Quando un termine stravolge una lotta di N.Lisi

Nino Lisi *
Adista n. 2 del 18/01/2014

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A sentire Moni Ovadia durante la tavola rotonda “Antisemitismo/antisionismo. Quando un termine stravolge una lotta” (il 6 dicembre all’Università Roma Tre), il sionismo politico, quello sorto alla fine dell’800 «abbastanza ex abrupto», non sotto la spinta di un’autonoma esigenza ampiamente avvertita ma «nella testa di un uomo solo, Theodor Herzl», è finito da un pezzo; è un mito irrimediabilmente estinto.

Quel sionismo era sorto a Parigi, dove Herzl si era trovato nel pieno di una furibonda campagna antiebraica scatenatasi a seguito dell’affaire Dreyfus. L’accusa di spionaggio in favore dei tedeschi nel corso della guerra franco-prussiana, rivelatasi poi falsa, mossa ad un ufficiale ebreo, l’alsaziano Alfred Dreyfus, aveva provocato il divampare di un parossismo antiebraico che nella furia di risolvere la questione degli “ebrei infidi” giunse a ventilare di eliminarne un terzo e di convertirne un altro terzo forzosamente. Per di più, al tradizionale antigiudaismo di matrice cristiano-cattolica, stava subentrando un antisemitismo razzista e con pretese scientifiche, che dichiarava l’ebreo corpo estraneo alla nazione.

Di fronte alla novità di un antisemitismo su base razziale, Herzl, secondo Ovadia, «cadde nella trappola del nazionalismo» e propose di fare come la cultura del tempo suggeriva: anche noi ebrei facciamo una nazione. Il sionismo nacque dunque come «risposta disperata e parzialmente non lungimirante» ad una forsennata ondata di antisemitismo. Ma nacque laico, senza riferimento alcuno al mito della terra promessa. Tant’è che per il movimento sionista non era la Palestina la terra destinata ad accogliere gli ebrei. Lo divenne solo nel 1917 con la Dichiarazione Balfour, quella del ministro degli Esteri dell’Impero Britannico che, secondo la logica colonialista imperante, informò gli esponenti sionisti che il governo inglese vedeva con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, senza pregiudizio, beninteso, per i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche presenti in Palestina, né per i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni. Ancorché non ricalcasse le forme del colonialismo il sionismo, avendo trovato nella Dichiarazione di Balfour la propria legittimazione, assunse inevitabili connotazioni coloniali. E rimase laico, sicché l’augurio pasquale che gli ebrei si scambiano da duemila anni, «l’anno prossimo a Gerusalemme», poté continuare ad esprimere solo una mera tensione spirituale, un legame con il passato, non una proiezione verso il futuro.

Quel sionismo dopo la guerra del Kippur del 1973 è andato scomparendo. Muore – sostiene Ovadia – intorno al 1976, sostituito ormai da un ultranazionalismo furioso, con forti declinazioni di fanatismo religioso, che sfocia nel fascismo.

Il sionismo con evidenti connotazione di socialismo, così ben considerato dalle sinistre europee che per questo non si avvidero subito del dramma palestinese, aveva due componenti essenziali: l’obiettivo di dare una terra agli ebrei – e dopo Balfour di portare gli ebrei in Palestina – e la promessa che in quella terra tutti, senza discriminazioni, potessero vivere con pari dignità e libertà, come proclama la stessa Dichiarazione del 1948, fondativa dello stato di Israele. Promessa poi tradita: in Israele oggi c’è l’apartheid, ci sono cittadini di serie a, b e c, anche tra gli ebrei.

Non avrebbe senso perciò, secondo Ovadia, continuare a parlare di sionismo ed antisionismo, se non fosse che, come potente arma di propaganda, è sorta l’equazione antisioni-smo=antisemitismo. Che si accoppia con un’altra arma anche più micidiale, l’israelizzazione della Shoah, costituendo con essa un prisma malato che rifrange in maniera strumentale e distorta le idee, impedendo a monte l’ordine del discorso. E questo, afferma Ovadia, sta uccidendo l’ebraismo che nasce dall’indagine del pensiero, dal confronto tra i maestri. Dov’è finita – chiede Ovadia – la grande sapienza, dove sono andati lo sguardo ampio e lo spessore del pensiero che hanno sostenuto il contributo che la cultura ebraica ha dato alla civiltà?

È riapparso così in tutta la sua gravità il problema della distorsione del linguaggio su cui aveva riflettuto Francesca Koch introducendo la tavola rotonda: fornire «una serie infinita di false rappresentazioni» della realtà che hanno buon gioco essendo «mancata dopo la Nakba una seria riflessione politica, come è mancata una riflessione sul ruolo della democrazia nell’evoluzione della società». False rappresentazioni che costituiscono la condizione perché, da parte israeliana, si possa negare persino l’esistenza del popolo palestinese e gestire la questione palestinese semplicemente sul piano militare e, da parte degli altri Paesi, ci si possa limitare a fronteggiarla sul terreno degli aiuti umanitari.

La politica israeliana, ha affermato Giacomo Marramao, non va solo contro i palestinesi ma contro gli stessi ebrei, in particolare quelli della diaspora. La loro è un’identità in viaggio, che viene quotidianamente contraddetta dalla politica colonialista israeliana. Di fronte alla condotta di Israele molti intellettuali della diaspora si rifiutano al confronto, si chiamano fuori dal campo della discussione. Chi non lo fa viene zittito, come vengono censurati i molti intellettuali israeliani che criticano gli indirizzi del loro governo. Ma questo distrugge la cultura ebraica, perché in essa è centrale la figura dello straniero, tanto da poter far dire che ebreo è colui che sa di essere straniero allo straniero. Non si tratta solo di rispettare e di accogliere l’altro; la relazione con l’altro è costitutiva dell’identità ebraica, ne è l’essenza, come lo sono la precarietà e l’instabilità. La differenza tra Gerusalemme ed Atene sta in questo: Gerusalemme, sull’esempio di Abramo, è alla ricerca incessante dell’identità, peregrinando di luogo in luogo, senza mai poter dire questo luogo è definitivo, è mio. Se per i greci il concetto di popolo era collegato al radicamento sul territorio, per gli ebrei è collegato all’esodo: all’idea di terra è sostituita l’idea del viaggio, alla fissità delle radici la dinamicità della storia. Ciò riecheggia anche in Jeshua di Nazareth quando dice di essere «la via, la verità e la vita», suggerendo che la verità e la vita si costruiscono per via e sono strada l’una all’altra. Insomma solo sul recupero dell’autenticità dell’ebraismo e sulla prospettiva dell’affratellamento di due popoli ambedue perseguitati può fondarsi la possibilità di salvezza per lo stesso Israele, perché, come la storia insegna, uno Stato, un popolo, una nazione che si chiudano in una fortezza in preda alla sindrome dell’assedio, come la Germania di Hitler, preparano la propria rovina.

A proposito dell’affratellamento tra i due popoli, Giovanni Franzoni ha confessato di nutrire un sogno, e cioè che proprio da Gaza, dove l’umanità è tanto fortemente provata, possa nascere, come un fiore da un marciume, una realtà geopolitica innovativa ed inedita che renda possibile la “confidenza” tra le persone, ovvero una reciproca totale fiducia. Perché il sogno si avveri bisognerebbe però battere l’antisemitismo dove è praticato, cioè da e in Israele. È ben noto infatti che gli arabi sono semiti, e dunque quella israeliana che discrimina e perseguita gli arabi è una politica antisemita, come è una pratica antisemita la discriminazione che Israele compie anche tra gli stessi ebrei, selezionando la propria dirigenza in grandissima prevalenza tra gli ashkenaziti, venuti in maggioranza dal continente europeo, mentre relega in secondo piano i sefarditi. I quali risiedono da secoli in Palestina dove, scacciati dalla Spagna della cattolicissima regina Isabella, non avevano trovato soltanto ospitalità, ma realizzato una convivenza pacifica e reciprocamente proficua con gli arabi. Un’esperienza multisecolare che attesta come l’affratellamento degli arabi e degli ebrei non sia necessariamente destinato a restare sogno irraggiungibile e come nell’ebraismo ci sia la capacità di convivere e di confrontarsi con punti di vista diversi. Capacità distrutta dall’avvento di uno Stato nazionalista che si è impadronito di alcuni vocaboli facendone un linguaggio che ne altera il senso. Restituire loro il significato autentico è il primo passo per ricostruire la giustizia nel Medio Oriente.

E se qualcuno auspica che ebrei ed arabi imparino a dialogare, Franzoni, ricordando che il dialogo è un discorso tra punti di vista diversi (dià in greco significa tra) nel quale ciascuno sostiene le proprie ragioni rimanendo il più delle volte fermo su di esse, invoca il colloquio. Colloquiare vuol dire parlare insieme, ragionare con, scambiarsi le opinioni, arricchirsi reciprocamente del pensiero dell’altro.

A ripensarci la tavola rotonda è stato appunto un colloquio che è riuscito, intrecciandole, a recuperare il significato profondo di tre parole: sionismo, ebraismo, antisemitismo. Un primo, piccolissimo passo verso il sogno? Chissà.

* CdB di San Paolo e Rete romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese