Democrazia e parità di genere: cammino in salita

Monica Fabbri
www.vociprotestanti.it

Le donne in Italia faticano ad essere scelte come proprie rappresentanti dai cittadini e dalle cittadine: sebbene le elezioni politiche di febbraio 2013 abbiano portato in Parlamento un numero di donne prima mai visto, nello stesso periodo, alle elezioni dei Consigli di alcune Regioni le donne elette dalla popolazione sono state molte poche. Come vanno letti questi numeri? Monica Fabbri (biologa, vive a Milano) ripercorre la storia delle norme che in Italia hanno aperto alle donne la partecipazione alla vita pubblica, e che nel loro ritardo sono il segno di un lungo percorso ancora da compiere. Le immagini che corredano il testo sono a cura del Progetto Scambiamente.

Nel 1994 Norberto Bobbio scriveva: “La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza.” (Norberto Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli, Roma 1994)

Purtroppo oggi possiamo dire quanto non sia stato profetico: la parità di genere è ben lungi dall’essere raggiunta, sia nella piccola società familiare sia nella grande società politica. Riguardo quest’ultima sono interessanti i dati delle elezioni più recenti. Alle politiche di febbraio 2013, si è votato con il cosiddetto “porcellum”: le liste sono state preparate dai partiti, come è ben noto. Questa volta, però, diversi partiti e movimenti hanno inserito, per propria iniziativa, un numero alto di donne, col risultato che alla camera abbiamo il 31,4% di deputate e al Senato il 27,3%. Si tratta di percentuali mai viste fino ad ora, decisamente straordinarie se pensiamo che solo qualche anno fa la percentuale si aggirava intorno al 10%.

Contemporaneamente vi sono state le elezioni in alcune regioni, fra cui Lazio e Lombardia. Nelle elezioni regionali è possibile indicare una preferenza, ma, nonostante anche in questo caso alcuni partiti abbiamo inserito nelle liste un elevato numero di candidate, i risultati sono piuttosto sconcertanti: in Lombardia, dove ha vinto il centrodestra, vi sono solo 15 donne su 80 consiglieri, e in Lazio, dove ha vinto il centrosinistra, solo 10!

Sono numeri che parlano da soli e ci raccontano una società immatura culturalmente, una società che non ha ancora acquisito i valori fondamentali dell’uguaglianza di genere.

Vale la pena, a questo proposito, di fare un breve excursus delle leggi che hanno influito sull’emancipazione femminile, partendo dal presupposto che esse sono espressione della democrazia del nostro Paese. La letteratura in merito è ovviamente piuttosto vasta, ma mi permetto di segnalare un testo per me particolarmente utile a questo scopo: “Il quinto stato”, di Ileana Alesso, di Franco Angeli Editore.

Il testo inizia con la figura di Lidia Poët, valdese originaria di Perrero, prima donna a laurearsi in giurisprudenza nel 1881, quando le Università erano state aperte alle studentesse solo da pochi anni. Dopo due anni di praticantato Poët compila la domanda per l’iscrizione all’ordine. La sua richiesta viene accolta, dopo una accesa discussione che causerà anche le dimissioni di due consiglieri. Il Procuratore del Re, però, impugna la sentenza facendo ricorso in Corte d’appello.

Purtroppo Poët perde la causa. La sentenza, riporta nelle motivazioni, anche questioni discutibili quali: ”imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste.”

Non mancano inoltre anche considerazioni prettamente estetiche: “non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre.”

Poët dovrà aspettare il 1919, quando, in seguito all’importante contributo delle donne durante la grande guerra, che le ha viste spesso sostituire gli uomini impegnati al fronte, in molti ruoli e incarichi, si decide di abolire l’autorizzazione maritale e di permettere l’accesso delle donne ai pubblici uffici. Lidia Poët si iscriverà all’albo degli avvocati all’età di 64 anni, dopo aver speso la sua vita combattendo per i diritti delle donne e degli emarginati.

Purtroppo questa stessa legge, negava l’accesso delle donne a mansioni rilevanti, quali la magistratura, non perché non venisse loro riconosciuta capacità giuridica, ma perché ritenute inidonee a ricoprire incarichi di responsabilità. Bisognerà attendere la Corte Costituzionale con la storica sentenza del 1960, e poi a seguire, la legge del 1963 che consentirà l’accesso a tutti i pubblici uffici di ambo i sessi.

Saltando il ventennio fascista, veniamo direttamente al diritto di voto, nel 1945 e alla Costituzione. Una Costituzione frutto dell’elaborazione di chi ha vissuto in forma grave e drammatica la limitazione della libertà personale e dove le discriminazioni hanno avuto conseguenze dolorose per la popolazione. Una Costituzione che sancisce l’uguaglianza degli individui, ma anche chiaramente la parità dei sessi nei confronti dell’accesso al lavoro, alla pubblica amministrazione, alla politica e all’interno della famiglia. Ci vorrà molto, troppo tempo perché le leggi promulgate dal Parlamento riescano ad applicarla.

Nel 1968 la Corte Costituzionale dichiara inammissibile la legge del codice Rocco che punisce l’adulterio femminile: non si tratta comunque di una bella pagina in termini di parità, considerando che la stessa Corte nel 1961, di fronte ad analogo ricorso, emanò sentenza opposta!

Negli anni ‘70 sono state approvate norme fondamentali per la dignità della donna: le leggi sul divorzio e sull’aborto, confermate entrambe da referendum, hanno sancito un diritto all’autodeterminazione fino allora mai riconosciuto. Nel 1975, inoltre, la riforma del diritto di famiglia, finalmente abolisce la podestà maritale conferendo ai coniugi “l’uguaglianza morale e giuridica”, come indicato nell’articolo 29 della Costituzione, emanata, non dimentichiamolo, quasi trent’anni prima. Bisognerà poi aspettare il 1981 per vedere l’abolizione dell’attenuante del delitto d’onore e addirittura il 1996 perché la violenza sessuale diventi reato contro la persona e non contro la morale.

Negli anni ‘80 vi sono le risoluzioni europee affinché vengano compiute azioni positive in favore delle donne: queste si traducono, nell’ultimo decennio del secolo scorso, in direttive che promuovo il sostegno all’impresa femminile e che impongono la presenza di entrambi i sessi nelle giunte, commissioni e liste elettorali delle amministrative. Quest’ultima normativa, del 1993, ha causato di fatto la modifica dell’articolo 51 della Costituzione, che avverrà nel 2003, in cui alla dicitura precedente “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” viene aggiunto “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.” Si sancisce così il passaggio dalla tutela alla ricerca delle pari opportunità.

Non è così semplice però applicare questo articolo, che raccomanda ma non impone: nel 2005 infatti, durante la discussione al Senato sulla modifica della legge elettorale, la ministra Stefania Prestigiacomo tenta di introdurre l’obbligo del 30% di donne nelle liste. Il resoconto di quel dibattito possiamo leggerlo dalla testimonianza del sen. Nando Dalla Chiesa, in un articolo di qui ripropongo alcuni estratti: “(…) sono rimasto sconcertato, direi quasi sgomento, nel vedere come si poneva la questione della parità uomo-donna oggi (…). Le donne parlavano e dai banchi della maggioranza ricevevano sberleffi, dileggi, gesti, suoni irriverenti. Esse cercavano allora di fronteggiare la difficoltà di farsi sentire alzando la voce, e la voce diventava naturalmente più acuta, talora urlante, e le parole fluivano con minore tranquillità emotiva. Ma questa diventava un’ulteriore ragione per essere prese in giro, per ricevere inviti sfottenti a darsi una calmata, a non arrabbiarsi ché tanto le avrebbero confermate tutte nella prossima legislatura. E nel frattempo roteavano nel chiasso le battute più volgari, con il consueto repertorio di similitudini, un campionario vasto, dalla vacca alla gallina. (…) E campeggia ancora, negli stessi resoconti, l’obiezione che se si fanno le quote per le donne poi bisognerà farle per tutte le altre «categorie».” (Unità, 2 dicembre 2005).

Questo resoconto ci fa capire quanta poca strada sia stata fatta da quando mani ottocentesche vergarono la sentenza che escluse Lidia Poët dall’albo degli avvocati.

Merita però un approfondimento l’ultima argomentazione sollevata in quell’increscioso dibattito: le donne sono forse una “categoria” da proteggere, al pari di altre? Secondo l’articolo 67 della Costituzione, infatti, sappiamo che i deputati e le deputate non hanno vincolo di mandato. E’ chiaro però che le donne non sono portatrici di interessi particolari, ma rappresentano la metà della nostra società. Non bisogna votare le donne perché sono un gruppo discriminato, esse non hanno infatti bisogno di essere rappresentate, esse sono una diversa qualità di rappresentante, per cui con forza deve essere respinta questa tesi!

Così come deve essere chiarito che non c’entra nulla il merito: tutti gli eletti e le elette dovrebbero essere persone meritevoli, ed è impensabile che non vi siano donne in grado di ricoprire incarichi importanti su così grandi numeri. Le donne non vengono votate perché è un concorso truccato culturalmente, perché la nostra società non è riuscita ancora a fare quell’importante salto di emancipazione che è stato fatto in nord-Europa.

Nei Paesi scandinavi non vi è stato bisogno di introdurre quote rosa, perché gli stessi partiti si sono fatti interpreti della parità di genere. Ed è evidente che in questo vi è una chiara influenza del protestantesimo: dove una religione sa interpretare il sacerdozio universale al passo con l’evoluzione dell’uguaglianza di genere, tutta la società saprà emanciparsi.

La stessa Chiesa Valdese ha affrontato il tema del pastorato femminile molto presto: già nel 1948 ne è stata fatta richiesta e la decisione sinodale è del 1962: è arrivato prima il sì alle donne pastore che alle donne magistrate. Anche la diffusione del linguaggio inclusivo a cui siamo ormai così avvezzi nei nostri ambienti ha contribuito alla crescita di un obiettivo di uguaglianza certamente avanzato rispetto al resto del nostro Paese. Siamo un Paese di “dottori e signore”, di uomini laureati e donne casalinghe, dove solo il 5% delle vie è intestato a donne, e spesso esse sono madonne, sante, beate o pie donne secondo Santa Romana Chiesa.

La democrazia è un campo, ma noi abbiamo l’aratro e le sementi: usiamoli senza risparmio di energia!