E se ognuno pensasse ai bambini suoi?

Alessandro Baoli
www.cronachelaiche.it

L’autodeterminazione femminile e i diritti delle persone omosessuali alimentano un grande dibattito internazionale. E’ ora che donne e gay uniscano le loro forze.

Negli ultimi giorni i media hanno raccontato dei due grandi temi al centro di numerose manifestazioni in tutta Europa. A Parigi e a Lione gli anti-gay di Manif pour tous (sigla che fa il verso a Mariage pour tous) hanno sfilato nei mesi scorsi contro la possibilità concessa alle coppie omosessuali francesi di adottare bambini, e ora contro la procreazione assistita per le coppie lesbiche e la pratica dell’utero in affitto, provvedimenti appena ritirati e procrastinati da un Hollande in grande difficoltà (per tutt’altri motivi); a Madrid e simultaneamente in decine di altre città anche italiane, sono scese in piazza migliaia di persone per sostenere le donne spagnole sotto l’attacco del governo conservatore di Mariano Rajoy che vuole di fatto ripristinare il reato di aborto.

Al di là della conta dei partecipanti ai cortei (come sempre ben frequentati dall’estrema destra, nel caso di quelli francesi), c’è una considerazione davvero elementare, quasi banale, che bisogna fare: in Francia chi ha manifestato lo ha fatto per chiedere che vengano tolti dei diritti a qualcun altro; in Spagna, al contrario, chi è sceso in piazza ha cercato di difendere la propria libertà, un diritto – quello all’autodeterminazione riproduttiva – che riguarda in prima persona loro stessi, che stanno conducendo una lotta difficile, e non altri. Se non, ovviamente, in un’ottica più ampia di difesa delle libertà individuali di ciascuno.

A Parigi e a Lione, nessuno di quelli che ha sfilato in corteo era direttamente interessato al provvedimento sotto accusa, perché a nessuno di loro è stato imposto di diventare omosessuale, sposare una persona dello stesso sesso e adottare dei bambini. Ecco perché quella protesta può essere definita a buon diritto una delle più grande manifestazioni di arroganza, prepotenza ed egoismo della storia del genere umano. «Perché i diritti degli altri», bisogna urlare nelle loro orecchie fino a sturarle, «a voi non tolgono nulla, nemmeno uno spillo; mentre la vostra arroganza rende la vita di molti altri un inferno».

Così come arrogante e persino violenta è quella propensione di molti conservatori a considerare la donna come una scatola vuota, il suo corpo come un mero contenitore di “bambini” (come viene di fatto considerato già lo spermatozoo, in una visione al contempo ideologica, fanatica e antiscientifica), un’incubatrice, un macchinario del quale possiamo disinteressarci una volta espletata la sua funzione.

Nessuno dei paladini dei diritti bambini altrui (ma non sarebbe meglio se ognuno si occupasse dei bambini suoi, invece che di quelli degli altri?) intende accettare che la famiglia – e, per estensione, la società intera – non è roba di sua esclusiva proprietà, nessuno di loro ha il copyright del vocabolo “famiglia” o la proprietà intellettuale del concetto di “società”. Non l’hanno inventata loro; la società, di cui la famiglia è cellula basilare, appartiene a tutti quelli che la compongono, nessuno escluso, e non può esserci nessuno autorizzato a imporre il suo modello a tutti gli altri.

E’, dicevamo, una considerazione elementare; ma in questo decennale dibattito, sterile e surreale, sui diritti delle persone omosessuali e delle donne, è proprio il livello più semplice quello che si è perso di vista. E’ assolutamente inutile controbattere a questi fans della dittatura quasi sempre teocratica con argomenti, per quanto fondati e inoppugnabili, come il falsissimo concetto che un bambino per crescere abbia bisogno di due genitori di sesso diverso. E’ un dato di fatto verificabile di persona, andando a vedere cosa succede in quei paesi dove le famiglie omogenitoriali sono realtà e sono riconosciute dalle istituzioni.

L’unica cosa da fare è cacciarli via a spintoni dalla propria vita privata, nella quale nessuno li ha autorizzati a ficcare il naso. Finché non usciranno da quella logica perversa di contrapposizione tra loro e il resto del mondo. Questo, tradotto in metodo di resistenza, vuol dire proprio quello che hanno fatto le donne spagnole sabato scorso: manifestarsi, lottare e resistere, perché nessun diritto è acquisito per sempre.

E, per dirla tutta, vuol dire pure che le due categorie – donne e omosessuali – oggetto della caccia alle streghe dei reazionari di qualunque nazionalità, devono necessariamente unire le forze e lottare insieme.

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Dalla fecondazione in vitro al matrimonio gay

Paolo Bonetti
criticaliberale.it

Nell’ultimo numero di Bioetica ( n.2-3, settembre 2013), trimestrale della laica Consulta di Bioetica (da non confondere con il Comitato Nazionale di Bioetica, organismo governativo a prevalente partecipazione cattolica), il direttore Maurizio Mori ha scritto un editoriale in cui ricorda la figura di Bob Edwards, lo scienziato scomparso nella primavera dello scorso anno e che, assieme all’ostetrico Patrick Steptoe, sviluppò la biotecnologia della fecondazione in vitro con successivo trasferimento in utero dell’embrione che consentì la nascita, il 25 luglio del 1978, di Louise Brown, il primo essere umano nato con la fecondazione assistita. Dopo Louise, felicemente vivente e a sua volta mamma, molti altri bambini sono nati con la stessa tecnica da coppie altrimenti sterili.

Ma la procreazione in vitro, come Mori efficacemente sottolinea, non è riservata esclusivamente a quegli uomini e a quelle donne che hanno problemi di fertilità e, tuttavia, vogliono esaudire un legittimo desiderio di paternità e di maternità. La nuova tecnica procreativa infrange per sempre un modello di famiglia fondato esclusivamente sulla “natura” e le sue presunte leggi morali oltre che biologiche, per rendere possibili, invece, nuove forme di famiglia che si affiancano a quella tradizionale e in cui la procreazione si separa dall’esercizio della sessualità, ma non da quello dell’affettività, che può assumere perfino un carattere di maggiore intensità, poiché nasce dalla piena consapevolezza dell’atto che si compie, delle sue conseguenze e delle sue responsabilità. Si comprendono, così, il rifiuto e la condanna con cui venne accolta, in ambiente cattolico ma non soltanto, la nascita di Louise: quella creatura, che era anch’essa la conseguenza di un atto d’amore, venne considerata da molti teologi e uomini di cultura come il frutto avvelenato e perverso di una violazione, da parte della scienza, della presunta sacralità della natura e delle sue leggi.

Dal loro punto di vista, quei conservatori non avevano torto: essi sentivano, più o meno oscuramente, che un’epoca si stava chiudendo e una nuova morale, legata alla concretezza dell’esperienza e alla conoscenza dei processi naturali e della possibilità di modificarli mediante le nuove tecnologie, stava nascendo e si sarebbe ogni giorno di più affermata, nonostante le molteplici e accanite opposizioni. Lo stesso Edwards dovette attendere ben 32 anni per ottenere il riconoscimento di un meritatissimo premio Nobel per la medicina che gli venne conferito soltanto nel 2010. In Italia poi, ancora nel 2004, venne approvata una legge sulla procreazione assistita, la famigerata legge n.40, che la rendeva sostanzialmente impraticabile e che è tuttora in vigore nonostante sia stata quasi integralmente demolita da diverse sentenze della Corte costituzionale.

Giustamente Mori osserva che la nuova tecnica vede di anno in anno crescere il numero delle persone che ad essa fanno ricorso e c’è allora da chiedersi se, col tempo, essa «diventerà qualcosa di analogo all’elettricità, che in pochi decenni ha sostituito le lampade ad olio e le candele, o l’automobile che ha rimpiazzato il cavallo. Può darsi che in un futuro non troppo lontano la riproduzione naturale sarà pratica di nicchia e residuale, proprio come oggi lo è la cena a lume di candela o un viaggio in carrozza o in calesse».

In questo cambiamento che non ha nulla di innaturale, perché niente c’è di più naturale dell’intelligenza umana e della sua capacità di risolvere problemi altrimenti irrisolvibili, l’Italia giungerà, molto probabilmente, buona ultima. Nel nostro paese, quando si discute di matrimonio fra persone dello stesso sesso, si tira fuori, inevitabilmente, il vecchio argomento della “naturale” e insuperabile sterilità di una coppia omosessuale. Ma questa sterilità può facilmente essere vinta, quando si ha della famiglia una concezione non legata alla semplice anatomia dei due coniugi. E’ curioso notare come i difensori ufficiali della centralità dell’amore nella formazione della famiglia, lo riducano poi alla sua dimensione più elementare, quella anatomico-fisiologica.

Intanto, mentre da noi si cerca faticosamente di riuscire finalmente a far approvare dal Parlamento una legge sulle unioni civili che garantisca almeno alcuni diritti alle coppie omosessuali, negli Stati Uniti – ci ricorda Maurizio Mori – la Corte Suprema il 26 giugno 2013 ha dichiarato incostituzionale parte del DOMA, il Defense Of Marriage Act ossia la legge federale approvata nel 1996 che impediva il riconoscimento automatico del matrimonio omosessuale celebrato in Stati in cui era permesso in altri in cui è vietato. In Italia, perfino parlare di unioni civili è pericoloso, perché Alfano (hai detto un Prospero!) non vuole e si rischia così di far cadere il governo Letta che sta facendo così bene nella soluzione dei problemi economici e non ha tempo da perdere con la fisima capricciosa dei diritti civili.

Ma intanto, mentre nel pollaio di casa nostra continuano le risse fra capponi travestiti da galli (chiedo scusa per un paragone che può sembrare, ma non è, biecamente maschilista), nel vasto mondo la grande rivoluzione biomedica degli ultimi decenni cambia inesorabilmente i nostri parametri morali e ci costringe a rifiutare tanti vecchi luoghi comuni. La politica italiana procede a passo di lumaca, ma la medicina e l’antropologia corrono.