Le radici oscure del patriarcato

Rosanna Marcodoppido
www.womenews.net

Le testimonianze storiche dimostrano che il patriarcato non era e non è l’unica risposta ai problemi legati al conflitto tra i sessi e che un altro modo di stare al mondo è possibile, anzi è urgente se vogliamo uscire da un modello di sviluppo e di consumo che sta togliendo dignità e libertà a donne e uomini, che mette a rischio la vita del pianeta e che ha radici proprio in quella cultura che pone al centro il potere al posto delle relazioni.

E’ stato chiamato Patriarcato quel sistema di dominio degli uomini sulle donne che a livello materiale e simbolico ha permeato di sé cultura, religioni, politica, relazioni pubbliche e private. Nel lento passaggio dalla preistoria alla storia, è successo qualcosa che ha cambiato radicalmente i rapporti tra donne e uomini e ha posto le basi per l’affermarsi di un potere dispari in cui la differenza sessuale da dato naturale è diventata pretesto per gerarchie improprie che hanno giustificato per millenni il potere maschile e la subordinazione femminile.

Dunque il Patriarcato è un problema di potere, ma il potere da solo non è chiave di lettura sufficiente per descriverlo e comprenderlo. Infatti l’assunto da cui parte, secondo il quale per natura l’uomo è superiore e la donna inferiore, è un clamoroso falso: perciò il Patriarcato è una questione che ha a che fare anche con la non verità della differenza sessuale e su questa non verità ha costretto in vario modo, attraverso le leggi, le tradizioni, le religioni, donne e uomini ad allontanarsi tra loro e dal senso originario della sessuazione umana, ad apparire e comportarsi come in realtà non sono: due figure in gran parte false, stereotipate e proprio per questo rese opache le une alle altre. Il patriarcato perciò poggia le sue fondamenta sul falso.

Le deformazioni delle donne sotto l’effetto di una vita di oppressione le ha mostrate nel 1792 col coraggio e la lucidità che la caratterizzavano Olympe de Gouges nel postambolo della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Le deformazioni del maschile per aderire al modello identitario imposto le stanno mostrando anche alcuni uomini da quando hanno iniziato ad interrogarsi sul senso profondo della loro mascolinità, messo sotto accusa da secoli di critica femminile e femminista.

Ma perché a un certo punto della vicenda umana gli uomini hanno dovuto dire e dirsi delle bugie cambiando drammaticamente il corso della storia? E perché un falso evidente ha resistito tanto a lungo di fronte ad una altrettanto evidente verità che, oggi lo vediamo bene, non poteva non essere colta nell’esperienza quotidiana di ciascuna e ciascuno?

Mi sono fatta nel tempo tante volte queste domande. Ho cercato a lungo di immaginare, di capire a fondo quando e perché è nato il patriarcato. Mi si apre ogni volta uno scenario complesso e contradditorio, dove passato e presente sembrano prendersi per mano grazie ad alcune evidenti persistenze. Quello che ho capito è che il patriarcato è nato e si è perpetuato nelle zone più oscure della coscienza umana come risposta, certamente sbagliata, a problemi reali; é ancora in parte lì, in alcuni angoli bui della nostra interiorità, difficile da riconoscere e decodificare nella sua potente valenza simbolica. E’ là che bisogna cercarlo, è da lì che occorre partire.

Ho fatto riferimento al passaggio dalla preistoria alla storia perché esso è l’atto di nascita della civiltà umana, di quella civiltà che in questi tre giorni insieme vogliamo interrogare. Del tempo lontano della Preistoria abbiamo numerosi documenti che ci parlano, in mancanza di testi scritti. Appartiene al Paleolitico, inciso nelle pietre, il simbolo più antico di cui si ha conoscenza: un triangolo col vertice rivolto verso il basso, attraversato a volte da una linea verticale, che rappresenta il sesso femminile, origine della vita.

Di questo periodo non sono stati trovati finora da nessuna parte simboli fallici. Numerosissimi poi sono i reperti archeologici del Neolitico che raffigurano la Dea Madre, immagini scultoree che possiamo considerare le prime forme d’arte. Da qui capiamo che la maternità era principale attributo del sacro e aveva un alto valore sociale.
Molto poche anche in questo periodo sono le raffigurazioni del maschile. Solo in un secondo momento compaiono divinità maschili secondarie, che finiranno poi col diventare predominanti. Emblematico è l’esempio che ci è pervenuto dalla civiltà prenuragica nel passaggio dal culto della dea madre a quello del dio toro, testimoniato dalla forma delle sepolture: le più antiche, ipogee, le domus de janas a forma di utero, furono poi sostituite da tombe di superficie la cui pianta raffigura una testa di toro, le cosiddette tombe dei giganti.

In ambito etnologico e antropologico si parla di Matriarcato riferendosi in genere a quelle comunità organizzate su un potere e una autorità anche materna. Alcune ancora oggi esistono e continuano ad opporre resistenza al modello patriarcale/capitalistico e alla sua globalizzazione, presenti in alcune zone dell’India, nelle isole Comore, nella confederazione irokese degli indiani d’America, dove la discendenza segue una genealogia femminile nel nome, nella linea ereditaria e/o nella dimora. Sono comunità di solito pacifiche, ordinate sul paradigma materno della cura, del bene comune, del rispetto della natura, dove l’accumulo delle ricchezze individuali trova il suo limite nella redistribuzione equa delle risorse a favore di chi è più debole o ha subito calamità naturali.

Questo dimostra che il patriarcato non era e non è l’unica risposta ai problemi legati al conflitto tra i sessi e che un altro modo di stare al mondo è possibile, anzi è urgente se vogliamo uscire da un modello di sviluppo e di consumo che sta togliendo dignità e libertà a donne e uomini, che mette a rischio la vita del pianeta e che ha radici proprio in quella cultura che pone al centro il potere al posto delle relazioni.

Con l’invenzione della scrittura ha inizio la Storia, perché è da allora che è stato possibile un suo racconto –troppo a lungo solo maschile- da tramandare alle future generazioni e far diventare patrimonio collettivo: questo racconto già al suo inizio ci dice che il sistema patriarcale è ormai consolidato e giustificato in ogni suo aspetto, il potere pubblico è di competenza esclusiva degli uomini come degli uomini è il possesso di donne e bambini. Penso ad Omero e alla Bibbia per fare solo gli esempi più noti.

La scoperta della paternità, di un ruolo maschile nella procreazione, ruolo da affermare e rendere certo, fu probabilmente elemento fondamentale, come determinante fu la maggiore forza fisica, indispensabile per procurarsi il cibo, per difendere sé stessi, la prole e le donne, per vincere ed essere riconosciuti capi a cui spetta il comando. Le possiamo immaginare, queste nostre antenate, quasi perennemente gravide o dedite all’allattamento e all’accudimento di piccoli, che come sappiamo sono inermi più a lungo di qualsiasi piccolo di animale; donne che intanto accumulavano saperi sulla vita materiale e affettiva e imparavano a riconoscere le erbe, a cuocere il cibo, si dedicavano all’agricoltura, inventavano l’arte del tessere: un ruolo essenziale per la sopravvivenza.

Ma è l’ordine simbolico del padre, del guerriero, del più forte che si struttura in ogni aspetto dell’esistenza umana e del suo racconto. La madre diventa la figura muta della storia, come è ben evidenziato nel bel libro I lumi e il cerchio (1992) della storica Emma Baeri. Diventa, la madre, parte della proprietà privata su cui comincia a strutturarsi l’economia. I monoteismi che vanno diffondendosi, confermano e in certo senso accentuano il carattere sessista del patriarcato, con un esplicito riferimento a un Dio Padre e il divieto per le donne di accesso non solo al sacro, ma anche alla libera espressione di sé e, soprattutto, della propria sessualità.

Si dice che la nostra civiltà sia nata a seguito di un matricidio e così è stato.
Ma perché gli uomini hanno dovuto uccidere simbolicamente la madre togliendole valore sociale e non riconoscendone la piena soggettività? Cosa si nasconde dietro tutto questo?

Ritorno così necessariamente alla madre come figura simbolica e come soggetto reale, recuperando non solo il prezioso lavoro teorico di psicologhe e psicoanaliste femministe, ma anche il senso della mia esperienza, prima di figlia e poi di madre, e… madre di figli maschi.

La madre in genere è ancora oggi colei che dà la vita, nutre col suo latte, e nonostante la sua presenza nel mondo del lavoro, della cultura, della politica continua a prendersi cura della prole a livello fisico ed affettivo.
Agisce un indubbio potere all’interno di un legame d’amore: il rischio è quello di esercitarlo oltre il tempo della necessità e di trasformarlo in piccole o grandi forme di dominio. La buona madre, ricordiamolo, ancora oggi è nel simbolico dominante la madre oblativa, quella che si annulla per il bene dei figli/e dando l’esempio del “vero amore” alla sua bambina e al suo bambino il quale, una volta adulto, si aspetta e pretende questa modalità da tutte le altre donne.

Figura affascinante, nata dall’egoismo infantile di avere la madre tutta per sé e di essere tutto per lei. Figura temibile, che fa paura, può abbandonarti e/o dominarti. In questo senso la madre oblativa è da un lato il pretesto, dall’altro il pilastro più solido del patriarcato. Non esisterebbe il padre padrone senza la madre oblativa.

E’ secondo me fondamentale che tutte/i prendano piena consapevolezza di quel complesso processo di crescita e di individuazione che porta ogni nato/a di donna ad uscire da una relazione simbiotica con la propria madre e che traccia due diversi destini per donne e uomini perché diverse sono le implicazioni psicologiche che vengono attivate nel distacco: la bambina, ad esempio, si separa da un soggetto a cui sente di poter somigliare, il bambino no.

Prima del femminismo nessuna teoria psicologica ha analizzato adeguatamente questa prima esperienza umana di separazione, né ha preso in considerazione l’esistenza indipendente della madre, come sostiene tra le altre la psicoanalista Jessica Benjamin la quale afferma in Legami d’amore (1991) che il dominio e la sottomissione sono il risultato del venir meno della tensione tra l’affermazione di sé e il riconoscimento dell’altro: il dominio inizia col tentativo maschile di negare la dipendenza, mentre la sottomissione non è altro che la trasposizione del desiderio femminile di riconoscimento. Una separazione è tale solo nel riconoscimento reciproco, lasciando in tensione continua amore per sé e amore per l’altra/o.

Il patriarcato è nato invece da una modalità di separazione dalla madre e quindi del maschile dal femminile per opposizione e inferiorizzazione. Questa modalità ha segnato di sé il modo di conoscere e pensare l’alterità, ogni alterità e inaugurato una struttura binaria e oppositiva del pensiero a fronte della complessità della esistenza umana, delle differenze che la abitano, dell’ambivalenza stessa del desiderio. Il pensiero binario, nato da questo dualismo sessuale ha ordinato gerarchicamente uomo e donna, soggetto e oggetto, cultura e natura, mente e corpo, ragione e sentimenti, libertà e amore…. L’uomo è diventato misura di tutto, l’universale, e la differenza femminile vista come mancante di qualcosa.

Denis de Rougemont nel suo L’amore e l’occidente sottolineva nel 1938 che è proprio da qui che si originano razzismo e totalitarismo, come in seguito grideremo nei nostri cortei contro guerra, maschilismo, razzismo, fondamentalismo. Questa radice maschile della cultura è stata a lungo occultata. Lo storico Alfredo Capone, uno dei primi in Italia che ha iniziato ad interrogarla, stimolato da studiose femministe quali Francoise Héritier, Butler, Braidotti, Haraway, in un saggio della metà degli anni novanta apparso sul n. 125 della rivista La critica sociologica, prende in considerazione la mascolinità come connotata da un fondamento biologico più debole a fronte del primato femminile nella procreazione: da qui derivano una originaria insicurezza ed emozioni specifiche che hanno portato ad una percezione oppositiva e non dialettica del femminile.

Capone si sofferma sul fatto che assumere una identità dominante, aggressiva e violenta non è stata nella storia operazione semplice né indolore: lo stanno a testimoniare i vari riti cruenti di iniziazione alla virilità come obbligata presa di distanza dal materno e dai suoi valori. Questa presa di distanza l’abbiamo vissuta e in parte la viviamo, in termini meno cruenti ma non per questo meno coercitivi, noi madri di figli maschi anche nella nostra contemporaneità. Stiamo parlando del legame d’amore primario.

Che sorte ha avuto nella cultura patriarcale il sentimento d’amore e il legame che ne consegue?
Vi segnalo su questo argomento Legami d’amore nel tempo della libertà femminile del 1998, atti di un convegno dell’Udi Romana “La Goccia”, punto di arrivo di un lungo percorso di riflessione e di studio collettivo sull’amore.
In un rapporto di potere l’amore non può essere compiutamente vissuto nella realtà; è anche per questo che nasce il sogno d’amore, desiderio di un accoglimento totale e di una reciprocità assoluta, l’amore come irrealtà e dismisura al di fuori del tempo e dello spazio, dell’umano divenire, in un’ideale fusione/appropriazione.

Luce Irigaray in Amo a te (1993) scrive che ci manca un lessico e una sintassi appropriata all’intersoggettività, cioè ad una relazione tra soggetti al di fuori delle gerarchie, dove è indispensabile riconoscere e preservare lo spazio che ci separa per uscire da logiche di dominio. Noi donne, almeno quelle della mia generazione, sappiamo bene cosa è il sogno d’amore e a quali forme di dipendenza riesce a piegarci. Ne parliamo spesso tra noi, varie studiose ne hanno scritto. Lea Meandri con le sue riflessioni da tempo ci aiuta a decodificarlo.

Per gli uomini l’amore sembra essere stato finora in stretta connessione con la separazione dalla madre nel doppio movimento di svalutazione e idealizzazione. Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso fa riferimenti continui al legame con la madre, tanto da definire l’esperienza d’amore un incesto rinnovato. Freud aveva a sua volta sostenuto che l’amore è nostalgia, nostalgia della madre. E ascoltate queste due poesie del VI Dalai Lama (1683-1706), in cui è evidente la sovrapposizione tra madre e donna amata: “A oriente, dalla cima dei monti,/ Bianca la splendente luna si levava./ Di una donna da cui non nacqui il volto/In mente mi tornava e ritornava.” “ Per offrire sacro incenso agli Dei pel matrimonio/ Mio con la madre da cui non nacqui/ A sinistra del monte,/ Di ginepro e sabina una mistura raccolsi”.

La donna, non vista nella sua piena soggettività e nel suo desiderio di libertà, è rimasta a lungo nell’immaginario e nella coscienza maschile come mito oscuro delle origini, avvolto in un senso di mistero.

L’enigma della femminilità, come lo chiama Freud, in verità è stato per millenni l’oggettivazione delle donne, anche nei legami d’amore, come scriveva Carol Gilligan (Con voce di donna 1987) e aggiungeva: le donne devono diventare soggetto, parlare di sé, dire il loro punto di vista per poter uscire dal mistero. E la teoria dell’ invidia del pene, oggi che le donne hanno preso parola pubblica su di sé, appare piuttosto come il tentativo di occultare la sempre più evidente invidia dell’utero. Pronuncio questa parola “invidia” senza enfasi, consapevole di trovarmi di fronte ad un vero e proprio ostacolo al libero dispiegarsi delle relazioni tra i generi.

Stefano Ciccone nel suo libro Essere maschi del 2009 parla di miseria della socialità e sessualità proprie del modello normativo di virilità e ci ricorda che la ricerca antropologica riporta vari riti di iniziazione che esprimono una evidente invidia maschile per il corpo fertile delle donne. Mi rendo perfettamente conto che ci vuole un grande lavoro su di sé per poter elaborare sentimenti forti e contrastanti di fronte ad una compagna che diventa la madre di tuo figlio.

Marco Deriu, in un saggio apparso nel libro Trasformare il maschile (2012), ci restituisce la sua esperienza di fronte alla nascita e crescita del primo figlio. Consapevole che nel dare accesso alla vita l’asimmetria tra donne e uomini è massima, riconosce in sé, con coraggio e amore di verità, una sorta di invidia nei confronti del seno materno e aggiunge che occorre un lavoro di ascolto e nominazione di questa invidia in uno scambio continuo tra madre e padre, tra uomini e donne, che sia il più possibile vissuto e avvertito come positivo e creativo e non come spaventoso e minaccioso.

L’invidia deve poter fare posto al riconoscimento pieno dell’altra, mentre l’ammirazione per la potenza della relazione madre-figlio/a può diventare occasione per recuperare alla dimensione maschile la tenerezza, l’empatia, quei saperi legati alla cura e all’accudimento, riconosciuti finalmente come valori pienamente umani, imprescindibili per la vita e il suo governo.

Non si tratta secondo me, come potete ben capire, di costruire un ordine simbolico della madre (quale madre? Quella reale? Quella idealizzata?) ma risignificare la figura della madre e quella del padre, attraverso un dialogo tra loro, sul piano personale e su quello politico, nelle reciproche verità, fragilità, finitezze, per costruire un ordine simbolico che sia effettivamente esito di questo scambio e in questo senso universale.

Vi invito a mettere a fuoco un altro tipo di potere femminile, ovvio in verità, che il patriarcato ha tentato di neutralizzare, ma che non ha potuto eliminare: il grande potere di seduzione che ha per un maschio eterosessuale il corpo di una donna. Anche questo potere è percepito nella sua ambivalenza di grande fascinazione/attrazione da un lato e rischio altissimo di perdita di sé e della propria libertà dall’altro. Questo corpo attrae e nello stesso tempo fa paura: per esorcizzare questa paura esso è stato svuotato della capacità di pensare, di emozionarsi, di soffrire, e in quanto luogo di massimo piacere trasformato in oggetto da possedere o da comprare e come tale trattato per millenni. C’è anche da dire che la seduzione è una carta che le donne riescono a giocare a volte a loro vantaggio, ma in verità senza cambiare nulla nella struttura sociale del potere.

Invidia e paura nei confronti del potere delle donne sono secondo me l’origine prima del dominio patriarcale; esse sono rimaste in una sorta di preistoria dei sentimenti e delle emozioni, per lo più oggetto di banalizzazione, private dello spessore politico che in effetti hanno assunto nella storia dell’umanità.

Lo stanno capendo anche gli uomini perché l’emancipazione femminile e il neofemminismo hanno prodotto spostamenti significativi non solo nella vita delle donne, ma anche in quella degli uomini. Si parla di evaporazione del padre e di crisi dell’autorità maschile.

Alcuni di loro, troppo pochi per la verità, all’interno di vari gruppi stanno facendo un percorso per liberarsi da un virilismo che avvertono ormai senza più alcuna legittimazione e di cui hanno riconosciuto la pericolosità sociale. Ma siamo costrette purtroppo a registrare ancora un sessismo diffuso nella cultura e nella politica, troppe forme di discriminazione e violenza sulle donne, anche e soprattutto nei legami di intimità, dove è palese l’incapacità di troppi uomini a riconoscere e accettare il libero desiderio di una donna, una sorta di insostenibilità che si trasforma in violenza, femminicidio,…. suicidio. E lo chiamano amore.

Anche a fronte di questa drammatica realtà a me sembra sempre più urgente un lavoro politico per riconoscere e illuminare a fondo le radici del patriarcato e i suoi effetti: ritengo particolarmente necessario un riattraversamento delle coscienze per superare il diffuso analfabetismo affettivo ed emozionale e attivare nuove dinamiche intrapsichiche. Sono convinta da tempo che enfatizzare la differenza come unica categoria interpretativa della sessuazione del soggetto umano, finisce col farci restare nella logica del dualismo sessuale.

Occorre invece maturare un pensiero complesso che sappia fare i conti con la verità dei soggetti reali, lasciando in tensione continua differenza ed uguaglianza; adottare il termine di equivalenza, dare spazio alla categoria del neutro, nel senso che diceva Luisa Passerini (Ritratto di gruppo 1988): neutro come zona di massima libertà per entrambi i generi nella sperimentazione di soggettività libere.

E’ anche quanto sosteneva la filosofa napoletana Angela Putino quando scriveva in Amiche mie isteriche (1998) che La differenza è impensabile senza articolare il suo statuto creaturale che la fa esistere e sviluppare come forma in divenire, i cui elementi sono lo slancio, l’imprevisto, il gioco. Questo aprirebbe finalmente ad una cultura dell’alterità nel riconoscimento pieno dell’altra/o e renderebbe possibile la costruzione di una democrazia finalmente compiuta, mettendo a nudo la tragica stupidità del dominio, della violenza e della guerra, di ogni guerra.

La scuola, il mondo della formazione e informazione, della cultura, la politica sono tutti luoghi da continuare ad attraversare e trasformare con nuove consapevolezze e nuove pratiche. Come?

La costruzione di relazioni tra donne al di fuori di tentazioni egemoniche resta nucleo politico fondamentale, il femminismo ha ancora una sua specifica funzione storica, così come le più recenti pratiche di relazione degli uomini tra loro alla ricerca di nuove soggettività. Ma oggi mi pare che ci siano le condizioni per riconoscere la necessità e fecondità di pratiche di condivisione tra i generi in cui imparare ad agire il conflitto fuori dalle logiche di dominio, di qualsiasi forma di dominio, in una dimensione di scambio e arricchimento reciproco. Il conflitto, infatti, non è un fine, ma passaggio obbligato per dare risposte concrete ad una ineludibile e radicalmente nuova domanda di senso che ciascuna e ciascuno porta dentro di sé.