Israele non legalizzerà il matrimonio gay. Ecco perché.

Liam Hoare
www.slate.com Traduzione di Flavia Vendittelli

«Una città gaia merita un sindaco gay», proclamava un poster del candidato Nitzan Horowitz durante le recenti elezioni del sindaco di Tel Aviv in ottobre. «Un voto che manda cinque gay in Consiglio», ne proclamava un altro, riferendosi alla lista di candidati del partito Meretz. In questa gara tra lo sfidante Horowitz e il popolare in carica Ron Huldai (vinta da Huldai), i candidati hanno cercato di “essere più rosa” dell’altro, facendo entrambi «promesse di aumentare i budget per la comunità gay e i servizi sociali per i giovani gay in difficoltà», ha riportato il giornalista di Ha’aretz Avshalom Halutz.

Significa forse che Israele è un faro dei diritti LGBTQ in una regione generalmente avversa ad essi? Non proprio.

Come mostra l’elezione di Tel Aviv, nel corso degli ultimi decenni i gay israeliani hanno fatto significativi passi avanti a livello legale e culturale. Il divieto di sodomia omosessuale è stato abrogato nel 1988; il divieto di discriminazione sul lavoro di persone LGBTQ emanato nel 1992 sulla falsa riga dell’ENDA; e i gay possono servire apertamente nelle forze armate dal 1993. Tel Aviv è diventata una sorta di paradiso per i gay israeliani, ha persino ospitato uno dei più grandi Pride a livello mondiale, con la benedizione del Sindaco Huldai e altre autorità politiche nazionali.

I vantaggi sono grandi – ma lo sono anche le sfide. L’Associazione per i Diritti Civili in Israele conclude che la comunità LGBTQ «deve ancora affrontare varie forme di discriminazione da parte di autorità governative e nel settore privato». In termini di accettazione sociale, un recente sondaggio dello Israel Democracy Institute ha rivelato che il 30,5% di ebrei israeliani e il 46,2% di arabi israeliani avrebbe problemi ad avere una coppia omosessuale come vicina di casa, per non parlare del 68,4% di ultra-ortodossi e del 48,4% di sionisti ebrei osservanti.

Parliamo del rompicapo matrimonio. In Israele, tutti i matrimoni validi celebrati all’estero sono riconosciuti dallo stato, e i matrimoni tra persone dello stesso sesso vengono registrati a fini statistici. Questo significa che una coppia gay sposata, diciamo, nei Paesi Bassi risulta sposata in Israele. Ma questo non significa che una coppia gay di Tel Aviv può andare al Comune e richiedere una licenza di matrimonio. In Israele il matrimonio è un’istituzione esclusivamente confessionale, con autorità religiose separate per ebrei e arabi, cristiani e drusi.

Per gli ebrei israeliani, la politica matrimoniale è dettata dal Gran Rabbinato, che è sotto l’esclusivo controllo degli ortodossi -fermamente contrari al matrimonio gay. Dato che il paese non ha matrimonio civile, le coppie gay che si vogliono sposare all’interno di Israele sono sfortunate (come qualsiasi ebreo israeliano che voglia un matrimonio non ortodosso).

Questa direttiva – secondo cui il matrimonio è sotto il controllo del rabbinato ortodosso – fa parte di ciò che gli israeliani chiamano status quo: un accordo tra ebrei religiosi e secolari per quanto riguarda l’equilibrio tra religione e stato. Lo status quo non riguarda solo il matrimonio, ma anche il sistema scolastico, il diritto di famiglia, la supervisione di ristoranti kosher e gli orari di negozi e trasporto pubblico durante lo shabbat.

Alterare lo status quo, soprattutto rispetto a qualcosa di tanto delicato come il matrimonio, è il “terzo binario” della politica israeliana. Non solo per via del potere e dell’importanza dei partiti ultra-ortodossi nel sistema politico israeliano, ma anche per il timore che cambiare lo status quo porterebbe allo sconfinamento di valori secolari nei religiosi – e viceversa. Tra i maggiori partiti politici israeliani, solo Meretz – una fazione della sinistra social-democratica – propone di capovolgere completamente lo status quo separando la religione dallo stato e legalizzando il matrimonio civile.

Ciò che gli altri partiti politici che rappresentano gli interessi secolari stanno vagliando invece sono le unioni civili ai sensi del diritto civile che potrebbero, in teoria, coesistere parallelamente al matrimonio religioso. Nell’attuale governo, Yesh Atid – un partito di centro guidato dal Ministro delle Finanze, Yair Lapid – ipotizza il varo di una legge per legittimare le unioni civili, incluse quelle tra persone dello stesso sesso. Tzipi Livni, Ministro della Giustizia israeliano, sta promuovendo un’altra legge che consentirebbe le “unioni familiari” tra coppie dello stesso sesso, garantendo così la legittimazione del consenso a vivere insieme tra due persone residenti in Israele.

Ma queste proposte quasi certamente falliranno. Secondo i termini dell’attuale coalizione, Jewish Home – un partito della destra sionista confessionale – non solo controlla il Ministero degli Affari Religiosi ma ha insistito su una clausola che obbliga tutti i partiti di governo ad approvare le misure all’unanimità quando si tratta di cambiare l’equilibrio tra religione e stato. E la posizione di Jewish Home sul problema è chiara: «Non consentiremo in nessun modo le unioni civili per le coppie gay», ha dichiarato ad Ha’aretz un funzionario anziano del partito.

Shelly Yachimovich, a capo del Partito Laburista all’opposizione, ha dichiarato la sua intenzione di varare una legge che legittima le unioni civili, ma senza il sostegno del governo è praticamente morta sul nascere. «Le leggi che non sono sostenute dalla commissione ministeriale sulla legislazione» – che decide se la coalizione di governo deve sostenere od ostacolare ad una legge – «non passano quasi mai», mi ha detto Lahav Harkov, inviata alla Knesset per il Jerusalem Post. Ha aggiunto che senza il sostegno degli altri partiti, il centro-sinistra laico non ha i voti necessari per approvare la legge.

Se c’è qualche possibilità di un compromesso sulle unioni civili per le coppie eterosessuali, la situazione per le/gli israeliane/i LGBTQ continuerà a restare insoluta. Tralasciando il matrimonio delle coppie gay, è altamente improbabile che vengano legalizzate le unioni civili tra persone dello stesso sesso, almeno per tutta la durata dell’attuale governo in carica.