L’Africa del futuro? O il futuro degli africani?

Raffaele Masto
www.buongiornoafrica.it

Inizia un nuovo anno e l’Africa appare contraddittoria come forse non lo è mai stata. Ci sono due afriche: quella di una sorta di moderno cliché che parla di un continente miracoloso dal punto di vista economico, con paesi che crescono a livelli che ormai la Vecchia Europa può solo sognare. E quella antica, di un Africa percorsa da guerre, da conflitti etnici, da standard di benessere sotto il minimo.

Ad alimentare questo secondo cliché in questi ultimi mesi sono stati una serie di avvenimenti che hanno mostrato quanto ancora l’Africa sia fragile. Eco gli avvenimenti: la grande speranza Sud Sudan, ultimo paese delle indipendenze africane, si è trasformato in una grande delusione con i due principali leader del paese – il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar – che si confrontano in una spietata lotta per il potere, lanciando le loro etnie, i Dinka e i Nuer, in un feroce tentativo di pulizia etnica. Ma quello del Sud Sudan è solo l’ultimo degli avvenimenti: c’è la Repubblica Centrafricana precipitata nel caos politico dopo il rovesciamento dell’impresentabile dittatore Francoise Bozizè.

C’è il Mali che dopo l’occupazione da parte delle forze del Jihadismo Islamico non si è più risollevato e rischia in continuazione di precipitare nella guerra. E poi ci sono una serie, ancora troppo lunga, di paesi a rischio per motivi religiosi, o di potere, o per la corruzione dilagante: Nigeria con il conflitto religioso nel Nord e la surreale setta Boko Haram; Zimbabwe, schiacciato da una dittatura ferrea di un uomo d’altri tempi, Rober Mugabe; Eritrea, paese che fornisce migliaia di candidati all’annegamento nel Mediterraneo a causa di un regime feroce e spietato. Si potrebbe continuare perché questi sono solo gli aspetti più evidenti di un Africa ancora ferma al palo.

A fianco c’è invece un Africa che è una sorta di miracolo di opportunità per gli investitori internazionali e per le multinazionali bisognose di materie prime: Angola, Mozambico, Tanzania, Ghana, Etiopia…e, anche in questo caso, si potrebbe continuare.

Insomma l’Africa è, appunto, contraddittoria. Personalmente preferisco dire che l’Africa è una realtà complessa che decide giorno per giorno quale sarà (o quale vorrebbe che fosse) il suo futuro. Una cosa che però mi sembra valida quasi a livello universale e atemporale è il fatto che, come è stato nel passato e fino ai nostri giorni, a decidere il futuro dell’Africa non sono gli africano. O almeno lo sono in minima parte perché questo continente continua ad essere una sorta di serbatoio di ricchezze, minerarie e non, sulle quali ci interessi internazionali sono forti. Tanto forti da determinare, con la complicità degli ancora troppo numerosi dittatori, quale posto deve occupare l’Africa negli equilibri mondiali.

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Le guerre dell’Africa ora spaventano l’Occidente

Domenico Quirico
www.lastampa.it

Per un anno abbiamo guardato la battaglia, gli occhi fissi sulla gigantesca scacchiera, intenti a seguire quella polvere umana, quell’arrabbiato scontro di punti neri, smarriti in mezzo all’eterna sorridente natura. L’Africa, l’Africa in guerra, dove il sangue non si raggruma mai.

Sudan, Somalia, Congo, Mali, Centrafrica, Nord Nigeria: case prendono fuoco, getti di fiamme escono da chiese che stanno per diventare braciere; donne, bambine sono trascinate via da uomini imbestiati in uniforme. Guerre di selvaggi inferociti dalla lunghezza delle lotte, che vendicano i loro morti ammonticchiati sui quali camminano. Folle urlano tra il fumo e le scintille, in uno spaventoso baccano formato da tutti i rumori: gemiti di agonizzanti, spari, crolli.

Il sole, il grande sole dell’Africa è nascosto da grandi nuvole di polvere livida, che puzza insopportabilmente di fuliggine e di sangue, come carica di tutta l’infamia del massacro.

Si uccide ancora, sempre, si distrugge in ogni angolo: la belva risvegliata, la collera stolta della tribù, l’avidità di oro, diamanti, petrolio, la follia furibonda dei fanatismi, dell’uomo che sta divorando l’uomo. Sono guerre nostre, causate da noi; eppure ci guardiamo bene dall’intavolare discorsi che potrebbero risultare imbarazzanti e per noi vani, perché il nostro rammarico giungerebbe troppo tardi.

Uno dei maggiori vantaggi della potenza e della ricchezza, per l’Occidente, è di potersi permettere di essere giusto o ingiusto a proprio piacimento. Che importano quegli uomini in posti lontani, desolati? L’Africa è un carnaio. È il carnaio dei principi veri e falsi, delle buone e cattive intenzioni. Una volta cotte tutte insieme nel sangue nella polvere e nel fango vedrete che zuppa fradicia dovremo assaggiare.

La sensibilità delle cancellerie resta intorpidita attonita. Un eguale fatalismo riconcilia nella stessa ebetudine le vittime e i carnefici. Sì, l’Africa ci fa paura perché ci accorgiamo che ne respiriamo, quasi inconsapevolmente e senza trasalire , l’aria sanguinosa. Non è nostra, orribilmente opera nostra la guerra del Sud Sudan? Nel 2011 l’America ha inventato uno Stato inesistente. Sulle rive del Nilo: acque dense come minestre, da cui emergono pianure a tratti, di foglie nere e brillanti. Due sole tinte, il bianco di ogni gradazione, dalla pura luce all’argento al cristallo, e un verde trasparente dietro cui si sente il nero della notte come un infinito. Nella gran fatica della creazione, ecco un angolo dimenticato. Un luogo bello da ferirti gli occhi. Qui il Nilo è ancora tutto Africa, tutto natura, tutto preistoria. I faraoni non sono ancora venuti al mondo. Pastori e armenti, capanne di fango, nessuna strada o città, plebi e tribù che non hanno mai visto un’auto o una scuola. Ma lì c’è il petrolio. Un altro luogo maledetto dove esseri umani si lasciano inebriare, tormentare, umiliare ed esaltare da questa ossessione. Ci voleva uno Stato in quel Nulla per giustificare i buoni affari. Ecco, vedete facciamo quel che vogliamo e manipoliamo. Voilà: il Sud Sudan corrotto, tragicamente privo di tutto, dipendente per il 95% dall’oro nero. Ma con la sua bandiera, la sua festa nazionale, il suo presidente, ex guerrigliero ricevuto a Washington come un maggiordomo esotico.

Adesso si scannano, dal 15 dicembre, non più con i nordisti maomettani, ma tra loro: i dinka del presidente Kiir contro i nuer dell’ex vice Machar, licenziato e forse aspirante golpista. Una volta lottavano per un pascolo, una vacca rubata: oggi per una pozzanghera di oro nero. Morti a migliaia, rifugiati, gente che per salvarsi si è coperta con i cadaveri.

E poi il Centrafrica. Sembrava un affare di diamanti, forse di petrolio. E invece a Bangui scorrazzano squadre di armati sistematicamente incaricati di turpi faccende. Ma non sono coltelli o vecchi mitra la loro certezza, sono le decine di gris gris, di amuleti che li coprono. Vogliono sterminare tutti i musulmani del nord i ribelli, con i loro complici ciadiani. Sono venuti per scacciare un presidente ormai scomparso dalla scena. Non aveva un’ideologia un credo una fede. Solo la cleptocrazia, il governo dei ladri. In Africa è un sistema originale di potere. Così ora uomini dagli occhi opachi come cenere danno la caccia ai «seleka» per eliminarli. Altri uomini, piccoli e impolverati, mettono nello stesso scopo, eliminare i cristiani, la stessa aria di laboriosa consuetudine. Nelle strade, sui sentieri nella savana incontri cadaveri abbandonati che nessuno raccoglie, riposano su un orribile cuscino di sangue nero coagulato. In mezzo i francesi: soldati guardano indifferenti, con sguardo di ghiaccio. Sarkozy, Hollande: la solita lercia, ipocrita «Franceafrique», ingiustizia non quella astratta dei loro moralisti e filosofi, ma l’ingiustizia viva, che lascia morire gli uomini.

Il Congo: non c’è punto del mondo più favorevole per talune preziose osservazioni sulle nuove forme dell’odio e della paura. Nelle foresta muta, assediati dalla immensità arborea, in un calore di serra, con la terra che vapora umida, morbida, viziosa, pregna di succhi, misteriosi gruppi di bambini e adolescenti armati arrancano svellendo i piedi nudi dal terriccio di putredine feconda, dall’argilla prodigiosa che ogni giorno dà una nuova forma alla creazione. Ribelli le cui sigle durano una settimana e poi spariscono, ruandesi travestiti da ribelli e soldati che fanno i banditi per sopravvivere, eserciti privati di piccoli boss che grattano il coltan o i minerali nella foresta, schiavisti che cercano bimbi da trasformare in assassini e giovinette da trasformare in prostitute. Il Congo è la guerra allo stata perfetto, dove perfino quelli che la combattono hanno smarrito il filo della Storia, e la credono la loro normale quotidianità.

A Nord, nel deserto, in Mali, ci assicurano che tutto è finito: una guerra breve, i francesi, ancora loro!, a caccia dei tuareg che si sono arruolati in al Qaeda, che sognavano un califfato sotto l’ombra delle torri di Timbuctu. Già, tutto è finito… Ma se si marcia verso Nord, sempre più lontano dalle acque del Niger, sulla crosta del deserto si stende l’arco di un immenso pugnale fatto di rocce vulcaniche, ricurvo, sfavillante di sfaccettature nere. Non si sa bene se salti fuori da Dante o da Gustave Doré. Kidal e le sue montagne: sotto quelle ardesie dicono siano sepolti tesori. I tuareg e i loro alleati zeloti-predoni si sono rannicchiati qui. Attendono che anche gli ultimi francesi se ne vadano (secondo i piani avrebbero già dovuto partire, si è dovuto rinviare per necessità); poi lentamente marceranno con i loro pick up verso Sud. Le guerre d’Africa non finiscono mai.