Egitto, la costituzione dei generali

Michele Paris
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Il referendum-farsa andato in scena questa settimana in Egitto si è risolto, come ampiamente previsto, con una schiacciante approvazione della nuova carta costituzionale scritta dalla giunta militare al potere. Il voto si è tenuto in un clima di intimidazione e repressione del dissenso, risultando in un esercizio che servirà soprattutto a sanzionare in maniera definitiva il ritorno delle forze armate ad una posizione dominante nel paese nord-africano, nonché a lanciare la candidatura alla presidenza del generale Abdel Fattah al-Sisi.

I due giorni di consultazioni nelle giornate di martedì e mercoledì sono stati caratterizzati da una massiccia mobilitazione delle forze di sicurezza del regime, spesso impegnate a convincere gli elettori recatisi ai seggi a votare a favore della costituzione. Durante le operazioni di voto, svariati scontri e proteste animate dai sostenitori dei Fratelli Musulmani sono stati registrati nel paese, con un bilancio complessivo di almeno una decina di morti e oltre 400 arresti.

L’imponente dispiegamento di polizia ed esercito ha confermato le preoccupazioni all’interno del regime per il possibile riesplodere delle proteste nel paese, dove un certo senso di sollievo e gratitudine per i militari dopo la rimozione dell’impopolare Mursi l’estate scorsa aveva lasciato ben presto il posto al malcontento per il ritorno ai metodi dittatoriali dell’era Mubarak.

Dopo la durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani seguita alla deposizione di Mursi, la giunta militare un paio di mesi fa aveva approvato un nuovo provvedimento per mettere fuori legge qualsiasi manifestazione di protesta organizzata senza l’approvazione delle autorità. Inoltre, durante le settimane precedenti al referendum è stata di fatto impedita la possibilità di fare una qualche campagna per il “No”, tanto che, secondo i media internazionali, sette persone sono state arrestate solo per avere cercato di appendere manifesti elettorali che invitavano a votare contro la costituzione. I media nazionali, inoltre, avevano tutti indistintamente appoggiato il documento voluto dai militari, aggiungendo così la loro voce alla campagna del regime.

In un clima simile, l’unico modo per esprimere l’opposizione alla nuova carta costituzionale è sembrato essere l’astensione. L’affluenza alle urne, nonostante la mancanza di dati ufficiali, è apparsa infatti estremamente debole. Secondo l’inviato al Cairo del New York Times, ad esempio, in molti seggi della capitale la folla di votanti è sembrata nettamente inferiore rispetto al referendum del 2012, così che soldati e agenti di polizia sono stati spesso più numerosi degli elettori stessi.

Il regime aveva sollecitato gli egiziani a recarsi in massa ai seggi elettorali, in modo da ottenere una qualche legittimazione per le proprie azioni dei mesi scorsi. In particolare, i militari intendevano mostrare al paese e alla comunità internazionale che il numero dei votanti in questa occasione sarebbe stato molto più alto rispetto alla consultazione del dicembre 2012, quando per il referendum sulla costituzione voluta dal governo Mursi votò appena un terzo degli aventi diritto. Per la sola giornata di martedì, secondo quanto affermato da un ministro del governo, l’affluenza sarebbe stata del 28 per cento, mentre fonti del ministero dell’Interno hanno stimato quella complessiva attorno al 55%.

Questi numeri, quasi certamente gonfiati, indicano comunque una diffusa insofferenza o, quanto meno, apatia nei confronti della giunta militare al potere. Inoltre, per spiegare il voto di molti che hanno dato parere favorevole alla nuova costituzione, è necessario tenere in considerazione la persistente avversione verso il precedente governo dei Fratelli Musulmani – oltretutto continuamente denigrato dai militari – e il desiderio di ritrovare stabilità nel paese dopo tre anni di caos e tensioni.

In ogni caso, i dati provvisori del voto sono stati pubblicati giovedì dall’organo di stampa del regime Al Ahram, secondo il quale i “sì” avrebbero sfiorato addirittura il 98%. I numeri risultano particolarmente eccezionali in alcuni dei 27 governatorati egiziani, come quello di Luxor, dove i “sì” sarebbero stati oltre 2 milioni contro poco più di 3.500 “no”. I dati definitivi saranno diffusi sabato prossimo, mentre a breve dovrebbe essere emesso un decreto che annuncia le elezioni presidenziali e parlamentari.

La nuova costituzione era stata redatta da una speciale commissione di 50 membri, nominata anch’essa per decreto dal regime. Gli autori della carta appena approvata avevano rimosso alcuni discussi articoli ispirati alla legge islamica voluti dai Fratelli Musulmani, aggiungendo a loro volta delle norme che intendono rafforzare sensibilmente l’influenza di due istituzioni sulle quali si era basato anche il precedente regime di Mubarak: il potere giudiziario e, appunto, le forze armate.

A queste ultime, soprattutto, verrà assegnato uno status del tutto privilegiato e poteri eccezionali per reprimere qualsiasi forma di opposizione o aperto dissenso. Tra gli articoli più inquietanti spiccano quelli che consentono processi di fronte a tribunali militari per i civili e che creano un Consiglio Nazionale per la Difesa dominato dai militari, con il controllo assoluto sui bilanci delle forze armate e a cui spetteranno le decisioni in materia di sicurezza nazionale. Inoltre, i vertici militari avranno facoltà di nominare il ministro della Difesa nei prossimi governi.

Sul referendum di martedì e mercoledì ha così puntato tutto il comandante delle forze armate, generale Sisi, il quale ha poi anticipato la sua candidatura alla presidenza dell’Egitto riferendosi al presunto mandato popolare ottenuto con il voto a favore della costituzione.

L’operazione referendaria fa parte della cosiddetta “road map” appoggiata anche dall’Occidente per ristabilire la “democrazia” nel paese ma, in realtà, consente al regime militare solo di provare a legittimare il sanguinoso colpo di stato del luglio scorso ai anni del presidente Mursi. In quell’occasione, i militari avevano agito sull’onda delle crescenti manifestazioni contro il governo islamista, sostanzialmente per bloccare sul nascere una seconda rivoluzione dopo quella del 2011 contro Mubarak.

Da allora, la giunta militare guidata da Sisi ha fatto più di mille morti tra i Fratelli Musulmani e altri oppositori, appropriandosi nondimeno della retorica rivoluzionaria dei movimenti che avevano dato la spallata all’ex dittatore e presentandosi come l’unica istituzione in grado di garantire la soddisfazione delle aspirazioni democratiche della popolazione.

Ciò è stato possibile soltanto grazie all’appoggio assicurato al golpe militare e alla repressione ai danni dei Fratelli Musulmani da parte delle varie formazioni giovanili, liberali e “di sinistra” che si opponevano al governo Mursi, anch’esse maggiormente spaventate da una mobilitazione popolare contro il sistema che dal ritorno della dittatura.

Nonostante qualche timida critica nei confronti dei metodi sempre più autoritari del regime, infine, gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali hanno in larga misura approvato il referendum per la nuova costituzione, assurdamente salutato come l’inizio di un’era di democrazia in Egitto.

Particolarmente significativo appare proprio l’atteggiamento di Washington, dove, in concomitanza con il voto in Egitto, il Congresso ha approvato, all’interno del bilancio federale per l’anno in corso, lo stanziamento di oltre 1,5 miliardi di dollari a favore delle forze armate del paese nordafricano.

Questo finanziamento – erogato annualmente dagli USA al Cairo in cambio dell’allineamento agli interessi americani e israeliani in Medio Oriente – era stato a lungo in dubbio dopo la deposizione di Mursi, poiché una legge degli Stati Uniti proibisce lo stanziamento di fondi a favore di regimi dittatoriali o golpisti.

Per non perdere un alleato fondamentale in un’area cruciale del pianeta, tuttavia, il Congresso americano e la Casa Bianca hanno finito per ignorare le loro stesse leggi, stabilendo che la giunta militare egiziana dovrà soltanto dar prova di seguire la propria “road map verso la democrazia”, di cui il referendum di questa settimana rappresenta appunto una tappa fondamentale.