Un anno fa attacco Israele, Gaza resta prigione

Michele Giorgio
Near Neast News Agency

«Il valico (di Rafah) è chiuso anche oggi. Forse aprirà tra una settimana, chi può saperlo. Decidono solo gli egiziani». Accanto a noi passano gli autocarri diretti al transito commerciale di Karem Abu Salem e Munir, il proprietario di uno dei due chioschi aperti, deve alzare la voce per farsi sentire. «Oggi è il primo caffè che preparo», ci dice. Non facciamo fatica a credergli. Intorno si vedono poche persone. Le contiamo, nove in tutto, incluse le due guardie di frontiera palestinesi. Il valico di Rafah è vuoto. Appena qualche mese fa invece era affollato e caotico, tutti i giorni: valigie grandi e piccole, passeggini per i bimbi, pacchi di ogni misura, taxi collettivi che andavano e venivano, sudore che scorreva sui volti di uomini e donne che sotto il sole cocente tornavano o andavano in Egitto.

Il colpo di stato dello scorso 3 luglio compiuto dai militari egiziani e la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi hanno cambiato tutto. Gaza grazie all’apertura di Rafah e alle merci “importate” attraverso i tunnel sotterranei con l’Egitto, aveva superato, in parte, il blocco israeliano. Poi, da un giorno all’altro, si è ritrovata indietro di anni, ai periodi più neri della sua martoriata storia. In un attimo sono sfumate anche le condizioni più favorevoli, rispetto al passato, ottenute dalla tregua tra Israele e Hamas, siglata il 21 novembre del 2012 sotto gli auspici di Mohammed Morsi, al termine di otto giorni di pesanti bombardamenti aerei e navali israeliani (170 palestinesi uccisi, tra i quali donne e bambini, centinaia i feriti).

Shady, 32 anni, è rimasto a casa anche oggi. «Dallo scorso agosto – racconta – preparo la valigia e vado a Rafah. Una volta che sono lì mi dicono che non posso passare o che il valico è chiuso. È frustrante, sono stanco, mia moglie mi aspetta da mesi e non so quando potrò raggiungerla». Shady è sposato con una italiana, si sono conosciuti quando lei lavorava a Gaza per una Ong. Nelle Marche ha comprato un casolare che cadeva a pezzi, l’ha ristrutturato e mi mostra orgoglioso le foto del risultato finale. Giovane imprenditore, con una famiglia benestante alle spalle, Shady potrebbe avere una vita agiata, felice, tra l’Italia e Gaza. Ma non è un uomo libero. «Per noi palestinesi – spiega – essere ricchi o poveri conta poco quando siamo di fronte alle autorità israeliane o di un Paese arabo. Per loro siamo solo palestinesi. I soldi possono darti dei beni materiali ma non ti comprano la libertà. Gaza è la prigione di tutti, ricchi e poveri».

Negli ultimi anni Gaza non aveva mai sofferto tanto come in questo periodo. Sami Abu Omar, un dentista, spiega le difficoltà che deve affrontare, come il resto della sua gente. «L’Egitto ha interrotto il flusso di carburante che passava per i tunnel. La centrale elettrica perciò è spenta e abbiamo elettricità solo per poche ore al giorno. In quelle poche ore si cerca di fare il possibile: si avvia la lavatrice ad esempio, si mandano le mail di lavoro, si studia, si fanno le cose più urgenti ed importanti. Prima che si fermi tutto». I generatori autonomi tengono aperti gli ospedali e garantiscono alcuni servizi pubblici e le poche famiglie che li posseggono sanno di essere privilegiate. Ma il carburante arriva solo da Israele e il suo costo è troppo elevato per Gaza, quasi tre volte di più di quello che passava clandestinamente per i tunnel. I traffici sotterranei erano la bombola d’ossigeno che teneva in vita Gaza. Si sono interrotti quando l’Egitto post Morsi ha distrutto gran parte dei circa duemila tunnel operativi tra Gaza e il Sinai. Secondo stime non ufficiali nel giro di qualche settimana hanno perduto il lavoro almeno 15 mila palestinesi impiegati nella costruzione e manutenzione delle gallerie e nel trasporto delle merci (di ogni tipo, dalle motociclette alle sigarette). L’indotto garantiva lavoro ad almeno 30 mila persone ed entrate sicure al governo di Hamas per decine di milioni di dollari, derivanti dalle “tasse sulle importazioni”. Le autorità di Gaza, qualche settimana fa, riferivano di perdite mensili per la Striscia valutabili in 230 milioni di dollari.

Hamas mantiene un profilo basso, fa di tutto per cercare di allacciare un dialogo costruttivo con le nuove autorità egiziane. «Le due parti sono unite dagli stessi valori, sanno che il bene del popolo palestinese assediato da Israele viene prima di ogni cosa. I contatti non si sono mai interrotti e presto arriveranno ai risultati sperati», ci garantisce Israa Abu Mudallah, la giovane portavoce scelta dal governo del premier Haniyeh per tenere i contatti con la stampa estera. Il tono rassicurante della portavoce non può nascondere la realtà. Hamas è di nuovo isolato, tenuto sotto pressione, accusato dagli egiziani di cooperare con i jihadisti islamici che operano nel Sinai, descritto da buona parte dei media del Cairo come “responsabile di gravi crimini”. Accuse esagerate, in molti casi prive di ogni fondamento ma che non cessano.

«I vertici di Hamas sono disperati – spiega un giornalista di Gaza che ci chiede di rimanere anonimo – il colpo di stato in Egitto e la fine del potere dei Fratelli musulmani, ha fatto precipitare il movimento islamico (palestinese) dalle stelle al punto più basso». Dopo l’offensiva militare israeliana di un anno fa, aggiunge il giornalista, «Hamas aveva toccato il cielo. La guerra lo aveva promosso ad attore strategico sulla scena regionale (alcuni razzi lanciati del movimento islamico avevano lambito persino le periferie di Tel Aviv e Gerusalemme, ndr) e la tregua lo ha poi portato a godere di importanti benefici diplomatici, grazie alle relazioni privilegiate con il presidente egiziano Morsi. È finito tutto il 3 luglio. Da quel giorno i militari egiziani e il nuovo governo egiziano stanno facendo pagare ad Hamas i suoi rapporti stretti con Morsi e i Fratelli». Più di Hamas però pagano il prezzo di questa nuova situazione i civili di Gaza.

Fino a qualche mese fa, per il valico di Rafah transitavano giornalmente mille palestinesi: malati bisognosi di cure, studenti, imprenditori e famiglie che si concedevano una piccola vacanza in Egitto, dove la vita costa meno che a Gaza. Oggi non più di 300 persone riescono ad attraversare il confine nei rari giorni di apertura del valico. Chi deve recarsi all’estero viene trasferito direttamente all’aeroporto del Cairo e tenuto sotto stretta sorveglianza fino al momento della partenza. A ciò si aggiunge la pressione crescente degli apparati di sicurezza di Hamas sulla popolazione di Gaza, frutto del timore dei vertici del movimento islamico che anche nella Striscia possano avere inizio proteste popolari, magari “sobillate” dai rivali di Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen. Quattro giorni fa sono finiti in manette diversi rappresentanti di Tamarrod, un gruppo nato sull’onda del successo dell’omonimo movimento egiziano. Tamarrod – che aveva chiesto la “sollevazione” per l’11 novembre – a Gaza conta poche centinaia di persone, non è certo in grado di impensierire Hamas che, invece, ha reagito usando il pugno di ferro contro gli “oppositori”.

Da ieri sono cominciare nella Striscia di Gaza le celebrazioni organizzate da Hamas per quella che descrive come la «vittoria» del 2012 su Israele. Marce e parate militari si svolgono nei diversi quartieri del capoluogo Gaza city e in altre località. Sono in pochi a seguirle e ad apprezzarle. L’offensiva di un anno fa per i palestinesi della Striscia ricorda dolore e morte, la strage di donne e bambini delle famiglie al Dalou e Hijazi. I feriti, i disabili, chi ha perduto la casa, gli affetti, un parente o un amico sotto la pioggia di bombe ad alto potenziale sganciate dagli aerei israeliani dal 14 novembre, giorno dell’«uccisione mirata» del comandante militare di Hamas, Ahmad Jaabari, al 21 novembre della firma di una tregua che sembrava non arrivare mai (i razzi palestinesi fecero qualche vittima in Israele). Un anno dopo Gaza è in un tunnel buio e lungo, nel quale è vietato persino sognare. «Non possiamo permetterci di sognare», dice Ebaa Rezeq, una studentessa universitaria. «Sognare – spiega – è un lusso che non possiamo avere. Io al massimo riesco a programmare la mia vita solo nella prossima ora, sperando che l’elettricità duri un po’ di più».

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Zaytoun, la fogna a cielo aperto di Gaza

Rosa Schiano

Gaza City, 18 novembre 2013, Nena News – La mancanza di energia elettrica nella Striscia di Gaza sta creando anche una crisi ambientale. Gli impianti per il trattamento delle acque reflue si fermano per mancanza di carburante. Nel quartiere di Zaytoun, nella zona est di Gaza city, una stazione di pompaggio delle acque reflue ha smesso di funzionare a causa della mancanza di energia elettrica. Le acque reflue hanno invaso le strade e le abitazioni del quartiere.

Nelle poche ore in cui c’è elettricità, le acque vengono in parte nuovamente raccolte dall’impianto, lasciando fango e melma putrida sulla quale bambini camminano per raggiungere le loro abitazioni. In altri casi, gli abitanti hanno costruito una sorta di piccoli ponti su cui camminare. In altri casi ancora, laddove questo non è possibile, bisogna cercare vie alternative per attraversare il quartiere. Abbiamo visitato l’area poco prima che l’elettricità andasse via. Quando l’impianto si ferma l’acqua di scarico comincia a sommergere nuovamente le strade.

All’ingresso di un edificio sono state messe pale di legno su cui camminare fino a raggiungere le scale. L’edificio è stato in parte evacuato, solo poche famiglie sono rimaste.

“Viviamo qui solo da un mese, e vorremmo andare via”, ci ha detto Nadia, una giovane mamma ventottenne. “Non usciamo di casa da una settimana. I miei bambini si sono ammalati, ho dovuto portarli in ospedale per capire cosa avessero. Il dottore mi ha detto che avevano contratto un’infezione a causa dell’acqua sporca, avevano febbre alta, la loro temperatura aveva superato i 40 gradi”. Nadia ha tre figlie femmine e un figlio maschio. Durante la notte non riescono a dormire a causa del cattivo odore delle acque di scarico. Ci sono insetti e topi.

Le acque reflue hanno invaso anche terreni agricoli su cui sono piantati molti alberi di olivo. Se questa emergenza non sarà risolta i terreni saranno irreversibilmente contaminati. La stazione di pompaggio, utilizzata per trasferire le acque reflue dal centro verso il sud di Gaza city, è allagata.

Gran parte del carburante arrivava a Gaza attraverso i tunnel sotterranei che collegavano la Striscia all’Egitto e ora quasi totalmente distrutti dall’esercito egiziano. Il carburante israeliano non è sufficiente ed è troppo costoso per la popolazione di Gaza: costa il doppio del carburante egiziano.

L’Autorità per l’Energia di Gaza aveva così iniziato a comprare carburante da Israele attraverso l’Autorità di Ramallah, che aveva deciso di non applicare tasse sull’acquisto di carburante. Tuttavia, l’Autorità per l’Energia in Ramallah ha chiesto all’Autorità di Gaza di pagare tasse sul rifornimento di carburante a causa della attuale crisi finanziaria dell’Autorità Palestinese. L’Autorità per l’Energia di Gaza, che non è in grado di affrontarne i costi, ha rifiutato.

L’unica centrale elettrica della Striscia è costretta quindi ora a lavorare a tempo limitato. Si prevede che nei prossimi giorni l’erogazione di elettricità sarà diminuita ulteriormente e da sei a quattro ore al giorno. “Un disastro, una catastrofe”, ripetevano i ragazzini del quartiere di Zaytoun mentre scattavamo delle fotografie. Addetti della municipalità lavoravano costantemente con stivali e guanti per contrarre il problema nelle strade. Ora il rischio è che anche altre strutture per il trattamento delle acque di scarico si fermino se dovesse finire il carburante per i loro generatori.

Le condizioni umanitarie della Striscia peggiorano. La crisi energetica colpisce tutti i bisogni quotidiani della popolazione civile e i servizi. Israele tiene la popolazione di Gaza sotto assedio da sette anni, imponendo restrizioni sulle esportazioni (quasi nulle) e le importazioni di beni, carburante, materiale da costruzione, creando così un aumento della disoccupazione, della povertà e la dipendenza dagli aiuti.