Centrafrica, la guerra “sparita”

Redazione Unimondo
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Intervista a Achille Lodovisi, esperto di armi e diritti umani

Perché secondo lei si parla così poco della guerra in Centrafrica?

Potrei rispondere con la scontata lamentela nei confronti di una informazione globale e soprattutto italiana (salvo rare eccezioni) distratta e non curante. Questo ritornello, seppur palesemente vero, non esaurisce la questione. Si assiste, infatti, al ripetersi di una lettura subdola delle vicende centrafricane infarcita di ‘fotografie’ del conflitto più o meno attendibili, amalgamate in maniera approssimativa e strumentale, che presentano quanto sta accadendo come l’ennesimo barbaro ‘genocidio’, frutto avvelenato del caos che regna in tutta la terra d’Africa tra le sponde del Mediterraneo e la frontiera sudafricana.

Poche sono le voci che si levano per interrogarsi su quali siano i motivi, le forze, gli interessi geopolitici e geoeconomici che alimentano questo inferno tremendamente reale. Il non parlare, il sottacere, il prostrarsi di fronte alla dittatura dell’indicibile, soffermandosi alla superficie del caos, è frutto della censura/autocensura? O rappresenta piuttosto una forma di accettazione implicita del processo di impoverimento ed esclusione di milioni di esseri umani? Tale processo, messo in atto dalla globalizzazione capitalistica mediante l’estrazione esasperata di valore dalla vita delle persone e dalla natura, ha trasformato vastissime aree del continente africano in terre contese e in preda al caos politico, economico e sociale. La prima condizione è strettamente legata alla seconda.

L’oggetto del contendere sono le ricchezze del suolo e del sottosuolo africano. Per tutti i protagonisti di questa guerra mondiale africana, in corso da più di venti anni, l’intralcio da rimuovere sono proprio gli africani e le loro giuste aspirazioni ad una vita più dignitosa e felice. Il colpevole silenzio o peggio ancora una sorta di ‘estetica’ del caos, con le sue semplificazioni e mezze verità (più subdole delle menzogne totali), sono l’apparato ideologico di questo conflitto globale. Tale apparato opera per occultare le reali responsabilità dei centri mondiali del potere economico e finanziario e dei loro manutengoli africani, arruolati nelle fila di classi dirigenti in parte imbelli e corrotte. Ne scaturisce lo scenario perverso di un’Africa con i suoi tesori a portata di mano, ma senza africani, ormai ‘caduti’ fuori dalla storia e dalla civiltà, trattati alla stregua di ‘residui’ disperati e inutili o, ben che vada, come oggetti di filantropia, ‘succubi’ dei poteri informali, del ‘tribalismo’, delle mafie, delle guerre per bande e del terrorismo nihilista della Jihad.

I mezzi di comunicazione diffondono la notizia che alla base di questa guerra ci sono conflitti etnici e scontri tra cristiani e musulmani… è davvero così?

Ci risiamo con la guerra tra religioni, o se si preferisce con lo scontro di civiltà, stereotipo sciagurato e devastante che ha goduto di una triste fortuna negli ultimi decenni. Chiunque abbia una conoscenza minimamente fondata della Repubblica Centrafricana sa bene che il conflitto etnico e religioso è una novità degli ultimi mesi, alimentata ad arte con l’irruzione sulla scena dei ribelli del movimento Seleka, in origine composto soprattutto da stranieri provenienti dal Darfour, molto probabilmente infiltrato da elementi jihadisti e qaedisti legati a Boko Haram e ad altri gruppi attivi nel Sahel, in Mali, Libia e Ciad. Il presidente di quest’ultimo paese, Idriss Déby (uno dei migliori alleati della Francia nella regione) ha inizialmente appoggiato politicamente la ribellione, mentre da Sudan, Mali, Libia e Ciad sono giunte le armi che hanno permesso a Seleka di rovesciare il presidente centrafricano Bozizé nel marzo scorso.

Dopo la conquista del potere da parte dei ribelli, avvenuta senza che i contingenti militari stranieri presenti nel paese (truppe africane della Forza Multinazionale dell’Africa Centrale, caschi blu dell’ONU e truppe francesi schierate a protezione dell’aeroporto di Bangui) muovessero un dito, il presidente di transizione Michel Djotodia ha sciolto Seleka. Non essendo presente da anni sul territorio un potere autorevole in grado di far rispettare le leggi e garantire la sicurezza dei cittadini (nel 2012, secondo le Nazioni Unite, in Centrafrica sono avvenuti tra i 20 e i 30 omicidi ogni 100.000 abitanti contro i meno di 10 registrati in Italia), in seguito a tale provvedimento si è immediatamente creato uno stato generalizzato di gravissimo disordine. I gruppi armati formati da ex appartenenti a Seleka si sono moltiplicati, dandosi al banditismo, al saccheggio, alle violenze. Secondo Human Right Watch, più di 1.000 abitazioni sono state deliberatamente distrutte, sono stati incendiati i tribunali, gli archivi e le sedi della polizia. Più del 10% della popolazione (su un totale di 4,5 milioni di abitanti nel 2012) vive la condizione disperata di rifugiato interno, mentre si stima che circa un milione e mezzo di persone siano prive di sufficiente sostentamento alimentare.

Il banditismo degli ex ribelli si è diffuso soprattutto nella parte settentrionale del paese, alimentato anche dall’adesione ai gruppi armati di giovani centrafricani, probabilmente attratti dal miraggio del saccheggio e del facile arricchimento. Soprattutto nella regione di Bossangoa gli scontri hanno assunto il carattere di conflitti locali a carattere interreligioso con i banditi di Seleka che hanno attaccato, incendiato e saccheggiato decine di villaggi cristiani. La popolazione di questi centri, a sua volta, si è organizzata in gruppi di autodifesa, sostenuti anche da militari rimasti fedeli a Bozizé, che hanno attaccato le postazioni di Seleka e i villaggi musulmani, macchiandosi sovente di crimini contro la loro popolazione. La triste storia di molte ‘guerre dimenticate’ degli ultimi decenni rischia così di ripetersi ancora una volta: una popolazione impaurita, affamata e priva di tutto diventa facile preda di bande che si affrontano alimentando il conflitto con l’ideologia dell’intolleranza religiosa. Poco importa che tu sia cristiano o musulmano, se non hai un’arma e non appartieni ad una banda la tua vita è costantemente in pericolo.

Ancora una volta, tuttavia, saremmo miopi se ci limitassimo ad osservare solo la superficie dei fatti. Il fallimento completo dello stato centrafricano, infatti, si sta manifestando proprio in concomitanza con l’acuirsi della lotta per il controllo delle risorse di tutta l’Africa centrale, regione in cui il Centrafrica occupa una posizione strategica.

Chi ha interesse che questi disordini continuino?

Come è noto, lo sfruttamento delle materi prime del pianeta è oggi una delle principali fonti di rendita. Le corporation dell’energia, dell’agro-alimentare, del legname e di altri settori chiave dell’economia mondiale, insieme al sistema finanziario internazionale, impegnato a imporre ai governi locali (spesso debolissimi, precipitati nella spirale perversa del debito, o corrotti) il depauperamento delle risorse naturali per estrarre valore dalla natura, stanno letteralmente mettendo a sacco l’Africa, senza rispetto alcuno per gli ecosistemi e le popolazioni. Tale processo si manifesta attraverso una lotta aspra e sordida tra i protagonisti di queste gigantesche rapine, legati a doppio filo agli apparati politici e militari delle vecchie potenze coloniali europee, degli Stati Uniti, ma anche della Cina e dell’India, entrambe fortemente interessate alle risorse africane per sostenere una crescita economica chiaramente insostenibile, delle monarchie petrolifere del Golfo, attratte dal sogno di rinverdire gli antichi fasti del Califfato, e del Sud Africa, che ambisce al ruolo di potenza regionale.

La Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri del mondo, in cui la qualità dello sviluppo umano (0,209; mentre l’Italia raggiunge lo 0,776 con l’indice massimo a 1) misurata tenendo conto della diseguaglianza sociale, per quanto riguarda il reddito, l’accesso all’istruzione e la speranza di vita alla nascita (indicatore assai importante per valutare la qualità della vita, dell’alimentazione e l’accesso alle cure sanitarie), è una delle più basse del pianeta.

Eppure il suolo ed il sottosuolo del paese sono ricchissimi e potrebbero consentire una esistenza più che dignitosa a tutta la popolazione del paese. Ciò non avviene perché anche nel caso del Centrafrica, come di altri stati africani, si è avverata la ‘maledizione’ delle materie prime. La loro abbondanza, infatti, non ha favorito la crescita qualitativa del livello di vita della gente, bensì il diffondersi della corruzione tra le classi dirigenti locali che non hanno esitato, in cambio di denaro e armi, a svendere le ricchezze nazionali ai potentati economici e finanziari che si contendono il loro sfruttamento.

Alcuni recenti episodi, collegati alle vicende politiche e militari dell’ultimo anno, sono particolarmente significativi al riguardo. Il 13 marzo 2013, pochi giorni prima di essere deposto dal colpo di stato di Seleka, il presidente Bozizé ha rilasciato una lunga intervista a Jeune Afrique in cui ha accusato alcuni petrolieri statunitensi di aver sostenuto i ribelli allo scopo di poter controllare, in seguito alla sua caduta, la promettente ricerca petrolifera nelle regioni di Djema, Carnot e della frontiera con il Ciad. Proprio nel 2103, secondo Bozizé, grazie alla collaborazione con i cinesi, il giacimento di Boromata avrebbe prodotto i primi barili di petrolio e sarebbe stato collegato con l’oleodotto che collega Kribi a Doba in Camerun. L’inizio della ribellione di Seleka ha impedito tutto e i tecnici cinesi sono rientrati in patria, ponendo termine per il momento allo sviluppo del progetto. Nel sottolineare tale episodio, l’ex presidente traccia un parallelo tra quanto accaduto in Centrafrica e ciò che è avvenuto in Libia e Mali, ponendo una domanda imbarazzante: perché la Francia non è intervenuta con eguale energia a Bangui? La risposta va cercata probabilmente nelle mosse che lo stesso Bozizé aveva fatto nel corso del 2012, dimostrando di voler abbandonare l’alleanza con il Ciad e con Parigi, per costruire un’intesa con il Sud Africa. La holding sudafricana Chancellor House (vicina all’African National Congress) aveva infatti ottenuto da Bozizé l’accesso alle concessioni diamantifere del paese, mentre la compagnia petrolifera controllata dal governo di Pretoria, la DIG Oil molto attiva nello sfruttamento dei giacimenti congolesi, ha avuto il permesso di esplorare la zona petrolifera nella regione sud occidentale. In cambio, l’ex presidente aveva preteso denaro, armi e un contingente militare composto da 300 uomini da porre ‘a guardia’ delle sue fortune politiche. Significativamente, l’unica vera ‘battaglia’ sostenuta da Seleka nel corso della conquista di Bangui è stata combattuta proprio contro i soldati sudafricani, che hanno avuto la peggio e sono rientrati in patria.

Il perdurare del caos, quindi, serve a spostare di volta in volta gli equilibri precari di questa guerra per il controllo delle materie prime che si combatte sulla pelle degli africani e del loro diritto a costruire un futuro migliore. Francia e Stati Uniti dispongono di basi militari in Senegal, Mali, Costa d’Avorio, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Repubblica Centrafricana (base francese di Bangui), mentre le zone di ‘attrito’ tra gli interessi occidentali e quelli cinesi si distribuiscono tutte attorno ai confini orientali, settentrionali e occidentali della Repubblica Centrafricana, in una vasta regione compresa tra il Mar Rosso e l’Oceano Atlantico e tra il Golfo di Guinea e le coste dell’Angola. Lungo la direttrice Mar Rosso-Oceano Atlantico si dispiega anche l’azione del terrorismo e del banditismo jihadista, che ha le sue basi di partenza e i suoi sostenitori nella penisola arabica e in Libia. L’ambizione sudafricana ad esercitare il ruolo di potenza regionale segue invece una direttrice sud-nord, in cui l’Angola, il bacino del Congo e il Centrafrica sono considerate terre di espansione dell’influenza di Pretoria.

Cosa pensa dovrebbero fare le grandi potenze del mondo per alleviare la sofferenza della popolazione centrafricana in questo momento?

In questi giorni, Human Right Watch ha lanciato un appello affinché la Comunità internazionale si decida ad agire con decisione per evitare che la situazione degeneri completamente in una guerra civile su basi etnico-religiose che provocherebbe una autentica catastrofe umanitaria, con il rischio concreto di un allargamento del conflitto agli stati limitrofi. Si chiede alle Nazioni Unite lo schieramento immediato di una forza per il mantenimento della pace numerosa (con un maggior numero di effettivi rispetto ai 3.600 soldati che dovrebbero formare da dicembre la MISCA – Missione Internazionale di Sostegno al Centrafrica), ben organizzata, capace di agire concretamente sul territorio per separare e disarmare le fazioni in lotta, garantire l’afflusso di aiuti soprattutto alimentari, la sicurezza della popolazione e il ritorno dei rifugiati alle loro case. Non si può che concordare con tale richiesta: a nulla servono, se non a difendere inconfessabili interessi e compromessi, i contingenti che si limitano ad osservare ciò che accade, asserragliandosi nei fortini. Purtroppo non ci sono a tutt’oggi (inizio di dicembre) segnali concreti di una volontà delle principali potenze mondiali di fermare il conflitto in Centrafrica e nemmeno si conosce precisamente quale sarà la decisione finale delle Nazioni Unite. Anche i movimenti in corso di truppe francesi assomigliano più ad un passo preventivo per garantire interessi specifici di Parigi, nel caso la situazione dovesse precipitare completamente, che ad una concreta volontà di portare la pace nel paese.

Quale deve essere il ruolo dei missionari in una situazione come questa?

Essere sempre e comunque vicini alla popolazione che soffre e sta sostenendo il peso terribile della guerra per bande e di saccheggio. È importantissimo non solo portare un aiuto concreto ai tanti che soffrono e vedono il loro corpo, quello dei loro cari, la loro casa, il loro villaggio trasformati nel campo di battaglia e nella preda. Sarebbe importante esprimere tale vicinanza anche mediante una profonda riflessione sulla natura di questo genere di guerra nihilista, la cui fenomenologia è ormai prevalente in molti conflitti, non solo africani. Intendo dire che sarebbe quanto mai necessaria una denuncia radicale dei veri obiettivi di chi precipita interi paesi in un simile incubo. Il saccheggio dei beni materiali e delle risorse naturali è solo uno di questi obiettivi, il più grossolano e immediato, ma ne esiste un altro, più devastante e subdolo: la distruzione dei legami familiari, sociali, di comunità. La guerra distrugge, disgiunge, mente per ‘eliminare’ lo spirito di comunità ed il senso del bene comune delle popolazioni africane, unica garanzia per la risoluzione pacifica dei problemi e per lo sviluppo umano di queste genti. I missionari e tutti coloro che sono vicini alle vittime innocenti, tutte le donne e gli uomini di pace dovrebbero perciò agire costruendo, unendo e ricercando sempre e comunque la verità

Come andrà a finire?

È una domanda cui è veramente molto difficile rispondere. Stento a credere che un eventuale serio intervento internazionale sotto l’egida della Nazioni Unite e dell’Unione Africana, qualora si concretasse, riesca ad avviare a soluzione definitiva il gravissimo problema della sicurezza della popolazione. Se condotto con sagacia, lungimiranza e rispetto senza perseguire interessi particolari legati allo sfruttamento delle risorse minerarie, petrolifere e diamantifere (caratteristiche assai rare da riscontrare negli interventi di peacekeeping sinora effettuati), l’intervento potrebbe portare quantomeno ad una tregua reale, ad un sollievo temporaneo per la provatissima popolazione. Credo, tuttavia, che nel medio e lungo periodo anche una stabilizzazione temporanea avrebbe poco successo. Contemporaneamente ad essa, infatti, i centrafricani dovrebbero prendere decisamente nelle loro mani il destino del paese, cercando soluzioni concrete per eliminare i tremendi squilibri che devastano la società, assicurando in maniera durevole l’autosufficienza alimentare, l’assistenza sanitaria, la formazione scolastica e la sicurezza della popolazione. L’enorme patrimonio di risorse naturali dovrebbe essere messo al servizio del raggiungimento di tali obiettivi. Come si può capire, il cammino da compiere è molto lungo e disseminato di grandi difficoltà, ma è l’unico possibile se non si vuole consegnare un intero popolo allo ‘spirito’ del caos.