I responsabili morali del suicidio di Simone

Franco Buffoni
www.mariomieli.net

Dalle cronache dei giorni scorsi ho appreso che a Roma il 21enne Simone si è ucciso gettandosi dal tetto dell’ex pastificio Pantanella in via Casilina perché omosessuale.

«La vita piena e serena di Simone, i suoi impegni, i suoi sogni, il suo essere grato a tutte le persone, il suo obiettivo di diventare un bravo infermiere per aiutare gli altri»: sono le parole con cui Don Lorenzo, che lo conosceva bene, inizia l’omelia nella chiesa di San Giustino di viale Alessandrino, accanto alla sua bara insieme a Don Giulio, Don Silvano e padre Gianni. Anche Don Giulio, Don Silvano e padre Gianni conoscevano bene Simone e i suoi famigliari, molto assidui in parrocchia. «Pur con l’amore della sua famiglia», ha continuato Don Lorenzo, «Simone non è riuscito a superare le fatiche e le difficoltà della vita quotidiana, nonostante i suoi valori forti e i suoi principi. Pensiamo a quanto potesse stare male, a quanto forte fosse il suo disagio che nessuno è riuscito ad ascoltare e comprendere».

Leggendo la parola “disagio” lo scenario mi si è illuminato. Disagio – per chi sa di catechismo e di Chiesa cattolica – è un termine-spia. Gli omosessuali devono vivere la propria condizione con disagio; gli omosessuali devono essere accolti con delicatezza. E se fossero stati proprio i valori forti e i principi di cui parla Don Lorenzo a soffocare Simone?

Un interrogativo avvalorato dalle parole della sorella di Simone, Ilaria; parole lette in chiesa dal padre di Simone, Fabio: «Sentirsi diversi non è bello per nessuno, ma per fortuna ci sono persone accoglienti che danno conforto a chi è in difficoltà». La sorella con cui Simone si confidava, oltre all’accoglienza e al conforto, menziona subito il “diverso”. Da qui inevitabilmente il disagio.

Non viene a nessuno il dubbio che forse un ragazzo di 21 anni non ne potesse più del disagio e dell’accoglienza, della castità e della tolleranza? E che – se invece della parrocchia di San Giustino di viale Alessandrino – avesse frequentato la sede Uaar di via Ostiense o il vicino Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, magari avrebbe imparato che altri valori forti, altri principi, erano in grado di indirizzarlo verso la realizzazione dei suoi sogni e delle sue aspirazioni?

Non viene a nessuno il dubbio che a uccidere Simone non sia stata l’omosessualità ma il cattolicesimo?

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A roma l’omofobia fa un’altra vittima. Da nord a sud, la solidarietà dei gay credenti

Giampaolo Petrucci
Adista Notizie n. 39 del 09/11/2013

È successo ancora. A Roma, per la terza volta solo nell’ultimo anno. Secondo le ricostruzioni, sui quali gli inquirenti stanno ancora facendo luce, nella notte tra il 26 e 27 ottobre scorsi, Simone, un giovane omosessuale di 21 anni si sarebbe tolto la vita, denunciando con una lettera l’omofobia dilagante nel Paese. E pare che, ormai, tanto i media quanto la capitale ci abbiano fatto il callo: prima la notizia, poi lo sconcerto generale e lo scontro politico – tra chi considera la violenza omofobica una questione sociale su cui la politica dovrebbe intervenire e chi, invece, la considera una prassi discriminatoria non tanto diversa da altre forme di derisione o isolamento – e infine l’oblio. Il precedente caso di suicidio di un giovane romano omosessuale risale ad agosto. Si era tolto la vita gettandosi dal terrazzo condominiale e, in un biglietto, aveva lasciato scritto tutto il suo malessere (v. Adista Notizie n. 29/13).

Tra i due casi, però, si registra una “mezza” novità: lo scorso 19 settembre la Camera ha approvato, in prima lettura, il ddl antiomofobia, che ora attende il voto in Senato. Se il buongiorno si vede dal mattino, la legge nasce zoppa, a causa del “subemendamento Gitti” che esonera associazioni e partiti dalle aggravanti (v. Adista Notizie n. 34/13). Una sorta di salvacondotto (che la rete ha già rinominato “emendamento salva vescovi”), approvato per non alienarsi le simpatie del mondo cattolico conservatore – tentativo tra l’altro miseramente fallito – ma che di fatto annulla gli effetti delle legge antiomofobia proprio nei casi più importanti e gravi, quando cioè l’omofobia diventa parte integrante dell’azione istituzionale nella politica, nell’associazionismo, nelle scuole, nelle Chiese, nelle strutture sanitarie, nei gruppi e nei movimenti, in sintesi nei luoghi di socialità nei quali i giovani si immergono ogni giorno.

E proprio nel pieno svolgimento del dibattito è arrivato l’ennesimo monito, ormai celebre, lanciato da Simone prima di togliersi la vita: «L’Italia è un Paese libero ma esiste l’omofobia e chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza». Un invito che pare abbia “disturbato” proprio quanti gridano alla “libertà di espressione”. Non passano infatti due giorni dalla tragedia che così Avvenire commenta i fatti: «Ragazzo gay si uccide, la propaganda si rivitalizza» (29/10).

Violenza invisibile

In una nota pubblicata sul suo profilo Facebook lo scorso 29 ottobre, Andrea Rubera (presidente di Nuova Proposta, gruppo romano di omosessuali credenti), ha sottolineato che, nonostante l’urgenza di una legge specifica, l’omofobia non si risolve solo nell’atto violento: «L’omofobia più diffusa, che ha imprigionato Simone, e di cui siamo tutti complici, è quella che nega l’esistenza di un vissuto quotidiano delle persone omosessuali, che non dà cittadinanza all’omosessualità se non come argomento “scientifico” o di “cronaca”. Che impedisce di pensare fino in fondo a una persona omosessuale come “uno di noi”, libero di pensare alla propria vita e libero da condizionamenti». È la forma più subdolamente pericolosa di omofobia, che resta inespressa, non detta, nella scuola, nella parrocchia, nel gruppo dei pari, e che spinge il giovane omosessuale a nascondersi, a controllarsi, a limitarsi. E a farsi logorare, in totale solitudine, dal proprio malessere.

Sull’argomento, approfondisce poi il presidente di Nuova Proposta, il mondo cattolico è mediamente più arretrato della società civile in generale. «Pensate a cosa accadrebbe (e accade) se una coppia gay volesse frequentare in trasparenza una parrocchia o un cammino di fede». «E pensate, ancor di più, a cosa accadrebbe se la famiglia fosse composta da due genitori dello stesso sesso che volessero far frequentare al proprio figlio il catechismo o gli scout». Inchiodata al Catechismo, la comunità cattolica alterna accoglienza e condanna – accoglie l’omosessuale ma condanna la sua omosessualità – rendendo impossibile al giovane omosessuale sentirsi totalmente riconosciuto e amato. La Chiesa, secondo Rubera, dovrebbe guardare i giovani «con gli occhi del cuore e non con quelli della legge», «cercando di ipotizzare un percorso pastorale che accompagni le persone omosessuali anche nel loro desiderio di affettività, indirizzandolo e formandolo piuttosto che negandolo».

“Libertà” omicida

Commenta i fatti di Roma anche Gianni Geraci, portavoce degli omosessuali credenti milanesi aderenti al Gruppo del Guado. E lo fa in una lettera aperta che indirizza a Simone stesso. «Al dramma e al senso dell’assurdo» per una giovane vita spezzata, «si aggiunge il gelo che dovrebbe prendere tutti noi quando ci accorgiamo di avere sulle nostre spalle la responsabilità di un gesto così contrario alla nostra natura». Geraci riflette sul dibattito politico in corso, su quanti – nella destra cattolica – continuano a ripetere che la legge antiomofobia limiterebbe la loro libertà di espressione. E non pensano alle conseguenze di quello che dicono, a «come si può sentire un giovane come te, quando sente dire in televisione o sui giornali che la sua omosessualità è “contro natura”. In realtà queste persone dovrebbero chiedersi cosa sia davvero “contro natura”: la tua omosessualità o il clima di disperazione che ti ha spinto a cercare la morte? Io non ho dubbi: “contro natura” sono le parole di quanti spingono un ragazzo di vent’anni a togliersi la vita; “contro natura” sono le parole di chi cerca in tutti i modi di impedire a un giovane omosessuale di accettarsi così com’è». E conclude: «Credo che adesso Dio ti stia abbracciando dicendoti che in Paradiso l’omofobia non c’è e che, vicino a lui, non hai più niente da temere».

Vergogna italiana

«Cosa scatta nella testa di chi compie gesti simili, quale paura, quale terrore?», ha scritto Anna, il 28 ottobre, sul sito del gruppo di omosessuali credenti di Firenze Kairòs. «Come cristiani preghiamo il Signore» «perché non accadano più azioni così drammatiche, sofferte, violente e vissute in una solitudine inaccettabile». «Come omosessuali – aggiunge – ci guardiamo negli occhi tra noi, ci facciamo forza e cerchiamo la forza per continuare a combattere insieme». «Come cittadini italiani – conclude e denuncia – ci vergogniamo del nostro Paese, che addita e non tutela, che non riesce neppure a fare una legge contro l’omofobia e la transfobia».

Responsabili rigidità

Un messaggio anche dal gruppo di credenti omosessuali di Palermo, Ali d’Aquila. Cinzia, firmataria di una lettera a Simone pubblicata sul portale del Progetto Gionata (gionata.org) il 30 ottobre, racconta la difficoltà di molte persone di comprendere la sofferenza che i loro atteggiamenti rigidi e astiosi possono provocare in molti giovani omosessuali. «Perché questa tua morte non resti vana – scrive – vorrei che ci si interrogasse sul ruolo che ciascuno di noi ha come cittadino e come credente di questo Paese che permette ancora che si possa dire che l’omosessualità è sbagliata, che è peccato». «Non è più tempo di attendere, non è più tempo di aspettare», conclude: «Questo è il tempo di trasformare la nostra indignazione e il nostro dolore in pacifica azione di incontro e di confronto con chi non la pensa come noi».