei hanno contribuito a far sì che ne disponessimo! Però non abbiamo usato l’analisi marxista come tale.

Papa Francesco fa spesso riferimento al documento della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, svoltasi nel 2007 ad Aparecida, in Brasile. Che ha da dire questo testo alla Chiesa universale?

Sono convinto che nella Chiesa ogni voce particolare abbia anche una dimensione universale. La teologia della liberazione non vale solo per i latinoamericani né quella femminista solo per le donne. La II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano tenutasi a Medellin, in Colombia, nel 1968 ebbe un’eco mondiale. Non mi sembra sia successo lo stesso per quella di Aparecida, sebbene abbia molto insistito sull’opzione preferenziale per i poveri, che non riguarda solo l’America latina, perché viene dal Vangelo. Anche in America latina, peraltro, non tutti applicano i documenti finali di queste assemblee, perché sono molto impegnativi e imporrebbero di modificare i programmi economici ed educativi.
Non sopravvaluto i testi, ma essi possono diventare vita, come accaduto con quello di Medellin, che aprì la strada al martirio latinoamericano, inaugurato da p. Henrique Pereira Neto, un sacerdote nero ventinovenne, coordinatore della Pastorale della gioventù dell’arcidiocesi brasiliana di Olinda e Recife (allora retta da dom Helder Camara), ucciso nel 1969. E, al contempo, cominciarono i tentativi di schiacciare questa Chiesa, tanto che nel 1987 la XVII Conferenza degli eserciti americani discusse come “controllare la teologia della liberazione”, che era giudicata contraria alla “civiltà occidentale cristiana”.
Siccome il Papa ha coordinato il gruppo di redazione, è comprensibile che rilanci il documento di Aparecida, i cui valori cristiani sono validi anche in altri contesti.

Lo sviluppo della Teologia della liberazione è avvenuto durante una stagione della Chiesa latinoamericana contrassegnata da una generazione di vescovi straordinari (Mendez Arceo, Camara, Fragoso, Proaño, ecc.) nonché da esperienze di rinnovamento ecclesiale (Comunità ecclesiali di base, pastorali sociali, religiosi/e inseriti/e in ambienti popolari, ecc.) e sociale (partecipazione dei cristiani alle lotte popolari e di liberazione, ecc.). Come vede oggi la Chiesa latinoamericana e quali esperienze le sembrano maggiormente profetiche?

Le esperienze profetiche restano minoritarie nei diversi paesi. La situazione delle Ceb, per esempio, da cui un po’ nacque la stessa Teologia della liberazione, varia da diocesi a diocesi.
Certo gli anni ’60 sono stati un momento interessante per la presenza di questi vescovi che fecero Medellin, a cominciare da mons. Manuel Larrain, ordinario di Talca, in Cile, morto prematuramente, ma che con dom Camara componeva una coppia straordinaria per afflato spirituale e visione politica. Oggi il momento è diverso, ma nella Chiesa latinoamericana c’è molta vita, altrimenti non si spiegherebbe il documento di Aparecida.
Basti l’esempio delle Chiese del Sud andino in Perù: si è voluto smantellare la pastorale inculturata nelle tradizioni indigene sviluppata da cinque diocesi, nominandovi vescovi conservatori, ma nella base questo lavoro prosegue. L’idea per cui se cambia un vescovo muore tutto è semplicistica. A Cuzco, per esempio, i corsi e gli incontri per gli agenti di pastorale in passato realizzati dall’arcidiocesi adesso sono organizzati da un’istituzione costituita da laici che si chiama Istituto Sud Andino di ricerca e azione solidale. Perciò la realtà va vista nelle sfumature.
Però questo momento infonde molta speranza. Non solo nella Chiesa, ma nella società latinoamericana sono stati compiuti passi avanti, per esempio nella sensibilità verso le discriminazioni: in Perù oggi si critica molto l’emarginazione degli indigeni, mentre al tempo di Medellin non era così. Quindi progressi e passi indietro coesistono.
Diversa è poi la situazione politica: quando nacque la Teologia della liberazione le dittature militari erano in espansione e il continente era attraversato dalla violenza; oggi, invece, c’è libertà di espressione e una democrazia almeno formale, anche se la realtà di fondo non è poi molto cambiata.