Siria, Al-queda dirige i ribelli

Mario Lombardo
www.altrenotizie.org

I punti di riferimento degli Stati Uniti e degli altri governi occidentali nel conflitto in Siria continuano a crollare di fronte alla sempre più evidente avanzata delle formazioni di matrice integralista sunnita tra le fila dell’opposizione anti-Assad, nonostante l’impegno diplomatico in atto per mettere in piedi una conferenza di pace nelle prossime settimane.

Questa tendenza nel paese mediorientale nel caos ormai da quasi tre anni è apparsa chiara questa settimana in seguito alla decisione di Washington e Londra di sospendere la fornitura di aiuti “non letali” destinati da tempo ai “ribelli” moderati e organizzati nel cosiddetto Libero Esercito della Siria.

L’iniziativa americana e britannica è stata annunciata mercoledì ed è la conseguenza di un episodio accaduto lo scorso venerdì, quando un altro gruppo “ribelle”, il Fronte Islamico, si è impossessato di un deposito contenente materiale arrivato dagli Stati Uniti nell’ambito della politica di sostegno mirato a beneficio dell’opposizione secolare siriana.

Gli eventi che hanno portato alla decisione degli USA e della Gran Bretagna non appaiono del tutto chiari e la ricostruzione ufficiale conferma il groviglio di rivalità e alleanze che caratterizza la galassia dell’opposizione armata in Siria.

Secondo fonti americane e dell’opposizione, in ogni caso, i fatti sarebbero avvenuti nella località settentrionale di Atmeh, dove la diffusione della notizia che gli integralisti dello Stato Islamico in Iraq e in Siria, una formazione affiliata ad al-Qaeda, stavano pianificando un attacco, per prendere il controllo del quartier generale del Consiglio Militare Supremo – l’organo di comando nominale del Libero Esercito della Siria – e di un deposito da esso controllato, ha spinto i militanti del Fronte Islamico a precipitarsi in quest’area per proteggere le strutture minacciate.

Un volta giunti sul posto, sono stati però questi ultimi ad occupare gli edifici, impadronendosi del materiale distribuito dagli americani, così come del valico di frontiera con la Turchia di Bab al-Hawa. Secondo svariati membri del Libero Esercito della Siria, la notizia dell’imminente operazione dello Stato Islamico era soltanto una voce senza fondamento diffusa per favorire l’intervento del Fronte Islamico.

La vicenda si è poi conclusa con un’autentica umiliazione per i ribelli sostenuti dall’Occidente, dal momento che l’azione del Fronte Islamico ha costretto il comandante del Consiglio Militare Supremo, generale Salim Idriss, a fuggire in Turchia.

L’ex alto ufficiale dell’esercito regolare di Damasco si sarebbe successivamente recato in Qatar per poi tornare in Turchia, dove è stato raggiunto dagli inviti americani di rientrare al più presto in Siria. Per i “ribelli”, invece, Idriss non sarebbe fuggito ma si troverebbe al confine meridionale turco trattando proprio con il Fronte Islamico.

Il Fronte Islamico Siriano è uno dei vari gruppi che si battono per rovesciare il regime di Assad e raccoglie alcune formazioni islamiste che hanno rotto con l’opposizione armata moderata filo-occidentale ma, allo stesso tempo, si oppone anche allo Stato Islamico e al Fonte al-Nusra, entrambi legati ad al-Qaeda.

Il materiale “non letale” di cui il Fronte Islamico è entrato in possesso nei giorni scorsi viene fornito regolarmente alle fazioni ritenute più moderate dal Dipartimento di Stato americano – mentre la CIA provvede alle armi e all’addestramento dei “ribelli” – e consiste in cibo, medicinali, strumentazioni elettroniche, veicoli ed equipaggiamenti vari. Gli aiuti umanitari diretti in Siria, ha fatto sapere il governo di Washington, non saranno invece interessati dall’annunciata sospensione.

Lo stop a queste forniture da parte degli Stati Uniti non dovrebbe avere un particolare impatto sulle vicende siriane ma è altamente significativo della situazione creatasi nel paese mediorientale, dove l’opposizione coltivata dall’Occidente appare sempre più debole e priva sia di un’efficace struttura militare che di un qualche seguito tra la popolazione. Per il Wall Street Journal, addirittura, il Libero Esercito della Siria starebbe letteralmente “collassando sotto la pressione degli islamisti che dominano tra i ribelli”.

Anche per queste ragioni, l’amministrazione Obama aveva recentemente approcciato proprio le formazioni che fanno parte del Fronte Islamico, così da convincere anche i suoi leader a partecipare al dialogo con il regime, da tenersi a Ginevra verosimilmente a fine gennaio, dopo avere incassato l’OK sia pure non troppo convinto del Consiglio Militare Supremo del generale Idriss.

Questa strategia era stata adottata sostanzialmente per dare qualche legittimità alla delegazione che dovrebbe prendere parte al summit battezzato “Ginevra II” di cui si parla fin dal maggio scorso e, parallelamente, rendere quanto meno ipotizzabile una qualche implementazione sul campo di un eventuale accordo di pace.

Dopo i fatti di venerdì, tuttavia, appaiono sempre più scarse le possibilità per gli Stati Uniti di includere alcune formazioni islamiste nel dialogo ancora da avviare con il regime. Tanto più che, secondo alcuni esponenti dell’opposizione filo-occidentale, l’obiettivo del Fronte Islamico nel nord della Siria sarebbe precisamente quello di ridurre ulteriormente l’influenza dei gruppi moderati. Il Fronte, d’altra parte, pur avendo collaborato in alcune occasioni con il Libero Esercito della Siria, mira apertamente alla creazione di uno stato islamico dopo la rimozione di Assad.

Come ha affermato al New York Times Andrew Tabler del Washington Institute for Near East Policy, l’amministrazione Obama si trova in definitiva a “dover scegliere tra il sostegno ai gruppi [dell’opposizione] moderati e quelli efficaci”. Mentre i primi garantiscono almeno apparentemente un’immagine secolare e democratica pur essendo sostanzialmente impotenti sul campo, le formazioni jihadiste sono le uniche a combattere con una qualche efficacia le forze del regime, anche se un loro successo finale nel conflitto finirebbe per creare più di un grattacapo all’Occidente.

Simili considerazioni sono con ogni probabilità all’esame del governo americano, da dove la retorica anti-Assad negli ultimi tempi sembra avere lasciato spazio ad una certa revisione della strategia relativa alla Siria e all’intero Medio Oriente.

Ciò risulta evidente anche dallo spazio relativamente inferiore dato nelle ultime settimane dai media “mainstream” americani alla crisi siriana, in concomitanza con la distensione dei rapporti tra USA e Iran, nonché forse con il prevalere di quelle sezioni all’interno dell’establishment governativo di Washington che ritengono fallimentare se non dannosa la politica finora perseguita nei confronti di Damasco.

L’appoggio garantito ai “ribelli” in oltre tre anni anche tramite le armi e il denaro fornito dalle monarchie del Golfo Persico ha infatti creato uno scenario a dir poco esplosivo in Siria, dove sono giunte migliaia o decine di migliaia di estremisti islamici con un’agenda prettamente settaria del tutto estranea alle aspirazioni della popolazione e minacciosa anche per gli interessi occidentali.

La resistenza inaspettata del regime anche grazie all’appoggio di Iran e Hezbollah ha fatto così scemare le speranze di quanti in Occidente auspicavano una caduta repentina di Assad, per poi concentrarsi sulla liquidazione di gruppi integralisti relativamente marginali attraverso la promozione a Damasco di una nuova classe dirigente docile e ben disposta verso Washington.

Il perdurare del conflitto si è invece risolto in un rafforzamento del regime e in un inevitabile indebolimento dell’opposizione armata, all’interno della quale però le fazioni più estreme hanno preso il sopravvento sui moderati, lasciando gli sponsor di questi ultimi senza interlocutori accettabili o presentabili all’opinione pubblica internazionale.

La soluzione ultima per evitare lo scivolamento definitivo della Siria in un baratro che farebbe impallidire i conflitti di Somalia o Afghanistan, perciò, secondo alcuni osservatori potrebbe per assurdo materializzarsi in un clamoroso voltafaccia, i cui contorni hanno preso forma nelle parole – finora senza molto seguito a livello ufficiale – pronunciate in un’intervista rilasciata al New York Times il 3 dicembre scorso dal diplomatico americano Ryan Crocker.

Secondo l’ex ambasciatore USA a Kabul e a Baghdad, ma anche a Damasco tra il 1998 e il 2001, “è necessario iniziare a discutere nuovamente con il regime di Assad… e ciò dovrà essere fatto in maniera molto molto sommessa”. D’altra parte, ha aggiunto Crocker, “per quanto sgradevole possa essere Assad non lo sarà mai quanto i jihadisti che minacciano di prendere il potere in caso di una sua caduta”.

—————————————————————-

Siria, le menzogne di Obama

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Anche se gli Stati Uniti stanno cercando in queste settimane di far partire un faticoso processo diplomatico che porti ad una soluzione pacifica della crisi in Siria, non più di tre mesi fa l’amministrazione Obama sembrava essere sul punto di scatenare una nuova e ancora più rovinosa guerra in Medio Oriente basandosi su menzogne e manipolazioni della realtà sul campo.

Come è noto, il governo di Washington aveva accusato apertamente il regime di Bashar al-Assad di avere condotto un devastante attacco con armi chimiche nei pressi di Damasco pur sapendo, come ha dimostrato una recente indagine dell’autorevole giornalista americano Seymour Hersh, che le prove disponibili potevano indicare responsabili ben diversi.

Un lungo e dettagliato articolo (“Whose sarin ?”) del veterano giornalista premio Pulitzer che attualmente collabora soprattutto con il New Yorker è apparso qualche giorno fa sulla London Review of Books, sostenendo che il presidente Obama, nel descrivere l’episodio accaduto il 21 agosto a Ghouta, “aveva da un lato omesso importanti informazioni di intelligence e dall’altro presentato semplici congetture come fatti accertati”.

In particolare, Obama “aveva mancato di riconoscere… che l’esercito regolare siriano non era l’unica parte in lotta nella guerra civile ad avere accesso al gas sarin”. Infatti, continua Hersh, nei mesi precedenti l’attacco “le agenzie di intelligence americane avevano prodotto una serie di rapporti altamente classificati, culminati in un “Operations Order” – cioè un documento che pianifica e precede un’invasione di terra – contenente prove che il Fronte al-Nusra, un gruppo jihadista affiliato ad Al-Qaeda [e attivo tra le forze di opposizione in Siria], aveva acquisito le capacità di fabbricare sarin in grande quantità”.

Nonostante questo gruppo armato che si batte per rovesciare il regime di Assad avrebbe quanto meno dovuto essere preso in considerazione per avere condotto l’attacco, l’inquilino della Casa Bianca decise al contrario di basarsi unicamente e deliberatamente sul materiale di intelligence che avrebbe permesso di giustificare un’aggressione militare contro Damasco.

In un discorso pubblico tenuto il 10 settembre scorso, Obama ha così raccontato al mondo come Assad aveva senza dubbio portato a termine un attacco con armi chimiche facendo “più di mille vittime”, descrivendo le operazioni nel dettaglio, come la distribuzione di maschere anti-gas alle truppe del regime prima che i suoi uomini colpissero i quartieri controllati dall’opposizione.

Attraverso una serie di interviste con anonimi membri dell’intelligence e dell’apparato militare degli Stati Uniti, Hersh afferma però di avere riscontrato “forti preoccupazioni” e talvolta “rabbia” per quella che viene descritta come una “deliberata manipolazione” delle informazioni a disposizione del governo.

Secondo un ex agente dell’intelligence a stelle e strisce, ad esempio, l’amministrazione Obama avrebbe “alterato le informazioni – in relazione ai tempi e alla sequenza degli eventi – per consentire al presidente e ai suoi consiglieri di fare in modo che i dati raccolti svariati giorni dopo l’attacco apparissero ottenuti e analizzati in tempo reale”, così da dare l’impressione di avere monitorato le decisioni prese dal regime e di disporre di prove inconfutabili della sua responsabilità.

In realtà, Hersh ha potuto stabilire che tra il 20 e il 22 di agosto i consueti rapporti mattutini preparati per la Casa Bianca dai militari e dall’intelligence degli USA, nei quali vengono riassunti i principali eventi militari nel mondo per i quali si dispone di informazioni, non citavano in nessun modo l’attacco di Ghouta.

Inoltre, come reso noto da un articolo di qualche mese fa del Washington Post basato su documenti segreti forniti da Edward Snowden, gli Stati Uniti disponevano di sensori segreti sul terreno in Siria per monitorare e segnalare tempestivamente ogni movimento di armamenti chimici in questo paese.

Ebbene, nelle settimane e nei giorni precedenti il 21 agosto, questo sistema di sensori non aveva prodotto alcuna allerta. Hersh spiega che ciò non escluderebbe, almeno in teoria, che le forze armate siriane abbiano potuto ottenere il sarin usato a Ghouta da altre fonti, ma dimostra in ogni caso come il governo americano non sia stato in grado di monitorare gli eventi secondo la ricostruzione fatta da Obama e dal suo entourage.

Tanto più che nel dicembre del 2012 questi sensori avevano fatto il loro lavoro, informando Washington che i militari siriani stavano producendo sarin in un deposito di armi chimiche. Successivamente sarebbe emerso che si trattava soltanto di un’esercitazione, ma gli Stati Uniti mandarono comunque un messaggio al regime per mezzo di canali diplomatici, avvertendo che l’uso del sarin sarebbe stato “del tutto inaccettabile”. Perciò, è più che legittimo chiedersi il motivo per cui l’amministrazione Obama non si era mossa anche lo scorso agosto per impedire il presunto attacco con armi chimiche da parte delle forze regolari nel caso fosse stata a conoscenza anticipatamente dell’operazione.

In ogni caso, alla Casa Bianca servirono nove giorni per mettere assieme un atto d’accusa formale contro Assad ed esso venne presentato a Washington di fronte ad un gruppo di giornalisti selezionati, da cui fu escluso, ricorda Hersh, il reporter Jonathan Landay dell’agenzia di stampa McClatchy perché frequentemente critico dell’amministrazione Obama.

Il rapporto presentato in questa occasione era significativamente attribuito al “governo” e non alla “comunità di intelligence”, dal momento che risultava essere un documento “essenzialmente politico” per supportare le accuse contro Assad. In esso si sosteneva appunto che gli USA sapevano che la Siria stava preparando armi chimiche tre giorni prima dell’attacco del 21 agosto, anche se, come si è visto, nessuno alla Casa Bianca sembrava essere stato informato in tempo reale né gli strumenti di monitoraggio del regime avevano segnalato situazioni meritevoli di attenzione.

I leader del cosiddetto Libero Esercito Siriano, dopo avere appreso che gli USA stavano monitorando i movimenti delle armi chimiche nel paese, si sarebbero in seguito lamentati con gli americani, colpevoli di non avere fatto nulla per avvertire i ribelli dell’imminente attacco o per fermare i piani del regime.

Le accuse rivolte da Obama ad Assad si basavano dunque su informazioni e intercettazioni acquisite in Siria anche molti mesi prima dell’attacco e analizzate solo nei giorni successivi al 21 agosto. In altre parole, spiega Hersh, “la valutazione fatta dalla Casa Bianca e il discorso di Obama [del 10 settembre] non riguardavano eventi specifici che hanno condotto all’attacco del 21 agosto, ma erano il resoconto della sequenza di comportamenti che l’esercito siriano avrebbe seguito in caso di una qualsiasi operazione con armi chimiche”.

Le accuse contro Damasco non era basate cioè sulla disponibilità e l’esame di informazioni relative ai fatti di Ghouta ma su una sorta di manuale di comportamento in dotazione all’esercito di Assad in caso di utilizzo di armi chimiche, nonché su frammenti di intelligence risalenti anche a più di otto mesi prima.

La ricostruzione fatta dal governo USA ha poi escluso scrupolosamente qualsiasi informazione che poteva contraddire la propria versione. In particolare, come già era accaduto per alcuni attacchi su piccola scala con armi chimiche segnalati tra marzo e aprile, l’amministrazione Obama ha ignorato dei rapporti della CIA risalenti almeno al mese di maggio nei quali si affermava come il Fronte al-Nusra e un altro gruppo fondamentalista sunnita attivo in Siria – al-Qaeda in Iraq – disponevano dei mezzi tecnici per produrre armi equipaggiate con il gas sarin. Il Fronte al-Nusra, inoltre, nella tarda primavera stava operando proprio in alcuni sobborghi di Damasco, tra cui Ghouta.

Un documento di intelligence dell’estate, inoltre, era dedicato a Ziyaad Tariq Ahmed, descritto come un esperto di armi chimiche iracheno trasferitosi in Siria e anch’egli in attività a Ghouta al servizio del Fronte al-Nusra. Tariq Ahmed era un ex membro dell’esercito iracheno, implicato proprio nella produzione di Sarin e per questo finito nel mirino degli Stati Uniti.

Nelle settimane successive all’attacco di Ghouta, l’amministrazione Obama mise comunque in atto un’offensiva pubblica per convincere sia i cittadini americani che i membri del Congresso – chiamati dal presidente stesso ad autorizzare un intervento militare in Siria – delle responsabilità di Assad. In ogni audizione, i membri del governo si erano impegnati ad assicurare come solo il regime avesse la disponibilità del sarin, escludendo invece i rapporti di intelligence che avevano mostrato l’accesso a questo gas letale da parte delle formazioni jihadiste anti-Assad.

Il desiderio mostrato dall’amministrazione Obama di attaccare la Siria senza alcuna prova concreta della colpevolezza del regime aveva provocato parecchi malumori all’interno dell’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, tanto che un consigliere per le operazioni speciali degli Stati Uniti ha confidato a Hersh che intervenire militarmente sarebbe stato in sostanza come “fornire supporto aereo al Fronte al-Nusra”.

Queste divisioni all’interno del governo hanno alla fine contribuito – assieme alla profonda avversione dell’opinione pubblica mondiale per una nuova guerra illegale – a far naufragare i piani bellici e a costringere gli USA ad accettare la proposta russa di smantellare l’arsenale chimico di Assad, approvata infine dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite lo scorso 27 settembre.

Nonostante la serietà dell’analisi e l’autorevolezza di Seymour Hersh – Premio Pulitzer nel 1970 per avere rivelato il massacro di My Lai in Vietnam e i tentativi di occultare le responsabilità USA – la sua indagine sulla London Review of Books è stata ignorata dalla gran parte dei giornali negli Stati Uniti, tra cui i “liberal” New York Times e Washington Post, impegnati tra agosto e settembre a produrre editoriali che spingevano l’amministrazione Obama a dar seguito alle proprie minacce contro Assad.

Proprio al Washington Post, così come al New Yorker per cui scrive regolarmente, Hersh aveva proposto di pubblicare il suo pezzo sui fatti di Ghouta ma entrambi hanno preferito declinare. Secondo quanto riportato dall’Huffington Post, il materiale di Hersh sarebbe stato valutato dal direttore del Washington Post, Marty Baron, e bocciato perché “le fonti dell’articolo non corrispondevano agli standard” del giornale della capitale.

Un giornale che, va ricordato, senza alcuna seria indagine o verifica dei fatti, era stato in prima linea nell’appoggiare la tesi della Casa Bianca e a promuovere un’altra guerra imperialista in Medio Oriente dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per l’intero pianeta.