Approvata la Carta di Lampedusa

Redattore Sociale
Raffaella Cosentino

Libertà di movimento, di scelta (del luogo in cui abitare), di restare (senza essere costretti a lasciare il paese in cui si nasce o si abita), libertà personale, diritto all’abitare, diritto alla resistenza. E ancora: chiusura dei Cie e di tutti i centri, abrogazione di Eurosur, di Frontex, del sistema dei Visti, del regolamento Dublino, del meccanismo che lega il permesso di soggiorno a un rapporto di lavoro. Sono alcuni dei principi scritti nella Carta di Lampedusa, esaminata e approvata nella tre giorni dal 31 gennaio al 2 febbraio da circa 300 persone che si sono riunite in una sala dell’aeroporto dell’isola Pelagia, rispondendo a un’idea lanciata da Melting Pot dopo le stragi dei naufragi dello scorso ottobre. “La Carta di Lampedusa è un patto che unisce tutte le realtà e le persone che la sottoscrivono nell’impegno di affermare, praticare e difendere i principi in essa contenuti – si legge nel documento, disponibile sul sito di Melting Pot – La Carta di Lampedusa è il risultato di un processo costituente e di costruzione di un diritto dal basso”. Viene anche specificato che “la Carta di Lampedusa non è una proposta di legge o una richiesta agli stati e ai governi”.

La prima bozza del documento è stata scritta a tante mani nei mesi scorsi tramite confronti via web e conferenze online. A Lampedusa, ogni articolo e principio è stato discusso da rappresentanti di movimenti antirazzisti, centri sociali e associazioni come Terre des hommes, Un ponte per, Archivio migranti, campagna LasciateCIEntrare, Global Project, Storie Migranti. Al dibattito hanno partecipato attraverso degli interventi il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, l’associazione dei piccoli imprenditori dell’isola, alcune mamme lampedusane e gli studenti isolani del Liceo Majorana, unica scuola superiore esistente sulla maggiore delle Pelagie. Obiettivo della Carta, anche attraverso il linguaggio usato è di “non riprodurre le terminologie delle norme e dei codici” e proporre “un immaginario che pone l’essere umano al centro con la sua libertà di muoversi e abitare nel mondo”.

La Carta è costituita da tre parti: un preambolo, una parte sui principi e una sulle migrazioni e le politiche collegate. Nel preambolo c’è uno spazio riservato al luogo in cui nasce la Carta e di cui il documento porta il nome. “Le politiche di governo e di controllo delle migrazioni hanno imposto a quest’isola il ruolo di frontiera e confine, di spazio di attraversamento obbligato, fino a causare la morte di decine di migliaia di persone nel tentativo di raggiungerla – si legge – Con la Carta di Lampedusa si vuole, invece, restituire il destino dell’isola a se stessa e a chi la abita”. Per la prima volta, nello spazio dei tre giorni di discussione ci sono stati diversi momenti di incontro fra le realtà antirazziste presenti e i lampedusani.

Domenica 2 febbraio anche alcune mamme di Lampedusa sono intervenute per raccontare i disagi che vivono le loro famiglie. “Mancano le aule per cui i nostri bambini sono costretti a fare i turni di pomeriggio a scuola, ci hanno prospettato di fare lezione nei tendoni – ha raccontato Rossella – non ci sono le palestre, i nostri bambini non conoscono l’educazione fisica”. Un’altra mamma, Liliana, ha denunciato i problemi legati alla carenza di strutture sanitarie. “Per i nostri figli non abbiamo un ambulatorio pediatrico che possa dare i primi soccorsi ai bambini, ricorriamo all’elisoccorso, condizioni atmosferiche permettendo – ha spiegato – questo vuol dire che le vite qui sono in gioco”.

Tra le altre cose, la Carta di Lampedusa “afferma la necessità dell’immediata abrogazione dell’istituto della detenzione amministrativa e la chiusura di tutti i centri, comunque denominati o configurati, e delle strutture di accoglienza contenitiva” e “la conversione delle risorse fino ad ora destinate a questi luoghi a scopi sociali rivolti a tutti e a tutte”. Per quanto riguarda il sistema di accoglienza, si afferma la necessità di chiudere campi e centri in favore di un sistema di accoglienza “diffusa, decentrata e fondata sulla valorizzazione dei percorsi personali, promuovendo esperienze di accoglienza auto-gestionaria e auto-organizzata, anche al fine di evitare il formarsi di monopoli speculativi”.

Altri punti riguardano la cessazione immediata dell’uso del Muos di Niscemi e della base di Sigonella per la gestione dei droni Usa e Nato. Un tema particolarmente sentito durante la discussione per l’approvazione della carta è stato quello del linguaggio. All’interno del documento si legge: “ribadendo come la spettacolarizzazione del momento dell’arrivo dei migranti, sull’isola di Lampedusa come in molte altre frontiere d’Europa, con l’utilizzo di un linguaggio allarmistico e securitario – che travisa la realtà dei fenomeni e cancella le storie delle persone – contribuisca ad acuire fenomeni di razzismo e di discriminazione”, la Carta di Lampedusa esprime “la necessità di combattere ogni linguaggio fondato su pregiudizi, discriminazioni e razzismo”.

Approvata la Carta, ora si punta a coinvolgere all’interno del patto più realtà possibili in Europa, che possano farsi portatori dei principi contenuti nella Carta. “E’ un tentativo di dare una spinta collettiva ad alcuni temi, di allargare una battaglia – spiega Nicola Grigion di Melting Pot – Il fatto di essere venuti a Lampedusa non è solo simbolico. Vuol dire toccare con mano cosa vogliono dire le politiche delle migrazioni sui cittadini europei”.

Il testo completo della Carta e le modalità di adesioni sul sito www.meltingpot.org

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Accoglienza e inclusione: il modello Lampedusa secondo Giusi Nicolini

Valerio Cataldi
www.articolo21.org

Lampedusa è invasa da centinaia di persone arrivate da tutta Italia e da molti paesi d’Europa che da anni si occupano di migrazioni e che ora si confrontano, studiano e cercano la sintesi di un modello nuovo di accoglienza e inclusione. È la carta di Lampedusa che sono venuti a scrivere.

“Una bella festa affollata, la chiamata in pieno inverno ha funzionato e fa ben sperare” dice il sindaco Giusi Nicolini. Quella folla è il primo segnale positivo dopo il clamore delle docce antiscabbia che ha fatto tremare la terra ma che rischia di non produrre i risultati sperati. Qualche giorno fa una delegazione di funzionari dell’Unione Europea è entrata al centro di accoglienza per verificarne le condizioni. Sono stati accolti dalla stessa cooperativa che il governo aveva licenziato quaranta giorni fa, che ha affidato la propria riabilitazione a pareti imbiancate di fresco, letti rifatti e tendine di plastica nelle docce. Se non fosse vero sembrerebbe uno scherzo: tendine di plastica colorate per coprire la vergogna delle docce antiscabbia. Naturalmente l’isola e i suoi abitanti con questo triste tentativo non hanno nulla a che fare. Dice il sindaco: “Le immagini della doccia antiscabbia sono un punto di non ritorno. Ora si deve andare verso un modello di accoglienza diverso. Lampedusa finora è stata un modello negativo, mi auguro e voglio sperare che adesso si inizi un percorso di cambiamento in positivo.”

Incontriamo Giusi Nicolini in mezzo a quella folla creativa che cerca un modello e si confronta con gli abitanti dell’isola.

“Io sono convinta che a prescindere dal nome dell’ente gestore è il sistema che non funziona. In un centro dove si ammassano fino a millecinquecento persone in poche centinaia di posti letto senza trasferimenti veloci è più facile che si verifichino episodi come le docce antiscabbia. Quelle immagini le abbiamo viste e spero segnino un nuovo inizio. Se così non sarà dovremo preoccuparci di ciò che non vediamo, non di ciò che abbiamo visto. Se tutto si limiterà al cambio dell’ente gestore non avremo risolto nulla. È ovvio che Lampedusa, il sindaco, il comune, non si accontentano di eventuali manovre solo formali. Chiediamo che la sostanza del centro cambi, che diventi qualcosa di diverso, finalmente.”

Deve cambiare l’architettura del sistema dell’accoglienza in Italia a partire da Lampedusa?

“Questa isola è il nervo dell’accoglienza perché è il luogo di arrivo. Tutti i centri si primo soccorso e accoglienza dovrebbero avere degli standard che tengano conto della condizione fisica e anche psicologica delle persone che arrivano dal mare, che a volte sono sopravvissute a naufragi come avvenuto in questi mesi. Su questa isola è questa l’accoglienza che bisogna ripensare, mentre nel resto d’Italia bisogna pensare a percorsi di crescita per queste persone, di acquisizione dello strumento linguistico, di conoscenza del territorio, delle nostre leggi e dei loro diritti. Bisogna costruire un percorso dell’accoglienza che parta dalla dignità. Quello che deve essere al centro del sistema di accoglienza da Lampedusa in su è il principio del rispetto della dignità umana di queste persone.”

È un principio che questa isola ha dimostrato di avere nel suo Dna.

“Noi li vediamo arrivare, li vediamo sbarcare, li conosciamo, sappiamo che sono persone. Questa prospettiva, invece, manca al resto del paese perché queste persone sono state rappresentate in modo spersonalizzato, come numeri. È la spersonalizzazione che ha guidato l’informazione e il sistema di accoglienza fino ad oggi. Con logiche che dicono di prenderli, ammassarli, rinchiuderli perché non sono considerate persone. Ma quello che si impara a Lampedusa possono impararlo tutti, basta venire qui. Noi siamo disponibili ad insegnare quello che abbiamo imparato in questi trenta anni di arrivi dal mare.”

È un laboratorio sociale questa isola?

“Si. Lampedusa sta dimostrando sempre di più di essere un laboratorio sociale e politico. Stanno venendo fuori risorse che magari prima erano inespresse. Ora è un’isola che esplode da questo punto di vista e in senso positivo finalmente. È un’isola che apre la porta di casa a queste persone che la logica della repressione vuole tenere chiuse in un recinto che però tutti sanno essere pieno di buchi. È un’isola che accoglie e che vuole dare una misura, una cifra diversa dell’accoglienza. Questa comunità vuole mostrare ciò che è possibile fare e vuole dimostrare che quello che si fa arricchisce, che l’accoglienza è un valore e non solo un dovere. Il valore dell’interazione che qui mette insieme le storie e le culture di marginalità diverse. Perché anche Lampedusa vive ai margini, non solo geografici, di questo paese.”

Le donne in questo quadro hanno un ruolo importante?

“Le donne sono le pioniere, sono l’avanguardia. Sia nel volontariato e sia nell’elaborare queste forme di incontro e di relazione con i migranti. Le donne lampedusane hanno dimostrato di essere valore aggiunto. Questa è un’isola dove non si nasce più, le donne non partoriscono più a Lampedusa ormai da anni perché non ci sono le strutture sanitarie adatte. E allora si scatena il senso materno di tutta l’isola nei confronti delle persone che arrivano dal mare. E a volte succede che le donne migranti arrivino in stato avanzatissimo di gravidanza e partoriscano qui. I loro bambini sono gli unici a nascere su questa isola e quando succede diventa una festa. Ovunque c’è la gioia di accogliere un evento che queste case hanno dimenticato. Sono segnali di forza e di speranza che l’isola raccoglie ed elabora. Si è un laboratorio sociale a cielo aperto questa isola. E noi vogliamo essere modello di accoglienza, modello positivo.“