Lettera di risposta al Questionario diffuso in vista dei Sinodi dei vescovi 2014-15 sulla famiglia di CdbSanPaolo

Comunità cristiana di base di San Paolo in Roma

 La Comunità cristiana di base di S. Paolo in Roma ha cercato da sempre di essere presente, direttamente, se possibile, o con documenti scritti, agli appuntamenti più importanti della Chiesa cattolica in Italia e, a livello più ampio, ha mandato le proprie riflessioni ai Sinodi dei vescovi in fase preparatoria. Tanto più volentieri partecipiamo ora agli annunciati eventi ecclesiali, in quanto ci sembra che la decisione di papa Francesco, in vista delle due Assemblee sinodali del 2014 e del 2015 dedicate alla famiglia, di fare partecipare tutto il mondo cattolico ad un Questionario sullo stesso tema, rappresenti un fatto inedito, coraggioso e – se davvero e coerentemente perseguito – preannuncio, speriamo,  di altri passi decisi verso un rinnovamento  della Chiesa cattolica romana secondo l’evangelo di Gesù.

Il capitolo II della Lumen gentium (la costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II) aveva affermato il primato del “popolo di Dio”: di fatto, quell’affermazione non aveva però trovato, finora, nessuna concreta realizzazione a livello di Chiesa universale. In tale contesto, l’iniziativa di papa Francesco, che domanda non solo ai vescovi ma, anche, alle variegate comunità cattoliche e perfino ai singoli fedeli, uomini e donne, di esprimere la loro opinione su come orientare la pastorale circa  problemi incombenti e delicati – come la contraccezione, le coppie di fatto, le unioni omosessuali, i divorziati risposati…  – sembra a noi rappresentare un modo germinale, incipiente ma reale, per attuare concretamente il Vaticano II e rendere la Chiesa la “casa di tutti” e non in mano semplicemente al clero. Questa linea – seppure alcune domande del Questionario sembrino basate sul presupposto Chiesa = gerarchia, equivalenza biblicamente improponibile, e stridente dopo il Vaticano II – attua parzialmente l’antico principio ecclesiale secondo cui “quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet.” D’altronde, le pregnanti affermazioni conciliari sulla compartecipazione e sulla corresponsabilità di tutti e tutte nella Chiesa, e sulla collegialità episcopale, innervano anche la recentissima esortazione apostolica Evangelii gaudium che noi leggiamo come un invito solenne ad assumersi con “gioia” l’impegno di cercare di fare nostre, nella complessità della storia e malgrado i nostri limiti, le Beatitudini proposte da Gesù.

L’iniziativa di papa  Francesco ci ha portato a ripensare al nostro percorso, ed a ricordare la nostra concreta esperienza; un’esperienza che viene da lontano, essendo nata subito dopo la conclusione del Concilio, nel clima di rinnovato fervore liturgico e impegno nel sociale che si andava diffondendo e che Giovanni Franzoni, allora abate di san Paolo fuori le Mura e padre conciliare, incarnava per noi e per tutti i monaci e i laici che attorno a lui si riunivano. Senza entrare qui in discussioni di carattere generale, ricordiamo altresì che nella materia oggetto delle attenzioni dei prossimi due Sinodi, già in quegli anni  il nostro orientamento era piuttosto  indirizzato a privilegiare l’ortoprassi rispetto al formale ossequio alle norme ecclesiastiche. Per fare un esempio emblematico, nel 1971 fu  celebrato in basilica il matrimonio tra due persone (un operaio e una casalinga) la cui fede era ben nota e che ardentemente desideravano il matrimonio in chiesa ma che si erano visti respingere dalle loro parrocchie in quanto notoriamente comunisti e pertanto “scomunicati”.

I casi di accoglienza “al limite” si sono poi moltiplicati dopo l’esodo forzoso dalla basilica (1973). Un evento, questo, particolarmente doloroso, perché non dovuto a ragioni dottrinali, ma a prassi pastorali allora ritenute scandalose in Vaticano e che oggi invece, grazie a Dio, trovano sempre maggiore cittadinanza nella Chiesa romana, come la libertà di scelta dei cattolici in campo politico e il richiamo al primato della coscienza. Questi princìpi, ovvii, in occasione dei referendum sulle leggi del divorzio (1974) e dell’aborto (1981) furono negati da gran parte delle gerarchie ecclesiastiche. Queste specifiche circostanze hanno portato la nostra Comunità a sforzarsi di essere un luogo di accoglienza e ascolto di chiunque, anche in situazioni canonicamente difficili, mostrasse desiderio di vivere la propria fede in un contesto ecclesiale.

Il prezzo pagato per queste scelte, in un orizzonte ecclesiale e culturale che in gran parte era ancora legato alle tradizioni del passato e vedeva con timore ogni innovazione, è stato alto; in particolare a Giovanni, nostro presbitero, è costato prima la sospensione a divinis e poi la riduzione allo stato laicale.

Nonostante tali incomprensioni e sofferenze, sentivamo e sentiamo in questa nostra prassi, fatte ovviamente le debite e grandissime differenze, di seguire l’insegnamento dell’apostolo Paolo che di fronte a situazioni nuove che gli venivano proposte dalle nascenti comunità, sapeva magistralmente coniugare, con grande flessibilità e sensibilità pastorale, la fedeltà  a Gesù, unico fondamento della Chiesa, che è anzi il suo corpo, con le nuove realtà storiche.

Così, la circostanza che nella nostra Comunità si siano avvicendati o soffermati omosessuali ai quali era reso difficile il permanere nelle rispettive parrocchie dove si sentivano censurati ogniqualvolta avessero voluto esprimere alla luce del sole la loro affettività, ha costituito per loro una rinnovata fiducia nella rivelazione salvifica del Cristo, e per noi occasione di arricchimento e di ricerca dei fondamenti della nostra fede.

La rilettura della Bibbia alla luce di fatti relativamente nuovi ci convince sempre più della necessità, da molti e da molto tempo rilevata, di superare interpretazioni letterali della Scrittura, la quale, se è parola viva, deve rispondere alle nuove esigenze che la vita, in continua evoluzione, propone. Gli omosessuali non si ritrovano nel mito della creazione narrato nella Genesi. Lì ci sono solo maschi e femmine destinati ad aiutarsi e  a riprodursi e per questo la loro specificità è stata per millenni percepita come destabilizzante anomalia, figlia del peccato originale, spesso punita come volontaria ribellione ai comandi del Signore. Oggi i credenti tendono più a leggere in quella narrazione, figlia del suo tempo oltre che dello Spirito, il principio che mascolinità e femminilità sono due condizioni entrambe riconducibili alla volontà divina, che in vari modi si realizzano nelle persone concretamente intese e la cui positività o negatività si  manifesta nei comportamenti posti in atto di volta in volta, e non a priori. In altre parole, conosciamo relazioni omosessuali vissute nella reciproca tenerezza, rispetto e dedizione, e relazioni eterosessuali, pur unite nel  matrimonio, che contraddicono al principio  dell’amore che dovrebbe alla base dell’unione. Insomma, se possiamo permetterci un richiamo alla intuizione paolina, in quei tempi rivoluzionaria, secondo cui “[In Cristo] non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo o donna” (Gal 3,28) e rivisitare l’affermazione alla luce di ciò che oggi la scienza ci dice, si potrebbe aggiungere “né eterosessuali, né omosessuali”.

Tali esperienze e considerazioni ci inducono a suggerire estrema prudenza anche nel riferirsi alla “legge naturale” (continuamente invocata invece da Paolo VI nell’enciclica Humanae vitae) come ad un fondamento ultimo sul quale tutti, credenti e non credenti, dovrebbero convenire. Infatti, anche la legge naturale può essere  percepita in modi diversi a seconda dei tempi, delle fedi  e delle culture. Per quanto tempo, nel corso dell’evoluzione, è stata probabilmente “legge naturale” lasciar morire i più deboli per non rallentare il cammino, o la fuga, di una tribù? E quando, finalmente, ha cominciato a farsi strada l’amore fino al sacrificio per salvare un proprio simile, non poteva apparire questo un “atto contro natura”? Non era forse un tempo, nella Chiesa, considerata “contro natura” l’idea di riconoscere a tutti la libertà religiosa, col pretesto che con questa si sarebbe legittimata la libertà di professare una falsa dottrina, di vivere nell’errore e di dannarsi così per l’eternità? Sappiamo tutti quali lacerazioni e incomprensioni possono produrre atteggiamenti affrettati  e applicazioni di princìpi astratti in casi concreti, come nel problema del fine-vita (si ricordino i casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby con quella bara lasciata lì, davanti alla chiesa inesorabilmente chiusa).

Con questo spirito, e cercando di dare il nostro contributo alla riflessione ecclesiale, più volte in passato approntammo il nostro contributo a varie Assemblee sinodali: solo per citarne alcune, ricordiamo il documento inviato nel 1980 proprio al Sinodo dedicato alla famiglia; quello del 1983 su “Riconciliazione e penitenza nella missione della Chiesa”; quello del 2005 sull’Eucaristia; e, infine, quello del 2008 sulla “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”. Non ottenemmo mai, a dire la verità, alcuna risposta ufficiale! Adesso, però, ci sembra di sentire musica nuova: ci sbagliamo? Oggi ascoltiamo con gioia l’esortazione apostolica di papa Francesco a non fare trovare mai una Chiesa con la porta chiusa e a tener presente che “l’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (EG 47). Quest’ultima affermazione ci introduce ad affrontare con fiducia altre due situazioni prese in esame dal Questionario approntato dalla Segreteria del Sinodo: quella delle unioni di fatto, nelle loro varie sfumature, e dell’accoglienza dei divorziati risposati.

A questo proposito non presumiamo certo che la nostra esperienza possa essere significativa statisticamente, sia vista la nostra modesta consistenza quantitativa (un centinaio di persone  compartecipano mediamente alle nostre Eucaristie)  sia  per la nostra prassi di non chiedere attestati di buona condotta a chi condivide con noi la comunione; ma non possiamo che partire da essa per il nostro argomentare. Tutti e tutte ci accostiamo  alla mensa del Signore e  preghiamo insieme,  ma spesso nella preparazione  della Cena del Signore e nella liturgia della parola ricordiamo che il mangiare di quel pane e il bere di quel vino richiede poi un comportamento coerente nella nostra vita “perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (I Cor 11,29: qui Paolo, come molti hanno notato, non si preoccupa che fosse salvaguardata la disciplina giuridica nella celebrazione dell’Eucaristia, ma assai più concretamente del fatto che i ricchi corinzi mangiassero cibi succulenti mentre i poveri, a parte, facevano la fame). Insomma, cerchiamo – anche se non sempre ci riusciamo come vorremmo e come dovremmo – di non lasciarci spaventare dalle novità, ma di capirle e di farci da esse interpellare  e  non dare mai per scontato di aver raggiunto una verità, una posizione, una dignità dalla quale poter giudicare gli altri.

Così come riteniamo che dalla lettura e meditazione delle Scritture e dall’esempio di vita scaturiscano i più validi motivi per affrontare positivamente le sfide che i tempi nuovi ci propongono, altrettanto cerchiamo di fare nella difficile opera di coinvolgimento dei giovani nelle tematiche della fede. Per gli adolescenti – dagli  otto  ai quattordici anni –  esiste un “laboratorio di religione” nel quale la narrazione dei grandi eventi della storia biblica, vista anche attraverso adatti midrash rabbinici, è intesa a sollecitare la curiosità dei ragazzi, a far esprimere loro le impressioni ricevute e i dubbi emergenti anche attraverso il disegno, le elaborazioni sceniche o l’immaginazione di altri percorsi o finali per le storie narrate.

Anche se non prevista nel Questionario vaticano,  riteniamo che rientri nel tema della famiglia anche la vexata quaestio del celibato per il clero di rito latino che, come è ben noto, in quanto ”obbligo” non è fondato sulle Sacre Scritture ma è storicamente datato: e dunque potrebbe benissimo essere ridiscusso, se le mutate condizioni sociali ed esigenze ecclesiali lo facessero ritenere non più attuale e anzi foriero di pericolosi scandali. La tradizione dei primi secoli  considerava un vantaggio, e non un pericolo, che il vescovo (e il presbìtero) al quale era affidata la cura di una famiglia così grande come la ecclesia attorno a lui riunita, avesse dato prova di ben gestire la sua famiglia (I Tm 3,4.5).

Sulla contraccezione (altro tema molto sentito dai coniugi, e affrontato nel Questionario), infine, siamo coscienti, in sintonia con gran parte del mondo cattolico e con la Commissione consultiva a tal fine istituita a suo tempo da Paolo VI, che la questione andrebbe affrontata facendo meno appello a principi astratti e più alla responsabilità dei genitori. La riproduzione è uno dei fini del matrimonio, pur delicato e importantissimo, ma a monte vi è l’amore tra i coniugi e se questo impronta il rapporto degli sposi, tutto il resto viene di conseguenza.

 

IN CONCLUSIONE: riassumendo quanto sopra detto, ed enunciandolo brevemente:

Sulla contraccezione: La dottrina dell’enciclica Humanae vitae (1968) che condanna la contraccezione andrebbe superata, perché non si può fondare su una presunta “legge naturale” la cui fragilità è stata già evidenziata, e tanto meno, sulle Scritture. Non è lecito legare le coscienze là ove Gesù non le ha legate. Sarebbe doveroso invece richiamare anche in questo caso la legge fondamentale dell’amore e la libertà di coscienza. Lo stesso Paolo VI, del resto, nella sua enciclica raccomandava “comprensione pastorale “ per  i casi più delicati.

Sui divorziati risposati: E’ davvero una clamorosa contraddizione che il magistero della Chiesa cattolica romana ritenga possibile, per esempio, ammettere all’Eucarestia un omicida che, per quanto pentito, non può richiamare in vita la sua vittima, e consideri invece impossibile ammettere alla comunione eucaristica una persona divorziata e risposata che viva con amore la sua nuova unione. E questo non significherebbe un cedere alle mode del mondo, come spesso hanno affermato papi e prelati, ma essere fedeli al canone 8 del Concilio di Nicea (il primo, e veneratissimo in Oriente e in Occidente, Concilio ecumenico) che appunto, contrastando i rigoristi del tempo, ammetteva all’ Eucaristia, dopo adeguata penitenza, le persone divorziate e risposate. Insomma, mentre è chiaro, secondo l’invito esplicito di Gesù (Mt 19, 3 sgg.), che il matrimonio non è un istituto a tempo,  va anche ricordato che il Signore  ha dato alla sua Chiesa il dono di potere, in ogni caso, usare misericordia e dunque non inchiodare le persone nella loro eventuale colpa, ma aiutarle e benedirle nella nuova vita intrapresa. Comunque, perché, su tale tematica, non aprire un dialogo ad hoc con le Chiese ortodosse e con quelle della Riforma, che ritengono di non contraddire il messaggio del Signore ammettendo le nuove nozze dei divorziati?

Sulle coppie di fatto: Il Sinodo, a nostro parere, dovrebbe riconoscere la positività delle coppie di fatto, invitandole naturalmente a vivere in modo responsabile il loro amore. Anzi, poiché – come l’esperienza insegna – molti giovani, già conviventi, si sposano in Chiesa non per convinzione, ma perché pressati dai parenti o per conformarsi a ciò che tutti fanno, sarebbe opportuno che i parroci, ove constatassero situazioni del genere, dissuadessero questi giovani dal celebrare il sacramento del matrimonio, e li invitassero cordialmente a convivere di fatto, o a sposarsi civilmente, per venire poi, magari dopo anni e maturata una solida convinzione personale e di fede, a sposarsi in chiesa.

Sugli omosessuali: Noi riteniamo che il Sinodo debba affermare il principio del rispetto della libertà di coscienza delle persone omosessuali che decidano di unirsi e convivere. Se la “natura”, assai spesso citata dal Magistero ecclesiastico,  ha voluto così alcune persone, perché mai dovrebbe essere condannato il loro amore come fossero colpevoli di qualcosa?

    Sul celibato obbligatorio del clero latino: su tale questione, indirettamente legata al tema della famiglia, non possiamo che citare qui il passo già  richiamato  di Tm 3,2a.4.5: “Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta… e che sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?” A ciò aggiungasi la prassi costante delle chiese orientali che accettano i presbiteri uxorati a pari titolo di quelli celibi.

Ci rendiamo ben conto (ma non facciamo che affermare idee proposte ovunque nel pianeta da milioni di cattolici, uomini e donne, e da gran parte del mondo teologico) che imboccare nuove strade e incisive “svolte” pastorali mette in questione alcune precedenti posizioni del magistero ecclesiastico. Ma riteniamo che non sia possibile altrimenti avviare quella conversione evangelica che il vescovo di Roma, soprattutto nella Evangelii gaudium, ha indicato a tutti i cattolici, donne e uomini, e anche allo stesso papato. Un continuismo magisteriale che volesse mantenere ad ogni costo passate decisioni di papi e vescovi, anche quando sono in contrasto con i risultati delle ricerche scientifiche, con il sentire diffuso del “popolo di Dio”, o, di più, estranee ai comandamenti del Signore, porterebbe infine la Chiesa romana in un vicolo cieco.

A noi sembra che la via scelta da papa Francesco – quella di dare voce alla gente – sia un modo, bello, impegnativo e aperto al futuro, per attuare in profondità il Concilio Vaticano II.  Mentre guardiamo con speranza  alla sua scelta,  auspichiamo  vivamente che non sia sprecata, o svuotata, l’occasione storica che viene offerta all’insieme della Chiesa cattolica romana, nella varietà dei suoi carismi, ministeri e doni. Un Sinodo che osasse mettere al primo posto la Parola del Signore e, alla sua luce, sapesse concretamente attuare il principio fondante affermato un giorno da Gesù – Non l’uomo è fatto per il sabato, ma il sabato per l’uomo (Mc 2,27) – sarebbe davvero una benedizione e un modo incoraggiante per celebrare i cinquant’anni dalla Grande Assemblea del 1962-65. E, data la mole obiettiva dei problemi storici e teologici da affrontare, una significativa tappa verso un nuovo Concilio generale della Chiesa romana che raccolga e rilanci i moltissimi input che sorgono da ogni angolo della terra, per aiutarla a rinnovarsi secondo l’Evangelo e a servizio del mondo, soprattutto degli impoveriti  e delle vittime della violenza di chi si oppone alla giustizia e alla pace, e all’amorosa custodia del creato.