Tagli su tutto, ma non sulle armi

Lorenzo Montanaro
Famiglia Cristiana, 2 novembre 2013

In tempi di crisi si taglia su tutto, dalle politiche sociali alla cultura, dalla scuola alla sanità, ma le spese militari sembrano intoccabili. Nel 2014 l’Italia investirà nella difesa almeno 23,6 miliardi di euro, cifra molto simile a quella dell’anno in corso e superiore di quasi 700 milioni rispetto al livello del 2012.

È quanto denuncia Francesco Vignarca, coordinatore Rete Italiana Disarmo, in un contributo apparso sul sito internet della rivista Altreconomia. Il testo esamina le bozze di Legge di Bilancio e Legge di Stabilità per il 2014. Emergono dati provvisori e ancora passibili di modifiche, ma già sufficienti per delineare la fisionomia generale delle spese militari nell’anno venturo.

Risultato: nessun taglio significativo. In realtà c’è un minimo calo, dell’1,7%: 400 milioni in meno rispetto al 2013. Ma parlare di un reale contenimento della spesa sarebbe fuori luogo, tanto più tenendo conto di alcuni aspetti. Ad esempio, osserva Viganrca, il lieve calo nei finanziamenti per il Ministero della Difesa rientra in una riduzione già stabilita in sede di bilancio 2013, alla fine dello scorso anno: «Non si tratta quindi di un “sacrificio” imprevisto ma solo del mantenimento di una precedente indicazione, e dopo che la Difesa era riuscita ad assorbire gli effetti combinati delle spending review di Tremonti e Monti con un balzo miliardario proprio tra il 2012 e il 2013».

Di sicuro, rimarca lo studioso, «un primo elemento da sottolineare, ormai purtroppo endemico, è quello riguardante la poca trasparenza». Sì, perché per trovare traccia dei soldi investiti nel comparto militare non basta guardare il bilancio del Ministero della Difesa. Si devono spulciare diverse voci, compresi i fondi del Ministero dello Sviluppo Economico e quelli decisi ad hoc per le missioni militari all’estero.

Ma anche limitandosi al bilancio della Difesa, che ovviamente è la parte centrale e più cospicua, alcuni dati sono lacunosi. Se questo è in certa misura comprensibile, visto che si tratta di cifre previsionali, «va detto che ulteriori ed utili specificazioni sarebbero state possibili fin da oggi». Soprattutto per quanto riguarda le acquisizioni di nuovi armamenti: «al momento non è possibile, salvo per alcuni casi particolari, sapere quanti soldi siano stati impegnati sul singolo sistema d’arma».

In sostanza «il Governo sta chiedendo un voto parlamentare di conferma di un bilancio che non dice dove i soldi vengano messi e che tipo di armamenti si andranno ad acquisire (o a continuarne l’acquisto)».

Non solo. Anche la ripartizione delle spese tra i vari settori della difesa fa discutere. Per le tre forze armate lo stanziamento, sebbene in calo di 350 milioni, resta comunque superiore ai 14 miliardi, mentre sono 5,6 (in minima flessione) i miliardi assegnati ai carabinieri. Continua a essere rilevante (450 milioni) l’impatto dell’indennità pagata agli ufficiali “a riposo”, come premio per il loro rimanere “a disposizione” del Governo.

Ma soprattutto, osserva ancora Vignarca, «nonostante i numerosi proclami e le velleità di riequilibrio, anche per il 2014 la parte del leone della spesa è assegnata al personale». A rimetterci è il cosiddetto “esercizio”, cioè la gestione operativa dell’addestramento dei soldati. Negli ultimi anni i costi per questo settore sono stati coperti usando come stampella i fondi per le missioni italiane all’estero, ormai divenuti una componente standard della spesa militare. «Permane quindi il rischio di blocco funzionale», rischio tante volte messo in luce dalle stesse gerarchie militari.

Infine il capitolo relativo ai fondi del Ministero dello Sviluppo Economico per “Partecipazione al Patto Atlantico e ai programmi europei aeronautici, navali, aerospaziali e di elettronica professionale”. L’ammontare previsto è di poco superiore ai 2,6 miliardi con una crescita di circa 330 milioni (il 14% in più) rispetto allo scorso anno. Da qui vengono recuperati abbondantemente i tagli relativi al bilancio proprio della Difesa.

Si va dal programma pluriennale del caccia Eurofighter (la cui ipotesi di spesa complessiva è aumentata nel 2013 di 3 miliardi) alla costruzione, di concerto con la Francia, delle fregate multi-missione Fremm (785 milioni solo nel 2014), fino alla realizzazione di un Veicolo Blindato Medio 8×8 “Freccia” per l’esercito. «Tutti programmi considerati “di particolare valenza industriale per l’impegno e l’innovazione tecnologica (…) e il consolidamento della competitività dell’industria aerospaziale ed elettronica”», commenta amaramente Vignarca. «Scuse di natura economica e industriale per mettere una foglia di fico sulla realtà».

Fonte: www.famigliacristiana.it

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Non c’è crisi per le missioni militari

Manlio Dinucci
NenaNews

Mentre le vie di Roma sono percorse da cortei che chiedono investimenti pubblici per il lavoro, la casa, i servizi sociali, nelle stanze di palazzo Montecitorio si sta varando il decreto-legge che stanzia altro denaro pubblico per le missioni militari internazionali. Denaro che va ad aggiungersi a quello per le forze armate e gli armamenti, ponendo l’Italia (documenta il Sipri) al decimo posto mondiale con una spesa militare reale di 26 miliardi di euro nel 2012, equivalente a 70 milioni al giorno.

Su cosa si stia decidendo a palazzo Montecitorio c’è assoluto silenzio mediatico. Peccato. Altrimenti i cittadini italiani in crescenti difficoltà economiche avrebbero perlomeno la soddisfazione di sapere che, solo per il trimestre ottobre-dicembre 2013, vengono stanziati 125 milioni di euro per la missione militare in Afghanistan, oltre 40 per quella in Libano, 24 per quelle nei Balcani, 15 per il «contrasto alla pirateria» nell’Oceano Indiano (più la spesa, ancora segreta, per la nuova base militare italiana a Gibuti).

Si spendono in soli tre mesi 5 milioni per partecipare alla missione Nato nel Mediterraneo (cui si aggiunge la spesa, ancora da quantificare, per quella Mare Nostrum), altri 5 per mantenere personale militare italiano a Tampa in Florida (sede del Comando centrale Usa), in Bahrain, Qatar ed Emirati arabi uniti.

Oltre 5 milioni in tre mesi vengono stanziati per i militari e gli agenti di polizia che in Libia aiutano a «fronteggiare l’immigrazione clandestina» e a mantenere e usare «le unità navali cedute dal governo italiano a quello libico». Altro denaro pubblico viene sborsato per inviare militari in Sudan, Sud Sudan, Mali, Niger, Congo e altri paesi, pagando alte indennità di missione incrementate del 30% se il personale non usufruisce di cibo e alloggio gratuiti.

Alle spese per le missioni militari si aggiungono quelle per il «sostegno ai processi di ricostruzione» e il «consolidamento dei processi di pace e stabilizzazione»: 23,6 milioni di euro in tre mesi, ai quali il ministro degli esteri può aggiungere con proprio decreto altre risorse. Già la Bonino ha annunciato che a dicembre saranno disponibili altri 10 milioni per gli «aiuti umanitari». Come lo «sminamento umanitario» in paesi che prima la Nato (Italia compresa) ha attaccato anche con bombe a grappolo che lasciano sul terreno ordigni inesplosi, o in paesi al cui interno la Nato ha fomentato la guerra. Come gli interventi di «stabilizzazione dei paesi in situazione di conflitto o post-conflitto», tipo la Libia che, demolita dalla Nato con la guerra, si trova in una caotica situazione di post-conflitto.

Tra gli «aiuti umanitari» figurano anche gli interventi «a tutela degli interessi italiani nei paesi di conflitto e post-conflitto», tipo quelli dell’Eni in Libia. Per coprire tali spese si attinge anche ai «fondi di riserva e speciali» del ministero dell’Economia e delle finanze, che così mancheranno quando si dovranno affrontare situazioni di emergenza sociale in Italia. Il ministro dell’economia è inoltre «autorizzato ad apportare le occorrenti variazioni di bilancio», cioè ad accrescere i fondi per le missioni militari. I primi a sostenere il decreto-legge sono i deputati Pd, seguiti da quelli Pdl.

L’opposizione (Sel e M5S) si limita in genere a emendamenti che non intaccano la sostanza e a criticare «il fatto che il contributo italiano alla sicurezza internazionale sia di natura esclusivamente militare». Ignorando che, con il suo «contributo militare», l’Italia non rafforza ma mina la sicurezza internazionale, e che quello «civile» è spesso il grimaldello dell’intervento militare.