L’Europa rappresenta l’economia e non noi?

Nicola Rochat
www.vociprotestanti.it

La Comunità Europea nasce dopo la guerra come auspicio di risoluzione non violenta dei conflitti fra i Paesi del vecchio continente; avrebbe voluto significare per le nuove generazioni un orizzonte culturale e politico aperto, basato sullo scambio e la circolazione di persone e idee. L’Europa unita appare invece oggi un’entità lontana dalla vita delle persone malgrado queste eleggano i loro rappresentanti al parlamento europeo. Nicola Rochat ci parla di come abbia preso il sopravvento l’economia sulla politica mettendo a rischio gli equilibri fra Paesi e facendo passare l’Europa come il leviatano che divora le sovranità nazionali e decide per noi.

La creazione dell’Europa

Alla mia generazione (ho 41 anni appena compiuti) avevano parlato bene dell’Europa a scuola. Nel mio percorso scolastico “Europa” ha significato: la centrale nucleare di Cernobyl (1986) che nel disastro ci dimostrava quanto la ricaduta di radioattività ignorasse frontiere e differenti visioni del mondo; la caduta del Muro di Berlino (1989) e la riunificazione della Germania con parità uno a uno tra marco Ovest e marco Est; la perestroika di Gorbaciov nell’Urss di fine anni Ottanta; l’inter-rail che allora era una cosa seria, davvero con un biglietto giravi tutta l’Europa, non c’erano zone ferroviarie o limitazioni di sorta.

Alla mia generazione si parlava bene di Europa a scuola perché l’Europa unita, qualunque cosa volesse dire, significava la fine dei conflitti armati interni al vecchio continente e auspici di risoluzione non violenta dei conflitti tout court (vedi art. 11 della nostra Costituzione). Con la promessa reciproca di non farsi più la guerra Francia, Inghilterra, Germania e Italia, nei secoli passati sempre in conflitto, si scoprivano legate da un comune destino: nel 1945 erano tutte devastate dalla guerra, venivano tutte aiutate dal piano Marshall nordamericano e insieme al resto di Europa diventavano poi teatro di un’altra guerra, quella fredda, che avrebbe avuto luogo nei 40 anni successivi.

L’idea di Europa unita nasceva con un motore franco-tedesco e con un Regno Unito sempre alla finestra, oscillante tra la fedeltà atlantica con gli Usa e il coinvolgimento nel continente – ho visto con i miei occhi cartelli che a Victoria Station a Londra per indicare il continente riportavano la dicitura Europe, e si era nel 1990. L’Europa realisticamente federale doveva essere il nostro orizzonte a tendere: i giovani e le lingue si sarebbero mischiati in società sempre più socialmente in movimento, la Pace avrebbe regnato sovrana, tendenzialmente all’ombra delle armi degli altri – l’idea di un esercito europeo non ha mai sfondato, Francia e Inghilterra si sono sempre tenute strette le loro atomiche e il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto, frutto di Yalta e ormai senza senso pensando agli equilibri geo-politici mondiali.

Caduto il Muro di Berlino, crollato il comunismo reale, l’Europa è stata sempre più economia e sempre meno politica. Gli anni ‘90 sono stati gli anni dei sacrifici “per entrare in Europa”, sono stati il decennio della guerra nei Balcani e l’assenza di una politica estera europea comune, sono stati il tempo del trattato di Maastricht e dei famigerati omonimi parametri macro-economici, divenuti pietre angolari del pensiero unico che sbarcava e metteva radici anche in Europa, sono stati il periodo della road-map verso la moneta unica, verso l’euro, che diventava presto moneta forte con piedi di argilla. Sono stati gli anni della presidenza americana di Bill Clinton (“it’s the economy, stupid!”), della globalizzazione dei mercati, della liberalizzazione selvaggia… l’inizio della fine del welfare europeo e della finanziarizzazione dell’economia.

La fine della parità dollaro-oro risale al 1972, con il presidente Nixon a Bretton Woods [1] a cui è seguito lo Sme (sistema monetario europeo), con fasce di oscillazione dei cambi tra le diverse valute. La lira italiana poteva essere ancora svalutata se necessario, favorendo le esportazioni. Tutto questo è stato sorpassato dall’euro, che per gli italiani ha significato abbandonare l’arma della svalutazione competitiva e insistere sulla flessibilità e sulla compressione del costo del lavoro. Si è passati dalla lira, che riportava la dicitura “pagabile al portatore” perché aveva una Banca d’Italia prestatore di ultima istanza, all’euro, moneta che non ammette plurale e che non è convertibile in oro né ha un prestatore di ultima istanza perché la Bce (Banca Centrale Europea) non lo è e per statuto non vuole neanche esserlo, a differenza della Federal Reserve, della Royal Bank of England, della Bank of China e via elencando [2].

Ci avevano parlato bene di Europa a scuola, potrebbe essere il titolo di un film. Ai miei diciotto anni l’Europa dei dodici stati era tutto sommato una cosa bella, oppure già allora erano bravi a venderla così. Adesso che siamo in ventisette (ma non tutti nell’euro) oscilliamo tra la sensazione di essere prigionieri dei tecnocrati neoliberisti di Bruxelles – non importa poi di che nazionalità siano, sono “quelli di Bruxelles”, e hanno nomi da favola horror post-moderna, sono la Troika, la Commissione, o il board della Bce – e la consapevolezza di essere prigionieri dell’italico vizio del rinvio, del compromesso al ribasso, della politica dell’adesso-poi. Atteggiamenti, questi ultimi, che nella narrazione mainstream sono il contrario del decisionismo europeo che ha le idee chiare, monitora i conti pubblici degli stati membri, impone il Fiscal compact a livello costituzionale (!) ma non ha la forza o la volontà di creare un’agenzia di rating europea per sfuggire alla triade di agenzie di rating americane che, come avvoltoi, domina le piazze finanziarie mondiali. La crisi dei debiti sovrani in cui siamo tuttora immersi non è che un immenso attacco speculativo all’area euro, con i paesi cosiddetti Pigs (Portogallo Italia Grecia Spagna, cioè paesi del Sud dell’Europa) come target, mentre la risposta istituzionale ha svelato tutta la debolezza dell’architettura europea, dove l’interventismo della Bce guidata da Mario Draghi, prigioniero della logica che sono le banche il motore dell’economia, è mal visto a Berlino [3].

I meccanismi della rappresentanza europea

Nel guardare all’Europa ci si domanda però: chi elegge tutte le persone che siedono a Bruxelles? Quale controllo vagamente democratico siamo in grado di esercitare? Che modalità di rappresentanza si è data la vecchia Europa culla delle democrazie parlamentari?

Il parlamento europeo è l’unico eletto a suffragio universale con il voto popolare, conta notoriamente pochino e talora è il pensionamento elegante dei politici caduti in disgrazia nel proprio paese (è successo per l’italiano Prodi, come per lo spagnolo Barroso). Il parlamento europeo a sua volta nomina gli altri organismi intermedi, in particolare la Commissione (il governo) europeo, che vede però i suoi poteri fortemente limitati dai Consigli europei, riunioni periodiche talora a tema (ministri economici, ministri degli esteri, primi ministri, ecc) dove sono invece rappresentati i governi nazionali e dove si prendono e si mediano le decisioni reali e più importanti, così che ad esempio Angela Merkel, sta a Berlino ma conta molto più di José Manuel Barroso.

Molto contano anche le lobbies, più o meno esplicite, d’altronde un ordinamento federale ha un centro politico ma i molti potentati economici non stanno a guardare, si organizzano, finanziano questo o quel politico, sponsorizzano questa o quella agenda comune, e finiscono per pesare più di quello che come singoli cittadini e cittadine vorremmo. In Europa meno che negli States, almeno per ora. I veri gangli del potere non li elegge nessuno, sono i consigli di amministrazione (cda) privati e parapubblici, sono le società private che influenzano la politica, non viceversa. I cda notoriamente non brillano per equilibrio di genere: alla fine sono, come sempre, uomini tendenzialmente ricchi e non più giovanissimi a prendere decisioni che diventano importantissime nell’ambito dell’attività di governo nazionale, senza nessun controllo democratico popolare. I due italiani al momento più noti e apprezzati in Europa fanno parte di questa casta: Draghi è passato da Goldman Sachs a Banca d’Italia per approdare a Francoforte alla Bce nel giro di pochi anni; anche l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti è stato consulente di Goldman Sachs, la stessa società che ha contribuito a certificare il bilancio greco per l’entrata nell’euro.

Abbiamo costruito un’Europa molto economica, poco democratica, e ben poco politica. Non era il sogno dei padri fondatori. L’accelerazione sull’euro implicitamente richiedeva politiche fiscali comuni e più omogenee, non è detto che sia stata una scelta così lungimirante. La cessione di sovranità dai paesi membri alle istituzioni europee è stata un’accelerazione progressiva che negli ultimi due anni in Italia ha avuto ahimè un percorso pesante e non ancora concluso… il giorno stesso in cui ha avuto la fiducia, Enrico Letta è volato a Berlino, poi è passato a Parigi, infine a Bruxelles.

La Germania non ci invade più ma ci schiaccia economicamente, e la nostra sovranità è limitata in quanto paese Pigs, quando ormai la demarcazione nord-sud è una faglia che minaccia l’intero processo di costruzione europea.
Nella narrazione corrente dei media noi Pigs saremmo le cicale dissipatrici e irresponsabili con altissimo debito pubblico e costante deficit annuo rispetto al Pil, mentre i solidi tedeschi, olandesi, finlandesi, austriaci (e ormai nessun altro) sono le formiche virtuose, madri e padri di famiglia, che gestiscono oculatamente il denaro pubblico. In mezzo c’è la Francia, ormai Pigs oriented, al di là dell’orgoglio transalpino. Quindi dobbiamo fare sacrifici, tagliare il welfare, la scuola, i servizi alla persona, privatizzare, flessibilizzare: sono dieci anni che lo facciamo ma il debito pubblico è aumentato lo stesso, come le spese militari, e anche chi arriva serenamente lo stesso a fine mese vede diminuire la qualità della propria vita.

Ecco, tutto questo ha a che fare con il discorso sulla rappresentanza, e con il rapporto tra rappresentanza e democrazia; come cittadini e cittadine europei ci sentiamo dire che non abbiamo alternative: la cicala che è in noi deve solo chinare la testa e ubbidire: “l’Europa lo richiede”. Si aprono quindi praterie per i nazionalismi piccoli e grandi, per il razzismo, il sessismo e la xenophobia, per il qualunquismo del “tanto sono tutti uguali e ladri”. La disaffezione alla politica e la sfiducia nei propri rappresentanti non è un tema solo italiano, perfino in Germania il partito no-euro si presenta alle elezioni anche se non ha molte chance di entrare al Bundestag.

Come orizzonte ideale siamo passati dal sole dell’avvenire (per chi ci credeva), alla foschia della tecnocrazia economica imperante che ripone una fiducia cieca nel paradigma della crescita infinita e salvifica. Che fare dunque? Come ribaltare il tavolo o almeno invertire la rotta? Quali azioni anche piccole che diano il senso della possibilità di cambiare direzione? Abbiamo un ruolo come credenti in questo quadro? Questi i temi sul piatto. Oggi un uomo di sinistra inascoltato e quasi irrilevante come Giuseppe Civati ribadisce l’importanza di detassare il lavoro e non il patrimonio: non sta proponendo la presa del Palazzo di Inverno o di dichiarare default, eppure viene visto come un pericoloso idealista. Il moderatismo e il gattopardismo di chi ci governa tolgono l’Imu (imposta municipale propria) e aumentano l’Iva: il contrario della redistribuzione del reddito.

Non ci sono soluzioni facili, sulla carta solo un’accelerazione a livello di integrazione politica potrebbe salvarci. Tale integrazione richiede cessioni di sovranità a un potere federale che sia democraticamente eletto e controllato e controllabile ben più di quanto oggi avvenga. Un’Europa federale che significhi gli Stati Uniti d’Europa: divisi siamo piccoli e prigionieri della storia, uniti siamo centinaia di milioni di persone. Ma, complice la crisi che annebbia le menti e fiacca le esistenze, la pubblica opinione tende oggi a vedere il bicchiere mezzo vuoto, avvertendo l’Europa come altro da sé, criticando Bruxelles e la sua burocrazia, le direttive e le raccomandazioni che regolarmente in Italia disattendiamo. Sembra difficile trovare il bandolo di una matassa che non solo è un groviglio, ma che sembra avere numerosi punti in cui il filo è spezzato: solo riannodando tutti i capi degli spezzoni, con pazienza e perseveranza e anche un pizzico di fiducia se riusciremo a darcela, potremo sperare di venirne a capo.

L’Europa deve essere un’opportunità che sentiamo nostra e cui possiamo partecipare (non a caso uno dei fattori di successo storici sono i programmi di scambio, l’Erasmus su tutti), dando il nostro contributo come cittadini e cittadine anche dal punto di vista della partecipazione democratica, lavorando per creare e migliorare le leve di controllo sui luoghi del potere. Serve un’Europa delle persone e non della finanza e dei parametri macro-economici quindi; servono politiche comunitarie progressivamente più coordinate, non solo fiscalmente ma anche socialmente, attente ai bisogni reali delle persone più che al gradimento degli avvoltoi dei mercati.

Note

[1] Per una dettagliata e fruibile spiegazione rimando all’articolo dell’economista Marco Mazzoli, Guadagni privati e perdite sociali, in “Gioventù Evangelica” n. 218, 2011.
[2] Per approfondimenti si veda l’intervista all’economista Bruno Amoroso sull’euro moneta unica in “Altra Economia”, n. 149, 2013.
[3] Su banche indebitate, titoli tossici e Bce disarmata dal fatto di non essere prestatore di ultima istanza, si rimanda ad “Altra Economia”, cit.