A proposito del genere – Il femminismo radicale e il movimento queer

Debbie Cameron e Joan Scanlon
www.massimolizzi.it  (Traduzione di Maria Rossi)

A un “femminario” organizzato nel maggio 2010 dal London Feminist Network, Debbie Cameron e Joan Scanlon [editrice della rivista Trouble & Strife] hanno discusso del concetto di genere e del suo significato per il femminismo radicale. Quanto segue è una trascrizione riveduta delle loro osservazioni.

Debbie Cameron: Il fine dell’odierna discussione è di cercare di dissipare almeno in parte la confusione teorica e politica che avvolge oggi il concetto di genere. E’ probabilmente utile cominciare col chiedersi da che cosa sia determinata questa confusione.

Oggi le conversazioni sul concetto di genere si imbattono spesso in problemi [di interpretazione], perché le persone che ne parlano usano la stessa parola attribuendogli approssimativamente lo stesso significato, ma, ad una considerazione più approfondita, si rileva che esse non affrontano le stesse questioni dallo stesso punto di vista. Per esempio, quando noi abbiamo lanciato l’antologia The Trouble & Strife Reader, alla Fiera del Libro radicale di Edimburgo, alcune studentesse sono venute in seguito a dirci che erano molto felici che fosse stato pubblicato questo libro, ma che erano sorprese che non vi si parlasse molto del genere. In realtà, il libro è completamente incentrato sul concetto di genere inteso nel senso femminista radicale, vale a dire nel senso di “relazioni di potere tra uomini e donne”, cosicché questa osservazione ci sembrava priva di senso. Joan [Scanlon] inizialmente era assolutamente sconcertata, io ho compreso, invece, cosa volessero dire le studentesse perché sono una docente universitaria e all’Università sento spesso la parola “genere” usata nel modo in cui la intendono loro.

Il fatto è che, durante gli anni Novanta, le teoriche e le attiviste queer hanno elaborato un nuovo modo di parlare del genere. Il loro approccio presentava alcuni punti in comune con il vocabolario femminista più consolidato, ma mostrava un diverso accento. La teoria soggiacente era differente (era, sostanzialmente, la teoria postmoderna, associata alla filosofa Judith Butler, anche se non penso che la stessa Butler sosterrebbe che le femministe non avessero elaborato un’analisi critica del concetto di genere). Da questo approccio derivavano scelte politiche molto differenti. Per le persone che hanno acquisito la loro formazione in quegli anni, sia imbattendosi nella teoria femminista insegnata nelle Università, sia partecipando alle scelte politiche e all’attivismo queer, il significato di “genere” è diventato quello attribuitogli dalle pensatrici queer. Queste persone hanno creduto a ciò che è stato loro detto, e cioè che le femministe degli anni Settanta e Ottanta non avessero elaborato un’analisi critica del concetto di genere o che la loro analisi non fosse corretta, in quanto le loro idee sul genere erano «essenzialiste», anziché fondate sul «costruttivismo sociale» [ n.d.t. ossia: sul concetto di identità socialmente costruita].

Non siamo affatto d’accordo con questo giudizio e fra poco spiegheremo perché. Ma cominciamo in primo luogo a confrontare il “vecchio” concetto femminista di genere e la più recente versione che è emersa dalla teoria e dall’attivismo queer degli anni Novanta.

CHE COS’È IL GENERE?

“Vecchio” concetto Il genere è un sistema di relazioni sociali e di potere strutturato sulla base della divisione binaria tra ‘uomini’ e ‘donne’. Questa suddivisione è generalmente basata sul sesso biologico, ma il genere, così come lo conosciamo, non è una realtà biologica, ma sociale (ad esempio: la mascolinità e la femminilità sono definite in modo diverso in luoghi e in epoche diverse).

Nuovo concetto Il genere è un aspetto dell’identità personale e sociale, abitualmente attribuito alla nascita sulla base del sesso biologico (ma questa corrispondenza ‘naturale’ è un’illusione, così come l’idea che debbano esistere due generi perché ci sono due sessi).

PERCHÉ QUESTO SISTEMA È OPPRESSIVO?

“Vecchio” concetto di genere Perché è fondato sulla subordinazione di un genere (le donne) all’altro (gli uomini).

“Nuovo” concetto Perché è un sistema binario rigido. Costringe ogni persona ad assumere l’identità di un uomo o di una donna (cioè: non nessuno dei due, non entrambi contemporaneamente, non un’identità che sta in mezzo a queste due o un’identità completamente diversa da queste due) e punisce chiunque non si conformi a questa regola. (Questa norma opprime tanto gli uomini che le donne e, soprattutto, le persone che non si conformano totalmente al modello prescritto al loro genere).

QUALE POTREBBE ESSERE UN POLITICA RADICALE DI GENERE?

“Vecchio” concetto di genere  Il femminismo: le donne si mobilitano per abbattere il potere maschile e anche l’intero sistema di genere. (Per le femministe radicali il numero ideale di generi dovrebbe essere…zero).

“Nuovo” concetto  Il queer: Donne e uomini rigettano il sistema binario, identificandosi come “fuorilegge del genere” (esempio: queer, trans) ed esigono il riconoscimento di un’ampia gamma di identità di genere. (Accettando questa concezione, il numero ideale di generi dovrebbe essere….infinito).

Ci sono sia somiglianze che differenze tra le due versioni. In entrambe il genere è collegato al sesso, ma non nello stesso modo; in entrambe il genere, così come lo conosciamo, è un sistema binario (ci sono, alla base, due generi) e i due approcci concorderebbero verosimilmente sul fatto che il genere è una questione di potere E di identità, ma essi differiscono relativamente all’importanza accordata all’uno o all’altro fattore. Differiscono anche perché le/i simpatizzanti della versione queer non ragionano in termini di oppressione delle donne da parte degli uomini; esse/i ritengono che le norme di genere siano più oppressive del potere gerarchico e vogliono più generi, anziché meno o nessun genere.

Per capire bene questi concetti e decidere quale giudizio darne, è utile conoscere un po’ di storia, la storia delle idee femministe e sessuali radicali. Ci sono tre questioni fondamentali che pensiamo sia utile esporre dettagliatamente:

1. E’ vero che il femminismo radicale è/era “essenzialista” nella sua concezione del genere?

2. Qual è e qual era il rapporto tra la politica di genere e la sessualità?

3. Che cos’hanno in comune il femminismo radicale e la politica queer (o genderqueer) e quali sono le loro fondamentali differenze? Quali sono i loro rispettivi obiettivi politici?

IL FEMMINISMO RADICALE È/ERA ESSENZIALISTA?

[…] Se si considera il femminismo radicale come una tradizione politica che ha prodotto, tra l’altro, un corpus di testi femministi che sono assurti al ruolo di “classici”, si sarà sorpresi (tenuto conto di quanto spesso sia stata loro rivolta l’accusa di essenzialismo) di come la concezione del genere che vi è esposta sia sempre stata non essenzialista.

Per illustrare questo punto, ho assemblato qualche citazione tratta da testi di donne generalmente considerate antesignane del femminismo radicale, fra le quali Simone de Beauvoir, che viene spesso ritenuta la fondatrice del femminismo moderno della “seconda ondata”, con il suo libro Le Deuxième Sexe (Il Secondo Sesso) (pubblicato in prima edizione nel 1949) che precede di vent’anni questa ondata. Beauvoir non era essenzialista e, benché non usasse un termine equivalente a “genere”, ( una parola che rimane del resto poco comune in Francia), parecchie sue osservazioni si basano sulla distinzione tra l’aspetto biologico e quello sociale della femminilità. Una delle frasi del suo libro che preferisco, per il suo tono freddamente sarcastico, è questa: «Un essere umano femmina non è, dunque, necessariamente una donna. Per esserlo deve partecipare a quella realtà misteriosa e minacciata che è la femminilità».

Un’altra femminista degli inizi della «seconda ondata» che è stata spesso tacciata di essenzialismo (perché ha ipotizzato che la subordinazione delle donne fosse determinata dal loro ruolo nella riproduzione e nel nutrimento) è Shulamith Firestone, autrice di The Dialectic of Sex (La Dialettica dei Sessi) (1970). Ma in realtà, Firestone non vedeva né come naturale né come inevitabile l’esistenza di una gerarchia sociale basata sulla differenza dei sessi. Al contrario, scrive nella Dialettica dei sessi:

Proprio come l’obiettivo ultimo della Rivoluzione socialista non era soltanto l’eliminazione del privilegio economico di classe, ma anche la soppressione della differenza economica tra le classi, allo stesso modo l’obiettivo ultimo della Rivoluzione femminista deve essere ….non soltanto l’eliminazione del privilegio maschile, ma anche la cancellazione della distinzione tra i sessi: le differenze genitali tra gli esseri umani non avranno più alcuna importanza culturale.

Negli scritti leggermente posteriori della femminista radicale materialista francese Christine Delphy il genere acquista senso teorico solo come prodotto dei rapporti gerarchici di potere; non è una differenza preesistente sulla quale si innesterebbero successivamente queste relazioni di potere. La posizione di Delphy può sembrare estrema agli occhi delle femministe meno radicali, ma, qualsiasi cosa se ne pensi, ben difficilmente potrebbe essere considerata meno essenzialista. Come dice lei stessa:

Quali saranno i valori, i tratti del carattere o la personalità degli individui e la cultura di una società non gerarchica, non lo sappiamo e facciamo fatica ad immaginarlo. [.. ] Forse non potremo veramente pensare il genere che il giorno in cui potremo immaginare il non genere.

Le autrici che ho citato sono tutte donne che «possono (e lo fanno) immaginare il non genere». Questa volontà di pensare seriamente a ciò che, per la maggior parte delle persone, incluse molte femministe, è impensabile – vale a dire che un mondo veramente femminista sarebbe un mondo non soltanto senza diseguaglianze di genere, ma anche senza distinzioni di genere – questa volontà, diremmo noi, è uno degli elementi distintivi del femminismo radicale, uno dei modi attraverso cui esso si caratterizza come ‘radicale’.

Un altro elemento che distingue il femminismo radicale è il modo in cui connette il genere alla sessualità e collega entrambi al potere. Gli scritti di Catharine A. MacKinnon insistono fortemente su questa relazione, come dimostra il seguente brano del suo libro Feminism Unmodified (Il femminismo irriducibile) (1987):

Nella teoria femminista del potere, la sessualità è segnata dal genere, allo stesso modo in cui il genere è sessualizzato. In altri termini, il femminismo è la teoria di come l’erotizzazione del dominio e della sottomissione crei il genere, le donne e gli uomini nelle forme sociali che conosciamo. La differenza tra i sessi e la dinamica di dominio-sottomissione si definiscono così reciprocamente. L’erotico è ciò che definisce il sesso come diseguaglianza, dunque, come differenza significativa. Questo è, a mio parere, il significato sociale della sessualità e il contributo specifico del femminismo alla presa in considerazione delle diseguaglianze di genere.

Questo mostra che alcune delle femministe radicali più conosciute hanno adottato una concezione non essenzialista sia della sessualità che del genere. Infatti, una delle prese di posizione più radicalmente non essenzialista o anti-essenzialista della sessualità che conosciamo – una concezione radicale come quella di qualsiasi teorica queer per il fatto di rifiutare l’idea di identità sessuali fisse e finite – è quella della femminista radicale Susanne Kappeler, nel suo libro Pornography of Representation (1986):

In una prospettiva politica, la sessualità, così come il linguaggio, potrebbe ricadere nella categoria delle relazioni interpersonali: una questione di scambio e di comunicazione. Le relazioni sessuali – il dialogo tra due soggetti – determinerebbero, articolerebbero una sessualità dei soggetti, così come le interazioni del discorso generano ruoli di comunicazione tra gli interlocutori. La sessualità sarebbe allora meno una questione identitaria, quella di un ruolo fissato in assenza di una prassi, che una possibilità, dotata di un potenziale di diversità e di intercambiabilità, dipendente in modo cruciale da un interlocutore /interlocutrice, da un altro soggetto e da lui co-determinato.

Spiegheremo poi perché pensiamo che le idee di queste femministe radicali sul genere, la sessualità, l’identità e il potere lancino in effetti una sfida molto più radicale allo statu quo delle idee delle teoriche queer.

Joan Scanlon: […] Occorre esaminare perché alcune femministe hanno adottato il termine «genere» per descrivere una realtà materiale – l’imposizione sistematica del potere maschile – e per farne uno strumento di cambiamento politico. Comincerò con qualche definizione, poi parlerò brevemente della storia della sessualità, del rapporto tra genere e sesso e dell’evoluzione di questo rapporto dall’inizio del secolo scorso. Offrirò anche una breve panoramica delle affinità e delle divergenze fondamentali tra il femminismo e il queer.

DEFINIZIONI: IL FEMMINISMO, IL GENERE, LA SESSUALITÀ

Alla fine degli anni Ottanta, quando io e Liz Kelly stavamo per scrivere qualcosa assieme, abbiamo deciso che, data la proliferazione dei «femminismi», dovevamo affermare che il termine «femminismo» era privo di senso se chiunque poteva attribuirgli il significato che preferiva. In altri termini: non si può avere il plurale senza il singolare. Perciò abbiamo definito il femminismo semplicemente come il «riconoscimento del fatto che le donne sono oppresse e come un impegno a cambiare questa realtà». Al di là di questa definizione, si possono avere le più diverse opinioni sulle cause dell’oppressione delle donne e le più svariate idee sulle strategie per modificare questa situazione.

In occasione del decimo anniversario della rivista Trouble & Strife, nel 1993, abbiamo chiesto a diverse donne di definire il femminismo radicale. Le loro definizioni avevano tutte questo punto in comune: ponevano come elemento centrale il fatto che il genere è un sistema di oppressione e che gli uomini e le donne sono gruppi socialmente costruiti, che esistono proprio in funzione della relazione di potere disuguale che sussiste fra di loro. Inoltre, queste definizioni affermano tutte che il femminismo radicale è radicale perché mette in discussione tutte le relazioni di potere, ivi comprese le forme estreme come la violenza maschile e l’industria del sesso (che ha sempre suscitato molte controversie in seno al movimento delle donne e costituisce oggetto di una lotta molto impopolare). Invece di limitarsi a questioni marginali attinenti al genere, il femminismo radicale affronta il problema strutturale soggiacente.

Definire il “genere” sembra essere un passaggio obbligato per comprendere la proliferazione di significati che il concetto ha assunto. Il termine “genere”, così come l’hanno sempre inteso le femministe radicali, descrive l’oppressione sistematica delle donne, in quanto gruppo subordinato, a beneficio del gruppo dominante: gli uomini. Non è un concetto astratto – descrive le circostanze materiali dell’oppressione, incluso il potere maschile che si esercita nelle istituzioni e nelle relazioni personali. Tra le circostanze materiali dell’oppressione si possono ad esempio citare: la divisione disuguale del lavoro, il sistema giudiziario penale, la maternità, la famiglia, la violenza sessuale… e così via. Tengo qui a precisare che ben poche femministe sosterrebbero che il genere non è socialmente costruito. Credo che se il femminismo radicale viene accusato di essenzialismo biologico, è perché esso ha svolto un ruolo centrale nella campagna contro la violenza maschile. Da qui il fatto che ci accusano, per un motivo o per un altro, di credere che tutti gli uomini siano naturalmente violenti. Non ho mai capito questa assenza di logica: se siete coinvolte in una politica di cambiamento, sarebbe assurdo credere che ciò che desiderate cambiare sia innato o immutabile.

Infatti, considerare che il genere, nel sistema patriarcale, scaturisca dal sesso biologico, ha l’effetto di «essenzializzare» ancora di più la sessualità e di percepirla come promanante dalla nostra stessa natura, da desideri e da sentimenti che sfuggono interamente al nostro controllo, anche se il nostro comportamento sessuale può essere disciplinato da codici morali e sociali. Dunque, per concludere con qualche definizione, prenderò a prestito da Catharine A. MacKinnon la sua definizione di sessualità come «processo sociale che crea, organizza, orienta ed esprime il desiderio». Poiché ciò indica chiaramente che il femminismo radicale interpreta la sessualità come socialmente costruita non mi soffermerò più sull’argomento per il momento, sperando che la successiva esposizione del mio pensiero apporti ulteriori chiarimenti a quanto detto sinora.

BREVE STORIA DELLA SESSUALITÀ

E’ solo attorno al 1870 che il discorso medico, scientifico e giuridico ha iniziato a classificare e a categorizzare le persone per tipi sessuali e che ha prodotto l’idea, oggi riconosciuta dagli storici e dalle storiche, dell’esistenza di una specifica identità gay o lesbica. Prima della fine del 19esimo secolo, il comportamento sessuale era concepito in termini di peccato e di reato, dunque, in termini di atti sessuali, piuttosto che di identità sessuali. Nel Regno Unito, l’omosessualità maschile è stata criminalizzata fino al 1967 e il lesbismo, senza essere mai stato illegale, è stato represso con altri mezzi; fino alla Seconda Guerra Mondiale, infatti, era un’opzione economicamente possibile solo per una piccolissima minoranza di donne privilegiate ed economicamente indipendenti. La sessualità delle donne è sempre stata controllata per mezzo della coercizione, della dipendenza economica dagli uomini e, in gran parte, tramite l’ideologia. Il saggio di Adrienne Rich “On Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence” (Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica”) (1979) mostra l’estensione e la creatività di questi mezzi di controllo.

Il genere è uno dei mezzi più efficaci di controllo della sessualità: considerata la costante riaffermazione del sistema binario di genere, se volete uscire dal ruolo di genere che vi è stato assegnato, siete passibili di essere stigmatizzate/i come omosessuali. In altri termini: se rinunciate alle gratificazioni della femminilità, per esempio diventando idraulico, o non depilandovi le gambe, o dicendo ad un uomo che vi molesta di andare a farsi fottere, vi accuseranno probabilmente di essere lesbiche. (Un uomo che non si conforma alle convenzioni della mascolinità e che vediamo spingere un passeggino, indossare abiti di color rosa o che non ama il football sarà probabilmente considerato un gay). Allo stesso modo, se siete lesbiche, ci si aspetta da voi che vi comportiate come gli uomini, che manifestiate un desiderio maschile – e le donne eterosessuali temono di piacervi e sono incoraggiate ad evitare gli spazi riservati alle donne per paura che le saltiate addosso. (Questo può forse essere meno vero oggi, ma il problema si poneva sempre in occasione degli eventi «per sole donne» all’inizio del mio impegno femminista, nel senso che le eterosessuali credevano che «riservato alle donne» significasse «per lesbiche» e davano quindi per scontato che questi luoghi e questi eventi fossero spazi e spettacoli destinati a facilitare incontri di tipo sessuale). Ad ogni modo, è in parte ciò che intendeva MacKinnon quando diceva che il «genere è sessualizzato e il sesso è plasmato dal genere» -, in altri termini, che la differenza di potere tra gli uomini e le donne è erotizzata, e noi non riconosciamo nulla come sessuale se non è connesso al potere – cosicché tutto ciò che è percepito come inerente al sesso, come l’identità gay e lesbica, è letto attraverso questo prisma ed è modellato sul genere.

I primi sessuologi hanno svolto un ruolo importante in tal senso creando e consolidando il mito secondo il quale le lesbiche erano necessariamente donne mascolinizzate e i gay uomini dalla natura femminile. E’ sempre nelle loro opere – ad esempio, quella di Richard von Krafft Ebing – che troviamo anche la nozione dell’uomo nato in un corpo di donna e viceversa. Benché i primi sessuologi abbiano demistificato molte altre credenze sui comportamenti sessuali e abbiano contribuito a contestare la criminalizzazione dell’omosessualità, presentandola come «naturale» e «innata», essi hanno, così facendo, confermato l’idea secondo la quale la sessualità era una componente essenziale della natura umana; era sia un pericolo che bisognava controllare con l’intervento dei medici, sia una forza positiva che occorreva liberare dalle costrizioni repressive della civiltà. Questi sessuologi erano spesso in disaccordo tra di loro e immersi nelle contraddizioni, ma collettivamente hanno creato e confermato il mito secondo il quale abbiamo tutti e tutte un’«autentica identità sessuale» che la sessuologia può aiutare a rivelare. Alcuni loro scritti appaiono ora un complesso di assurdità, ma non si deve sottovalutare l’importanza di questi testi nella letteratura e nell’immaginazione popolare di quell’epoca.

Per fare un esempio: Richard von Krafft Ebing (i cui casi di studio sono serviti da modelli ai personaggi di Radcyffe Hall nel suo romanzo lesbico Il pozzo della solitudine) ha sostenuto che le persone omosessuali non erano né malate mentali, né depravate- esse avevano semplicemente subito un’inversione congenita del cervello durante la gestazione. Ancora: egli era convinto che si potessero trovare segni distintivi della mascolinità nelle «invertite», confermando così la causa genetica della loro condizione. Havelock Ellis, che ha scritto la prefazione de Il pozzo della solitudine, condivideva questa idea e giungeva persino a sostenere che si potesse distinguere tra le vere «invertite», dalla natura permanente e innata, e le donne attirate dalle «invertite». Queste ultime, benché più femminili, non erano «adatte alla maternità» e, di conseguenza, erano scarsamente inclini a praticare una sessualità eterosessuale procreativa. Una posizione più articolata fu quella di Edward Carpenter: riformatore socialista e filosofo utopista. Carpenter, che usava la parola Uraniano per designare le persone attratte da altre del proprio sesso, aveva elaborato una prospettiva più mistica e lirica sull’argomento. […] Egli era molto più interessato al temperamento e alla sensibilità delle persone che ai loro segni (biologici) apparenti di devianza in relazione alle convenzioni della mascolinità e della femminilità. Credeva anche che le persone che appartenevano al «sesso intermedio» potessero un giorno servire da ponte tra le differenti classi e razze ed agire da interpreti tra gli uomini e le donne, per il fatto di condividere i caratteri dei due gruppi. Gli economisti e i politici del movimento rigettarono le concezioni di Carpenter come se si trattasse di sciocchezze sentimentali, ma è lui, tra tutti i sessuologi, quello che più si avvicina all’idea che è il genere in sé il problema e che i poli estremi del sistema binario di genere sono deleteri all’affermazione della società ideale che immagina.[…]

Il rapporto tra genere e sesso cambiò alla fine degli anni Sessanta e durante gli anni Settanta, in gran parte grazie al prorompere sulla scena del movimento delle donne e del movimento di liberazione gay. In seguito all’affermazione del femminismo e alla pubblicazione di numerosi testi fondamentali come Sexual Politics (La politica del sesso) (1970) di Kate Millett, non si considerò più il lesbismo come una sottocategoria dell’omosessualità maschile, né solo come un’identità sessuale, ma la si concepì come un’identità politica, in un contesto di relazioni di potere imperniate sul sesso. In altri termini, divenne possibile constatare che essere lesbica era connesso al fatto di essere donna, si poté rimettere in discussione l’eterosessualità come istituzione e contestare il potere nelle relazioni intime. [.. ] Il movimento delle donne della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta ha offerto a molte l’opportunità senza precedenti di conferire un senso al proprio vissuto, di teorizzarlo e di agire per trasformarlo.

Si dimentica spesso che i teorici del movimento di liberazione omosessuale avevano, all’inizio, molte affinità con il femminismo: la decostruzione della mascolinità, la rimessa in discussione della famiglia nucleare, la contestazione della misoginia e la ricerca di una sessualità egalitaria. Anche se le femministe hanno continuato ad operare in sinergia con i gay – per affrontare un’oppressione comune: l’eterosessualità istituzionalizzata – noi abbiamo anche constatato che l’accento che ponevamo sulla costruzione sociale della sessualità era in contrasto con la concezione dominante in seno al movimento gay, secondo la quale la sessualità era innata. Ad esempio, alla fine degli anni Ottanta in Gran Bretagna, nel corso della campagna contro la clausola 28 del Decreto del Governo locale (che vietava alle autorità locali di «promuovere» a scuola l’omosessualità e le famiglie «finte», cioè quelle monoparentali), l’argomento principale impiegato dal movimento gay era che non si poteva trasformare qualcuno in gay, che i gay costituivano soltanto il 10% della popolazione, che si nasceva gay e che, dunque, questo gruppo non rappresentava alcuna minaccia all’ordine costituito. E noi, naturalmente, in quanto femministe, sostenevamo il contrario; affermavamo infatti che si potesse mutare il proprio orientamento sessuale e sapevamo assolutamente di rappresentare una minaccia all’ordine costituito. L’epidemia di AIDS rese molti gay politicamente sensibili al tema della sessualità a difesa della propria libertà sessuale individuale contro la politica repressiva dell’estrema destra. Ma, invocando, una volta di più, la tolleranza del mondo eterosessuale e reclamando l’accesso ai privilegi del mondo eterosessuale (matrimonio ecc) – ciò che risultò essere una strategia efficace per il raggiungimento di questi obiettivi, proprio perché non sembravano minacciare l’ordine costituito – è possibile che questo movimento abbia aperto la strada a una politica che non ha solamente rimesso in discussione i comportamenti eteronormativi, ma ha cercato di creare uno spazio per tutte le vittime del genere espulse dal sistema binario uomo/donna e dalla parallela concezione binaria della sessualità. Si può replicare osservando che il femminismo sembrava precisamente aprire la strada a tale politica e a tale spazio; ecco perché è importante rilevare le differenze tra il femminismo e il movimento queer.

GLI ELEMENTI COMUNI AL FEMMINISMO RADICALE E AL MOVIMENTO QUEER

La concezione del genere e del sesso come costrutti sociali
Il riconoscimento del fatto che i ruoli binari di genere sono oppressivi
La comprensione del fatto che i ruoli di genere sono prodotti da una performance e confermati dalla sua costante messa in scena
L’impegno a rimettere in discussione i postulati e le pratiche eteronormative.

LE DIFFERENZE TRA IL FEMMINISMO RADICALE E IL MOVIMENTO QUEER

– Il femminismo radicale è un’analisi materialista che sostiene che il genere non è prodotto soltanto dal discorso e dalla performance, ma è un sistema nel quale un genere (il maschile) possiede il potere economico e politico e l’altro (il femminile) no – e un sistema nel quale il gruppo dominante ha interesse a conservare questa posizione.

– Il femminismo radicale comprende il riconoscimento del fatto che non si può produrre (o rimettere in discussione) il sistema di genere soltanto per mezzo del discorso o della performance individuale – che si esplica nell’ indossare certi abiti, adottare un certo linguaggio o modificare il proprio corpo. Al di fuori di certi limitati contesti, la cultura dominante interpreterà sempre questi gesti alla luce dei codici sociali dominanti e cercherà di classificarvi nella categoria uomo o donna. (In altri termini: sul métro, al supermercato o al lavoro questi gesti individuali o enunciati performativi saranno incomprensibili e sostanzialmente inefficaci come contestazioni del sistema di genere).

– Judith Butler sostiene che il femminismo, affermando che le donne costituiscono un gruppo che ha caratteristiche e interessi comuni, ha rafforzato la concezione binaria del genere, dove i generi maschile e femminile sono costruiti su corpi maschili e femminili.

Le femministe dicono che le donne hanno un interesse politico comune (anziché presentare semplicemente caratteri comuni). Esse sostengono che le donne soffrano di un’oppressione comune (che vivono in diversi modi, connessi ad altri tipi di relazioni di potere, tra i quali la razza e la classe) e che il corpo delle donne è il luogo dove si manifesta buona parte di questa oppressione. Ma ciò non implica affatto che la categoria «donne» sia una categoria indifferenziata, ma significa semplicemente che, poiché le donne sono oppresse in quanto donne, hanno bisogno di un’identità politica comune, per attivarsi efficacemente per resistere a questa oppressione.

– Il femminismo radicale persegue l’obiettivo di trasformare il sistema di genere e di contestare l’oppressione in tutte le sue forme. Così noi non ci aspettiamo nulla dall’idea di essere estranei alla norma, idea che deriva da una concezione romantica dell’oppressione. Infatti, sentirsi oppresse non è la stessa cosa che essere oppresse. Per celebrare la propria identità di persone estranee alla norma, si devono ricavare vantaggi dal sistema che fa di una persona un essere fuori dalla norma. Il movimento queer mi sembra riunire le vittime più estreme del sistema di genere e inventare un ombrello che ricopre, da un lato, le persone che sono involontariamente fuori dalla norma (provenienti generalmente dalle classi sociali più povere ed alienate, senza casco di protezione contro i pregiudizi sociali e quindi marginalizzate senza averlo scelto) e, dall’altro lato, le persone per le quali giocare ad essere fuori dalla norma è un esercizio intellettuale per privilegiati/e anziché una dura realtà di vita.

– Il queer raggruppa, secondo la propria definizione, tutti i devianti dalla norma, da ciò che è ritenuto legittimo, dalle concezioni dominanti. Dunque, il queer si caratterizza «non per un elemento positivo, ma per una specifica posizione in relazione al normativo». Ne segue che il movimento queer non ha fini politici particolari, a parte quello di sfidare i discorsi normativi dominanti; e se questi discorsi mutassero, gli esponenti del movimento queer dovrebbero allora mutare posizione, opponendosi a qualsiasi cosa diventasse normativa. Non capisco quindi molto bene quali siano i fini politici particolari del queer.

– Il queer abbraccia un’ampia gamma di identità e di pratiche sessuali non normative, alcune delle quali sono eterosessuali: «Il sadismo e il masochismo, la prostituzione, il transgender, la bisessualità, l’asessualità e l’intersessualità appaiono ai e alle teoriche queer opportunità per analizzare le differenze di classe, di razza e quelle etniche e come occasioni per riconfigurare le concezioni di piacere e di desiderio». Ad esempio Pat Califia esalta il modo in cui il sadomasochismo incoraggia la fluidità e rimette in discussione l’aspetto naturale delle dicotomie binarie della società:

«La dinamica dei rapporti tra master e slave è molto diversa dalla dinamica dei rapporti tra un uomo e una donna, tra bianchi e neri, o tra borghesi e operai. Quest’ultimo sistema è ingiusto perché attribuisce dei privilegi in funzione della razza, del genere e della classe sociale. In un incontro sado/maso i ruoli sono attribuiti e svolti in modi diversi. Se non vi piace essere uno slave o un master, passate all’altro ruolo. Provate a farlo con il vostro sesso biologico, con la vostra razza, o con la vostra condizione socio-economica!».

Questa opinione pone i e le teoriche queer in conflitto con la concezione femminista radicale, secondo la quale il sadomasochismo, la prostituzione e la pornografia sono altrettante pratiche oppressive.

– Il femminismo radicale sostiene che tutte le differenze di potere sono sessualizzate, ivi comprese quelle fondate sulla razza e sull’etnia, sulla classe e sulla disabilità e sostiene che la pornografia e l’industria del sesso in generale ne sono una delle manifestazioni più chiare e pericolose. La differenza di potere erotizzata è l’essenza stessa del porno ed è posta in essere su corpi veri e non soltanto nella fantasia dei consumatori. Inoltre, è importante chiarire del piacere e del desiderio di quali persone si parli, nel contesto di un’industria basata sullo sfruttamento e sulla violenza sessuale. Il sadomasochismo è stato un argomento molto dibattuto nell’ambito del femminismo a partire dagli anni Ottanta e, anche qui, il femminismo radicale non ha visto nulla di nuovo o di radicale nel fatto di riprodurre nelle relazioni non eteronormate la dinamica di dominio-subordinazione prevalente nell’eterosessualità. Tutti questi fenomeni, magnificati come anti eteronormativi dal movimento queer, sono già magnificati dal patriarcato e, dunque, non hanno nulla di rivoluzionario. Le femministe radicali cercano non solo di rimettere in discussione le strutture del patriarcato, ma cercano anche di smantellarle, mentre la sfida queer alla cultura normativa è una provocazione, che non si prefigge l’obiettivo politico dello smantellamento della norma, dalla quale dipende, per definizione, per esistere come atteggiamento di opposizione. Sembra anche che il queer non cerchi di liberarsi del sistema della differenza di genere, ma semplicemente di prendersi delle libertà rispetto ad esso.

Se si desidera trasformare l’apparato sociale che crea la differenza di genere che conosciamo, si devono prendere in considerazione le strutture soggiacenti, che generano e sostengono questa differenza – e si deve cercare di sradicare il genere stesso.

Senza il genere, senza la differenza di potere, la sessualità potrebbe essere semplicemente l’espressione del desiderio tra soggetti uguali.

All’inizio di questa conversazione, Debbie ha citato Shulamith Firestone. Mi sembra dunque giusto concludere parafrasando una concezione fondamentale della sua Dialettica dei sessi, concezione che ben riassume la visione femminista radicale del genere. Il compito intellettuale e teorico del femminismo – dice Firestone – è di comprendere il genere come un sistema che crea e mantiene la diseguaglianza. Il compito politico del femminismo è di sradicare il genere.